Gli studenti universitari che protestano contro la riforma Gelmini (pochi: massimo 20 mila su 500 mila iscritti) non lo fanno per la questione pratica ed evidente di lauree che non garantiscono più un posto sul mercato del lavoro; lo fanno per una questione ideologica: temono cioè che l’università vada “in mano ai privati”. Credono che pubblico sia bello e di tutti (loro compresi); privato invece solo a vantaggio degli speculatori, degli affaristi, delle imprese. In breve sono fermi, surgelati, alla visione del mondo dell’Ottocento proto comunista.
Non capiscono che se i jeans che indossano, invece che essere prodotti da speculatori privati che si chiamano Dolce&Gabbana piuttosto che Fiorucci, fossero pubblici, cioè prodotti dallo Stato, loro si ritroverebbero con gli stesso abiti informi e sdruciti che indossavano le popolazioni dell’Est europeo (E costerebbero più dei jeans della Diesel). Proprio come sempre più informe e sdrucita è la nostra scuola pubblica, la nostra università.
Altro slogan dell’Ottocento proto comunista: “Ci sono servizi essenziali, come la sanità, come l’istruzione, che devono essere erogati dallo Stato come garanzia per il cittadino, che non possono mai essere privatizzati”. Aggiungiamo un altro servizio, o diritto, essenziale: la mobilità. E immaginiamo che vanga erogato dal pubblico: noi paghiamo una tassa in più o lo Stato ci compera lui l’automobile. E’ più probabile che ci ritroveremo tutti ad avere una Duna al costo di una Golf o una Golf al costo di una Duna?…
Finché era “statale”, cioè mantenuta dai contributi pubblici, la Fiat poteva permettersi di produrre auto come la Duna, appunto, come la Uno, come la prima Punto. Poteva sopravvivere senza confrontarsi con il mercato. Adesso invece deve fare i conti con la Volkswagen, con la Toyota, con la Renault, ed è tornata a produrre auto decenti.
Stessa cosa avviene con le nostre università. Finché non devono confrontarsi con nessuno, finché hanno l’alibi di distribuire titoli di studio con valore legale, possono continuare a fabbricare le Duna della cultura, ossia la preparazione universitaria più sgangherata d’Europa. Se ne esce solo rimettendo i soldi in tasca ai clienti e dando loro la possibilità di scelta, proprio come avviene con l’acquisto dell’auto.
Altro che pagare a priori le tasse per un’istruzione che non istruisce, che funziona come una Duna o una Trabant: soldi in tasca alle famiglie, agli studenti, e che siano loro ad andare a comprarsi l’università che vale la pena di essere acquistata. In Francia o in Germania o in Inghilterra, o anche in Slovenia. Oggi che viviamo nel mondo globalizzato, oggi che ci diciamo cittadini europei, non abbiamo certo bisogno dell’università sotto casa, della facoltà per ogni campanile: che lo studio diventi un’occasione in più per far conoscere il mondo ai nostri bamboccioni
E che tornino a casa, a ricomprare un’università italiana, solo se e quando i nostri atenei avranno smesso di sfornare Duna
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