Il comunicato con cui il Verona ha “segnato” il proprio territorio non ha un paragone negli anni. Qualcuno dirà “finalmente”, dopo che per anni chi manovrava l’Hellas Verona aveva la faccia e lo sguardo voltati da un’altra parte. Dietro le parole della società c’è in effetti un netto cambio di strategia. I colori gialloblù e la Scala, dicono i dirigenti del Verona, sono solo nostri e appartengono alla nostra storia e alla nostra tradizione. Perchè, al di là dei distinguo, (“i colori gialloblù erano nostri anche prima di fare il derby, la Scala è della Provincia ed è già stato sulle nostre maglie…”) è palese ed evidente il tentativo di creare una sovrapposizione tra le due realtà calcistiche cittadine. Un problema che è rimasto per anni sotto traccia, almeno a livello istituzionale. Ma già abbondantemente scandagliato dalla tifoseria dell’Hellas che ha vissuto tutto questo come una “rapina d’identità”. I colori e i simboli sono importanti per l’identificazione calcistica e mai si è avuto un caso come quello che abbiamo vissuto a Verona in questi anni. Cioè una piccola società, arrivata meritatamente in serie A, famosa per essere la squadra di un quartiere che ha svestito completamente questi panni (cioè quelli che l’hanno resa famosa in tutto il mondo…) per inseguire come una chimera l’immagine che è sempre appartenuta all’altra, nel frattempo nobile decaduta.
Nessuno può dire che il Cangrande che campeggiava domenica in una pubblicità, con il suo cavallo sopra alla città, pur essendo un marchio depositato e registrato da Luca Campedelli, appartenga in effetti alla “tradizione” del Chievo. Anzi: quel Cangrande era stato per anni un vessillo di un gruppo di tifosi della Curva Sud. Ora il comunicato del Verona darà la stura a infinite polemiche, a distinguo cavillosi, ma non cambierà la sostanza della faccenda. Ogni società calcistica dovrebbe essere orgogliosa del proprio passato, della propria tradizione e delle proprie origini, qualunque esse siano. E il Verona lo è sempre stato, questo mi pare chiaro.
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