La definizione più vera l’ha data lo scrittore inglese Tim Parks, nel suo best sellers di dieci anni fa “Questa pazza fede”: “Il Chievo è un sottoprodotto del moderno calcio televisivo”. Quel calcio figlio delle pay tv, dei diritti televisivi, di grossi introiti finanziari garantiti a prescindere solo per il fatto di essere in serie A, al di là del numero dei tifosi, della “piazza” o della passione al seguito. Un calcio virtuale. Aggiungo: il Chievo è come una ragazza carina ma frigida. Non seduce, non incanta, non fa sangue.
Precisazione d’obbligo: nulla contro la società Chievo, peraltro bravissima a gestire tali introiti facendo sempre squadre competitive, e sufficientemente scaltra da essersi creata (dopo la retrocessione del 2007) pure le giuste amicizie politiche nel “palazzo” rotondolatrico. Chapeau. E nulla contro i suoi tifosi, pochi quelli veri, ma rispettabili proprio perché veri.
Tuttavia è giusto scalfire quella retorica pelosa, fatta di giaculatorie talmente magnificenti che neanche l’Istituto Luce nel “ventennio”, di cui il Chievo è portatore insano. La “favola di quartiere in serie A”, “Davide contro Golia”, “la salvezza è il nostro scudetto”, “dal Bottagisio alla Champions”, “i giocatori che vanno al bar Pantalona, così semplici e così buoni, antidivi e come tutti”. Tutte frasi celebrative che nascondono verità non di poco conto. Il Chievo fin dagli anni ’80 è appoggiato finanziariamente non dal falegname sotto casa mia, ma dalla Paluani, industria dolciaria tra le più importanti. E fin da prima del suo arrivo in serie A ha trovato forza nell’alleanza con la Banca Popolare, mica pizza e fichi. Voglio dire, io questo “miracolo” non ce lo vedo e non ce l’ho mai visto.
Per me il Chievo, economicamente, da tanti anni è una società come tante e fra tante. Ne più ne meno. Anzi di meno ha i tifosi. Come ricordavo prima: pochi quelli veri. Questa è la grande fortuna di Campedelli e Sartori, che senza alcuna pressione popolare possono usare il Chievo come fonte di (legittimo) guadagno. Come se la società fosse la loro aziendina e non un club sportivo, che come tale dovrebbe anche sognare e far sognare. Povero ingenuo chi ancora ci spera, nutre ambizioni e sogni di gloria. Ai due la gloria non interessa, sono più prosaici. Tanto sanno che nessuno mai li disturberà. Sanno che a proteggerli ci sarà sempre la retorica, quella che “la salvezza è il nostro scudetto”, ben pubblicizzata dai “megafoni” di riferimento, pennivendoli e capiredattori noti in città. Ma vi siete mai chiesti perché i due da sempre adottano questo fastidioso e falso basso profilo? Certo non per motivi caratteriali (Campedelli e Sartori in privato non sono assolutamente minimalisti), ma perché tale atteggiamento è la loro àncora di salvezza. Così tutto è e sarà loro sempre concesso.
Il risvolto della medaglia è che il Chievo non attecchirà mai nel cuore della città. Ma a Campedelli questo non frega più di tanto. Lui, uomo di discreto spessore intellettuale, sa che Parks ha ragione: il suo club è un “sottoprodotto del moderno calcio televisivo”. Un calcio dove i tifosi non contano nulla.
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