Perlomeno è riuscito a risparmiarsi gli ipocriti, Carlo Petrini. E quegli odiosi e laudatori cori delle “prefiche” che seguono ogni morte di un personaggio pubblico. Il controverso “Pedro”, ex attaccante di Genoa, Milan, Roma, Bologna e Verona, è rimasto solo fino alla fine. Anzi, oltre. Pure al funerale erano in pochi a ricordarlo. Delle sue ex società solo la Roma, col dg Franco Baldini (suo amico vero), era presente alla cerimonia. Nessun dirigente federale, solo due vecchi compagni di squadra, Hamrin e Fogli, la vedova dell’ex calciatore della Fiorentina Bruno Beatrice (morto di leucemia linfoblastica si sospetta per uso di doping) e la mamma di Denis Bergamini, il difensore del Cosenza “suicidato” dalla ‘ndrangheta calabrese nel 1989, secondo le ricostruzioni della Procura di Castrovillari, che ha riaperto l’inchiesta dopo vent’anni grazie anche al libro dello stesso Petrini (“Il calciatore suicidato”, pag. 148, Kaos ed.).
E il resto del mondo del calcio? Silenzio tombale. Silenzio di imbarazzo, ripicca, timore. Ma non di indifferenza. Un silenzio chiassoso, che troneggia, dispiega e parla. Un trafiletto di poche righe sulla Gazzetta il giorno dopo il funerale. Una notizia flash senza servizio e senza inviati il giorno della sua morte sulle tv nazionali. E rari e generici accenni all’attività di denuncia dei mali del calcio (doping e scommesse) che Petrini ha compiuto negli ultimi vent’anni. Decisamente meglio spendere fiumi di inchiostro e di giaculatorie post mortem per il latitante Chinaglia. O versare litri di retorica per il funerale “celebrato” da Ligabue del povero e incolpevole Morosini (si parla quando bisognerebbe tacere, e viceversa).
Chiariamoci, Petrini come ho ricordato sopra è personaggio controverso. Che in quel calcio chiacchierato degli anni ‘70 ci ha navigato comodamente tra “siringhe, punture e scommesse” (parole sue). “Ero un mercenario, che pensava solo a drogarsi, scopare, incassare assegni e alterare i risultati. Un presuntuoso. Un coglione. Uno che credeva di essere un semidio e morirà come un disgraziato. Ero bello, forte, ricco, invidiato. Avevo tutto e ora non ho niente”, diceva il 28 dicembre scorso al Fatto Quotidiano, nella sua ultima intervista. Raccontava che lui, come molti altri, accettava volutamente quel sistema: “Venivamo da famiglie poverissime e rifiutare le punture, le pastiglie di Micoren, le terapie selvagge ai raggi X significava essere eliminati. Fuori dal circo. Indietro, in cantina, senza ragazze e macchine di lusso. Nei nostri miserabili tinelli, con la puzza di aringa che mia madre metteva in tavola un giorno sì e l’altro pure”. E anche dopo, una volta smesso col calcio, “Pedro” è entrato in giri finanziari con la malavita ed ha dovuto rifugiarsi in Francia per scappare alla giustizia. Spingendosi addirittura alla miseria umana di non voler andare a trovare il figlio morente, nonostante i disperati appelli di quest’ultimo, pur di non tornare in Italia ed essere arrestato. E’ evidente che non stiamo parlando di un monaco tibetano.
Ma Petrini è anche quello che ha pagato tutti gli errori fatti. Petrini si è ammalato di tumore al rene, al cervello e al polmone. Ha sofferto di un glaucoma che lo rendeva cieco. Tutto a causa del doping, sosteneva lui. Fino a morire a 64 anni. Petrini è stato squalificato per il calcio scommesse. Petrini ha vissuto anni nel senso di colpa per il figlio. Petrini, soprattutto, ha fatto nomi e cognomi nei suoi libri (in primis “Nel fango del Dio pallone” pag. 168, Kaos ed.), anche importanti, e raccontato fatti circoscritti. Senza, per inciso, ricevere mai una querela. Un pentimento tardivo, certamente, forse da persona ferita e inacidita, ma reale e non sospetto.
Voglio dire, la sua testimonianza non va accettata acriticamente. Tuttavia va colta, discussa, registrata, approfondita. Snobbarla invece significa lavarsene pilatescamente le mani, quasi si volesse dimenticare, così che il circo vada avanti. Facile poi che venga in mente la sibillina frase di Marcello Lippi, qualche anno fa, alla partita per Borgonovo, l’ex centravanti di Milan e Fiorentina malato di SLA: “A Stefano dobbiamo stargli vicini, perché lui non ha sparato fango sul mondo del calcio”. Carità pelosa. Omertà fastidiosa. Siamo tutti una grande famiglia, no?
“Pedro” invece ha parlato. “Non insinuo. Affermo, ma non ho prove, nonostante l’impegno del procuratore Guariniello hanno nascosto tutto”. “Pedro”, che non è stato un grande uomo. Anzi. Ma è un uomo che ci ha raccontato e lasciato qualcosa di importante. Preferiamo dimenticarlo?
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