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IL TESTAMENTO DI ROBERTO

L’artista di popolo non è mai amato dagli altri artisti. Anche Roberto Puliero, autentico artista di popolo, era (mal) sopportato nel suo ambiente. Troppo famoso e popolare. Molti colleghi si sentivano in ombra e sparlavano: “Qualche teatrante invidioso diceva che riempivo i teatri solo perché il Verona ha vinto lo scudetto, mentre qualcuno che voleva scritturare la compagnia chiedeva ‘ma è quella di quel Puliero che fa el paiasso?'”, mi raccontò l’estate di due anni fa, seduti uno di fianco all’altro nel retropalco del cortile dell’Arsenale.

Anche qualche giornalista poco tollerava Puliero. Per lo stesso motivo: il cantore conosciuto era Roberto, mica il cronista di turno che mentre ne sparlava anelava con invidia misera e feroce alla sua fama. Quando è stato allontanato dalle radiocronache, qualcuno di sottecchi se la rideva pure. Piccole e ottuse gelosie da strapaese. Ma c’è di più: pensate che Roberto con la sua “Edicola” televisiva – satira sferzante sul conformismo e sulla mediocrità e sgrammaticatura (estetica ed etica) di un certo giornalismo – si fosse fatto nuovi amici?

La verità era che Roberto era l’attore, il poeta, il cantore della gente. Nessuno a Verona, nell’epoca moderna, è stato come lui. Un’icona. Ce ne stiamo accorgendo più che mai in questi giorni che piangiamo la sua morte. Roberto è tanti ricordi sociali, collettivi. Roberto per migliaia di persone è la domenica pomeriggio. Roberto è il 33 giri del post scudetto che ascoltavi la domenica mattina con papà e mamma cantando fino alle lacrime. Credo che molti di noi si sentano un po’ più vecchi e pure un po’ orfani. Come se gli anni passati ci avessero chiesto il conto. Ci resta sabbia tra le mani. Cupi, impotenti e un po’ più soli, siamo noi.

Roberto ha segnato un’epoca e un’epica. Epopea meravigliosa, irripetibile e indimenticabile. Il suo testamento morale e culturale però rimane e spero che qualcuno (anzi tanti), in questa dormiente città, possa coglierlo: il vero intellettuale (e Roberto lo era) non se la tira con sciccherie snob, unisce l’alto con il basso, sa comunicare, regala generosamente la cultura alle masse. E le migliora. Roberto mi disse: “Il mio è un teatro popolare, divertente o drammatico che sia, di chiara lettura e ampio respiro spettacolare. Amo coinvolgere la gente, per questo ho fatto diversi adattamenti anche di testi importanti. Se oggi il teatro è meno conosciuto è colpa dei teatranti che fanno delle cose pallose, difficili. Prendi la tragedia greca, la puoi leggere, la puoi studiare, ma non proporla a teatro”. Arrivare al popolo, per lui, non significava abbassare il livello, al contrario: “Ho un debole per Goldoni, questo però è anche molto pericoloso. Ci sono molte compagnie di attori modesti che dicono ‘femo Goldoni perché el fa ridar, perché è in dialetto’. Lo conoscono superficialmente, Goldoni è un grande autore universale, rappresentato in tutto il mondo. Il rischio così è di declassarlo a folclorismo e io odio il dialetto come folclore, come comunicazione rozza, mi è sempre piaciuto portare in teatro il dialetto alto, quello del Ruzante. Il mio intento è far conoscere Goldoni per quello che è e per farlo tagliuzzo molto, anche intere scene, ma il miglior modo per esser fedeli a un classico è non essergli fedele del tutto. So che lui sarebbe contento, mi direbbe bravo, ai miei attori dico che io con Carlo ci parlo”.

Roberto è stato il nostro Giorgio Gaber. Ti sia lieve la terra.

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