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L’AUTO-MACELLERIA SOCIALE

 Se vogliamo chiamare “macelleria sociale” la norma che riguarda la (purtroppo solo parziale) liberalizzazione dei licenziamenti, come fa il sindacato teso a drammatizzare, abbiamo almeno il pudore di aggiungre che è una “macellera sociale” europea, ossia imposta al nostro Paese dai patner europei.

Non è infatti che la Bce, la Merkel e Sarkozy, si siano limitati a pretendere il risanamento dei conti, lasciandoci liberi di decidere come arrivarci. Non è che – ad esempio – possiamo continuare a spendere e assumere pubblici dipendenti, purchè aumentiamo le tasse e, magari con una bella patrimoniale all’anno, arriviamo appunto al pareggio. Non è così.

L’Europa ha fatto come Tremonti con i sindaci. Il quale non si è limitato a ridurre loro i trasferimenti, lasciandoli liberi di decidere dove e come risistemare i bilanci, ma ha precisato: va tagliata la cultura di tot, va tagliata la comuniczione di tot altro, e così via. Allo stesso modo la Ue ha imposto all’Italia, come alla Grecia, di tagliare la spesa pubblica, di ridurre i dipendenti pubblici, di innalzare l’età della pensione e, appunto, di liberalizzare il mercato del lavoro; cioè di superare quel residuo novecentesco che è lo Statuto dei lavoratori, col suo articolo 18 che impedisce i licenziamenti e che – questo è il punto che i sindacati fingono di ignorare – non esiste in nessun altro Paese occidentale moderno.

Oggi le esigenza della crescita e dello sviluppo impongono una svolta epocale, per certi versi simile al passaggio dalla schiavitù al lavoro salariato. Ed il posto fisso di lavoro ha più di un’assonanza con lo schiavismo: allora il rapporto a vita lo imponeva il padrone al lavoratore, oggi vorrebbe imporlo il sindacato all’imprenditore. Per il soggetto interessato – ieri lo schiavo, oggi il dipendente – è comunque una fregatura perchè limita la libertà e le potenzialità di crescita economica.

Se vogliamo anche lo schiavismo prevedeva una sorta di welfare, nel senso che il padrone doveva comunque provvedere ad alloggiare e nutrire lo schiavo anche quand’era ammalato o quando invecchiava; anche quand’era improduttivo. Tant’è che Gillo Pontecorvo, in un celebre film degli anni Sessanta “Queimada”, sosteneva che erano stati i padroni a scegliere di passare dalla schiavitù al lavoro salariato che trovavano più conveniente…

In realtà per il lavoratore l’abolizione della schiavitù significò opportunità prima impensabili; e altrettanto avviene (avverrà) oggi quando e se usciamo dalla logica micragnosa del posto fisso a vita. Certo: dobbiamo essere noi la prima tutela per noi stessi. Non ci tutela più lo Stato né il welfare né il sindacato. La garanzia ci deriva dalla nostra professionalità, dalla competenza e dalla voglia di lavorare.

Conosco una brava ragazza (non tantissime, ma ce ne sono diverse) che fa l’università a pieni voti e con gli esami in regola, e che si mantiene pure facendo la cameriera. Lo fa talmente bene che i bar e le pizzerie se la contendono, al punto che è lei a decidere per quante sere la settimana lavora e per quante ore. E i datori di lavoro accettano. E’ appunto lei che si tutela.

Fosse uno di quei camerieri svagati che portano un piatto alla volta con due mani, dovrebbe invocare lo Statuto dei lavoratori e iscriversi al sindacato. E nemmeno basterebbe ad evitare di perdere il posto…

Nessun datore ha mai licenziato un dipendente serio e capace, a meno che l’azienda non andasse in crisi. Nel qual caso il dipendente (serio e capace) ha sempre trovato un’occupazione alternativa in tempi accettabili.

E’ inutile, anzi è vergognoso, agitare la “macelleria sociale” illudendosi di conservare le tutele di un passato che è, appunto, passato. Oggi o sai essere un soggetto del nuovo mercato globale; oppure sei un servo, non della gleba ma del sindacato, che si automacella.

 

 

 

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