Tardiva (ma sicura!) voglio esprimere tutta la gioia che sento per il ritorno in biancoscudato di Emanuele Pellizzaro che vestirà l’anno prossimo i panni del viceallenatore di Carlo Sabatini. Ho sperato a lungo in questi anni che "Pejo" (questo il suo storico soprannome, a dispetto della realtà perchè lui è sempre stato uno dei "meglio") tornasse a casa. O meglio, mi son spesso detta che il Padova, dopo aver aperto le porte dirigenziali a “Checchi” De Franceschi costretto a lasciare il campo per un problema cardiaco, avrebbe dovuto offrire la medesima opportunità anche a uno come Pellizzaro perché ci avrebbe sol che guadagnato.
Il motivo di questo mio desiderio è semplicissimo e, per farvelo capire appieno, salgo per un attimo sulla macchina del tempo. Seguo il Padova, come giornalista, dal 1999. Cioè da quando è precipitato nell’inferno e nello stesso tempo nell’anonimato della C2. Per motivi ovviamente anagrafici, della gloriosa squadra del “paròn” Nereo Rocco che scrisse la pagina padovana in serie A ho purtroppo solo sentito parlare dalla viva voce e dagli aneddoti di Aurelio “Lello” Scagnellato e letto la storia nei libri e negli almanacchi, cercando di respirarla a pieni polmoni ogni volta che mi soffermo, nei corridoi dello stadio Euganeo, a guardare le gigantesche fotografie in bianco e nero (praticamente delle riproduzioni a grandezza naturale) che sono appese sui muri. Quando vedo quei murales, quando incontro il mitico Lello che, con il sorriso dei grandi sulle labbra e un bastone per camminare che mai potrà impedirgli di stare vicino al “suo” Padova, provo dentro un’idea di calcio lontanissima da quella attuale. Mi rappresento cioè in testa un pallone neanche lontano parente di quello che mi ritrovo a vivere, da cronista, attualmente. Un calcio “passione”, “sacrificio”, “genio”, “costanza”, “tenacia”, un po’ come quando penso al calzolaio che da cinquant’anni ha la bottega a pochi metri da casa mia e ogni mattina la apre e aggiusta le scarpe con lo stesso “attaccamento alla maglia” di mezzo secolo fa. Ed è una delle rarissime occasioni in cui rimpiango di non essere nata prima.
Torno allora al 1999. E a Pellizzaro. Ecco Pellizzaro (e non solo lui: come dimenticare il mitico Felice Centofanti, o Renzo Tasso, Andrea Bergamo e Alex Ferronato, tanto per citarne altri?) rappresenta per me la parentesi di questo Padova precipitato nell’anonimato che più si avvicina a quel groviglio di sensazioni che provo ogni volta che Lello mi racconta di quando Rocco urlava a lui e ai suoi compagni con l’inconfondibile cadenza triestina: “No stasì fare i mona!”. Oltre a essere stato protagonista della storica promozione in A del 1994, Pejo è infatti stato anche il perno dell’ultima formazione biancoscudata che ha raggiunto i playoff, nel 2003. L’ultima formazione che mi ha dato l’impressione di avere dei valori davvero cementati, forti, a prova di qualunque terremoto. Quando all’epoca andavo al campo di allenamento, le interviste si trasformavano spesso in chiacchierate costruttive, le critiche in occasione per conoscersi meglio, le litigate in sale di un rapporto che evolveva e faceva crescere entrambe le parti. Non c’era critica o pagella sotto il 6 che potesse rompere quelle solide fondamenta. Mi piace dunque pensare che il ritorno di Emanuele rappresenti la forza (insieme alla “grinta” innata di mister Sabatini) in grado di dare al Padova di adesso una decisa spruzzata del Padova di allora. Perché oltre ad essere gladiatore d’altri tempi, l’ex trottolino di fascia destra è pure padovano di nascita (è nato a Cadoneghe il 26 luglio del 1970): conosce quindi alla perfezione lo stato d’animo ferito della piazza perché è il suo stato d’animo.
Che errore fu, a giugno del 2003, smantellare quasi per intero quella squadra e disperdere i suoi valori più importanti. Meno male che, almeno stavolta, la società ha dimostrato di saper imparare dai suoi errori ed è andata a recuperare uno dei TESORI più preziosi che si era lasciata sfuggire.
BENTORNATO PEJO!
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