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INTERCETTAZIONI E GIUSTIZIA ALL’ITALIANA

 

 

Il mondo dei mezzi d’informazione è indignato e mobilitato contro le misure che sta adottando la maggioranza per impedire la pubblicazione delle intercettazione e di altri atti giudiziari prima del processo. La battaglia – come tutte le battaglie – viene condotta con parole d’ordine tanto nobili quanto roboanti: non vogliamo bavagli alla libertà d’informazione! Va tutelato il diritto dei cittadini ad essere informati sui procedimenti penali!

Per carità: giustissimo! Siamo tutti democratici e antifascisti! Se posso aggiungere, sommessamente, mi pare però che andrebbe tutelato anche il diritto degli estranei a non finire nel tritacarne mediatico-giudiziario, come accaduto al povero Pupi Avati solo perchè era nella lista di Anemone. E quindi andrebbe trovato quell’equilibrio, finora mancato, tra libertà d’informazione e divieto di sputtanamento.

Ma il problema vero e serio mi pare un altro. I cittadini, prima ancora del diritto di essere informati, dovrebbero avere il diritto ben più sostanziale ad una giustizia che funzioni, cioè che arrivi a comminare pesanti sentenze definitive ai rei che se le meritano. Invece abbiamo, ahimè, una giustizia all’italiana (o all’amatriciana) che funziona solo con futili sentenze preventive (comminate dai pm e non dai giudici…) che consistono, appunto, nel finire nel tritacarne mediatico – cosa che spaventa ben poco corrotti e corruttori veri, col pelo di ordinanza sullo stomaco – e nel finire, quando proprio va male, in carcere preventivo per tre mesi. Come Anemone. Cosa anche questa che i delinquenti veri possono mettere in preventivo e affrontare senza angosce particolari.

Mentre alla sentenza definitiva, agli anni di carcere senza sconti, non si arriva mai. Ve ne ricordate uno che sia stato condannato in terzo grado a una pena pesante? E’ realistico pensare che Tanzi piuttosto che Balducci o Anemone o Scajola subiranno una seria condanna definiva? Non direi.

Marco Travaglio sostiene che è tutta colpa di Berlusconi, che il Cavaliere, tra processi brevi e prescrizione corta, ha fatto di tutto per bloccare la macchina della giustizia. Accusa che sarebbe vera se la macchina avesse funzionato in modo accettabile prima della sua discesa in campo. Ma ricordate Tangentopoli, consumata quando Berlusconi non aveva alcun potere legislativo? Quante delle migliaia di persone finite sui giornale e in carcerazione preventiva hanno poi subito la condanna definitiva ad anni di galera? Esageriamo e diciamo cinque in tutta Italia?…

Viene così a mancare un elemento fondamentale per combattere la corruzione e il malcostume politico-affaristico: la deterrenza della pena certa. Dal momento che è l’occasione che rende l’uomo ladro, guardiamoci allo specchio e domandiamoci: se avessi il ruolo e l’opportunità di intascare milioni di euro pilotando i mega appalti pubblici, sarei forse dissuaso dall’idea di dovermi fare massimo 90 giorni in cella? O riterrei che il rischio valga ampiamente il malloppo?

Questa comunque è la vera anomalia italiana, ben più del divieto alla pubblicazione. Questo succede solo da noi e in nessun altro Paese che abbia una giustizia efficiente. Su questo dovrebbero ingaggiare una battaglia senza quartiere tutti i mezzi d’informazione. Invece è più comodo ergersi a paladini della libertà di stampa per…garantirsi di poter continuare a fare i travet che pubblicano le veline uscite dal Palazzo di Giustizia.

 

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