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L’UNITA’ D’ITALIA DEI CIECHI

 

 

L’unità d’Italia non esiste nemmeno con i ciechi. In Veneto infatti ce ne sono poco meno di 7.000 su una popolazione di 4.527.694 abitanti, mentre in Sicilia – 4.968.991 abitanti – ce ne sono oltre 30.000. Sarà una malattia, tipo l’anemia mediterranea; sarà colpa degli specchi ustori che Archimede inventò a difesa dei Siracusani. Fatto sta che sono il quadruplo.

Il dato lo fornisce uno che di ciechi se ne intende, Davide Cervellin imprenditore dell’alta padovana, cieco lui stesso, che produce ausili tecnologici a beneficio degli ipovedenti.

Il Corriere ha pubblicato l’inchiesta “i conti del federalismo” che certifica la totale disunità d’Italia. Regioni una diversa dall’altra su tutto: costi del personale, della sanità, degli organi istituzionali, numero di invalidi. Restiamo a quest’ultima voce che allarga il discorso dei ciechi. Il Veneto è la Regione più sana con solo il 2,4% della popolazione che intasca l’assegno d’invalidità dell’Inps; metà della Sardegna dove sono invece il 4,8%.

A dimostrazione che tutta l’Italia tende ad essere Meridione, ci sono anche regioni del Nord come la Liguria (3.7%) e del Centro come l’Umbria (4,6%) ben al di sopra della media nazionale di invalidi. Il dato di cui vergognarci è che salta perfino l’unità d’Europa, nel senso che in Italia abbiamo il doppio di invalidi della Francia e della Germania! E qui delle due l’una: o diamo una spiegazione razziale e razzista, oppure dobbiamo ammettere di essere diventati un popolo di cialtroni.

Ma la spiegazione di fondo la fornisce proprio Davide Cervellin denunciando che “le politiche assistenziali dei governi hanno privilegiato la monetizzazione dell’handicap alla costruzione di servizi o al soddisfacimento dei bisogni per realizzare le pari opportunità”. “Ne consegue – prosegue Cervellin – che chi è cieco o tetraplegico riceve dallo Stato, tra pensione sociale e indennità d’accompagnamento, una somma che corrisponde all’incirca ad uno stipendio, cosicché queste persone sono disincentivate a cercarsi un lavoro e rimangono chiusi in casa in attesa che arrivi il giorno del mese in cui andare a ritirare la pensione”.

Un analisi tanto chiara quanto terrificante: dando la pensione al disabile, invece che metterlo con le tecnologie e i servizi in condizione di lavorare e guadagnarsi uno stipendio, non solo graviamo lo Stato di costi pesanti ma, soprattutto, rinunciamo all’apporto che potrebbero dare alla comunità i diversamente abili. Li condanniamo all’emarginazione, a restare diversi. Abbiamo cancellato le classi differenziali, considerate incivili, ma diamo loro una vita differenziale, priva cioè della dignità del lavoro.

Questo è successo con i disabili veri. Ma c’è di peggio. Perchè le politiche assistenziali dei governi hanno trasformato anche gli abili in disabili. Largheggiando con i posti pubblici, le invalidità fasulle, i contributi e i forestali vari, abbiamo messo anche le persone sane nella condizione di starsene a casa (o in ufficio, o ad appiccare il fuoco sulla Sila) “in attesa che arrivi il giorno del mese in cui andare a ritirare la pensione” o lo stipendio.

Col che si comprende che c’è una differenza molto più profonda che tra abile e disabile: è la cultura del lavoro contrapposta a quella dell’assistenza. Abbiamo scelto la seconda trattando così l’intero Meridione, e via via anche il resto del Paese, nello stesso modo infame, incivile e umiliante in cui trattiamo un cieco o un tetraplegico.


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