“Servono stadi nuovi, i nostri sono vecchi”. Lo dicono tutti, i presidenti dei club, i politici, i tifosi. Lo si dice da tempo, più o meno da dopo Italia ’90, quando ci si accorse (quasi) immediatamente che le ristrutturazioni dei vecchi stadi e la costruzione dei pochi nuovi (San Nicola e Delle Alpi) in occasione dei Mondiali erano fuori dal tempo per struttura, design e forma. Un’occasione sprecata, insomma, quel Mondiale, non solo per gli azzurri di Azeglio Vicini (da poco 80enne, auguri!), ma soprattutto per il calcio italiano. Non certo, tuttavia, per i palazzinari e i politici che in piena epoca tangentopoli (fine anni ’80) ingrassarono con le vacche grasse da mungere degli appalti truccati e delle “stecche” versate sui conti esteri.
“Servono stadi nuovi” è uno stanco refrain, ma Juventus a parte – che peraltro ha costruito lo stadio nuovo solo grazie ai “buoni uffici” degli Agnelli con l’allora sindaco Chiamparino, che ha ceduto il suolo dell’ex Delle Alpi sottoprezzo, con buona pace dei torinesi a cui del calcio non frega nulla – di stadi nuovi non se ne vedono. Perché? I presidenti accusano i politici: “Il Parlamento non ha mai approvato una legge sugli stadi”. Molti politici, di rimando, replicano che c’è il rischio che i presidenti prendano a pretesto lo stadio e l’appeal che esso può avere sui tifosi per speculazioni e lottizzazioni più grosse. Il che è vero.
Chiarendo che la legge sugli stadi dell’onorevole Alessio Butti è stata scritta ed emendata ed è al momento ferma al Senato dopo essere passata al vaglio dell’apposita commissione parlamentare, il buon senso dell’uomo della strada suggerirebbe: se i presidenti vogliono lo stadio di proprietà, ergo privato, se lo facciano coi loro soldi, a che serve una legge statale? Domanda retorica, ovviamente, in un paese in cui la commistione “politica, Stato e affari” è un must. La legge serve perché i proprietari dei club, spesso loro stessi costruttori o in affari con costruttori, non si accontentano dello stadio, vogliono l’esclusiva di lottizzazione in una vasta area limitrofa al sorgere del nuovo impianto, paradiso terrestre dove costruire centri commerciali, appartamenti ecc. Un grande, grosso e grasso business, in buona sostanza. Ovviamente il tutto coronato, giusto per non farsi mancare niente, da possibili sconti sul valore delle aree comunali nelle quali costruire e ovviamente incuranti dell’impatto ambientale.
La questione “verde” d’altro canto tocca le corde delle “lobby” ambientaliste (in particolare Legambiente e WWF) , che col loro manicheo idealismo sono l’altra faccia della stessa medaglia del cinismo dei costruttori-presidenti. Gli uni (i costruttori) bloccano la legge perché vogliono troppa libertà di azione, gli altri (gli ambientalisti) – al contrario – spesso ne fanno una questione di principio. Risultato? Tutto fermo e bloccato, altroché pragmatismo britannico, tra deroghe, emendamenti, compromessi ed eccezioni. Una vicenda molto italiana, insomma.
Salvo due eccezioni, chiaramente molto diverse tra loro. Una è quella dei Pozzo, ed è a mio avviso la strada da seguire, con l’Udinese che presto avrà il nuovo stadio (che non sarà altro che il vecchio Friuli ristrutturato e ammodernato), grazie a un accordo intelligente stipulato col comune: tu Comune mantieni la proprietà, io Udinese ottengo in comodato d’uso i diritti di superficie per i prossimi 99 anni. Delle spese di costruzione se ne farà carico la famiglia Pozzo. In tutto un investimento da 31 milioni, un costo contenuto per un impianto moderno da 25 mila posti. L’altra è quella di Cellino arrestato e finito ai domiciliari perché accusato di essersi fatto lo stadio “Is Arenas” coi soldi pubblici. Della serie privatizziamo gli utili e socializziamo le perdite, o i costi. A pensarci bene, il tutto molto italiano anche questo.
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