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INSEGNANTI E MIGRANTI “DEPORTATI”

Perchè decine di migliaia di giovani italiani (volonterosi) vanno a Londra? Perchè in Gran Bretagna c’è lavoro (grazie al tanto deprecato liberismo…). Perchè quindicimila insegnanti precari, oggi stabilizzati, dovrebbero trasferirsi dal Sud al Nord? Perchè gli studenti e quindi le cattedre disponibili sono al Nord.
Ma parecchi di loro rifiutano, parlano di “deportazione”, non vogliono uscire nemmeno dalla provincia dove vivono. Perfettamente in linea, va osservato, con quella “mobilità con limitazione geografica” introdotta dal governo Renzi per il pubblico impiego: obbligo di spostarsi, ma entro il raggio di 50 chilometri.
Non che il rifiuto della “deportazione” riguardi solo gli insegnati e il pubblico impiego in genere. Il giornalista Mario Sechi tira in ballo la nostra categoria, noi scribacchini che abbiamo allegramente sdoganato questo termine tanto roboante quanto assurdo; e Sechi afferma: “ c’è una sintonia storica tra chi scrive articoli e chi detta compiti in classe: provate a trasferire un giornalista, non dico dalla sede, ma dalla sua scrivania…”
La caduta verticale del buon senso ci ha fatto perdere una considerazione elementare, un dato di realtà: si trova lavoro dove il lavoro c’è. Non dove non c’è.
In caso contrario la “deportazione” va impedita per tutti. Non solo per gli insegnati del Sud. Anche per nostri giovani che vanno a cercare lavoro all’estero. Anche per i milioni di migranti che il lavoro vengono a cercarlo (in Europa, più che in Italia).
Valesse per i migranti ciò che pretendono certi insegnati meridionali, sarebbe compito e dovere degli Stati africani e asiatici garantire loro un lavoro stabile a casa propria, massimo a 50 chilometri da dove sono nati.
Mica siamo nazisti, mica accettiamo di favorire la loro deportazione…(che Galantino sia un Kapò?).

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