E’ iniziato tutto là. Ma forse era giusto che andasse così. Il Verona di Peppe Cannella e di Piero Arvedi crollò, dopo una disperata rincorsa. Il Verona, che prima di allora era stato solo una volta in serie C, conosceva l’onta della retrocessione. Quel Verona, è bene dirlo, era figlio di Giambattista Pastorello che lo aveva abbandonato a se stesso e sull’orlo del fallimento. Arvedi si affidò a Cannella, che era l’uomo di don Pasquale Casillo.
A La Spezia, il sogno si infranse sull’occasione sciupata di Cutolo. Al Bentegodi non si riuscì a segnare. Il Verona retrocesse tra gli applausi di un’intera città. Una lezione di civiltà sportiva che viene frettolosamente dimenticata da chi riesce a strumentalizzare anche un coro di un paio di deficienti.
Da quattro anni l’Hellas Verona e i suoi tifosi sono dentro un incubo. L’incubo che nel frattempo ha cambiato nome ed è diventata la Lega Pro è una palude che ti tira giù e dove il blasone diventa un macigno e non una forza propulsiva.
Il Verona domenica torna sul luogo del delitto. Giannini e i suoi ragazzi con quella storia non c’entrano nulla. Ma è giusto che la conoscano e sappiano che quella contro lo Spezia non è una gara normale per noi.
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