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CAVALLO PAZZO

C’è sempre un inizio. Una prima immagine che poi è per tutta la vita. Gli amori nascono così. Pioveva in quel pomeriggio dell’11 ottobre del 1987 e io a San Siro bagnai (è proprio il caso di dirlo) la mia prima trasferta. Un regalo anticipato del mio settimo compleanno. Inter-Verona, viaggio in treno con famiglia. All’epoca con l’Inter si era gemellati e l’unico “fuori programma” da bollino rosso accadde durante il viaggio di ritorno, passando da Brescia, quando i tifosi intonarono un famoso coro in rima sulla facilità amatoria – diciamo così – delle bresciane.

Ma io ricordo soprattutto lui: Preben Larsen Elkjaer, dall’altro ieri splendido 56enne, il più grande giocatore che abbia mai vestito la maglia del Verona. Il colpo di fulmine  si riverberò presto in amore ed esplose tutto in un’azione: contropiede, Pacione all’ala sinistra che appoggia per il nostro “Cavallo Pazzo”, controllo di coscia-ginocchio e destro al volo in corsa da fuori area. Zenga trafitto, San Siro ammutolito. Gol. Uno dei suoi più belli di sempre, quasi che l’avesse segnato apposta per me, piccolo esordiente nell’atto d’iniziazione di una passione che si sarebbe rivelata poi infinita, anonimo spettatore tra i tanti di così nobili gesta.

Era un Preben già al tramonto, in quella che sarebbe stata la sua ultima stagione in gialloblù (traumatico per me l’abbandono, in coda in autostrada sulla Uno45 Super blu-azzurra verso San Benedetto del Tronto, mio padre alla guida, mia madre con in mano L’Arena che titolava l’addio).

Preben era classe e potenza, ma anche molto altro. In una parola, passione. Voglio dire, zero calcolo in campo, gioia, rabbia, esaltazione, ira. Istinto. Guasconeria nordica, raffinata, intelligente, maliziosa. Sguardo solare e tagliente allo stesso tempo. Originalità. Già dal nome. Avrebbe potuto farsi chiamare Larsen, ma in Danimarca è come chiamarsi Rossi. Sarebbe stato uno dei tanti. Ve lo immaginate lui tra i tanti? No, lui scelse Elkjaer, il cognome della madre.

Elkjaer era uno stato d’animo in moto perpetuo in tutte le sue sfumature. Come la natura, che non riposa mai, si evolve e ritorna. E qui scivolo nel secondo aneddoto. Verona-Pescara, 22 novembre dello stesso anno, un 2-0 (quasi) comodo. Passiamo in vantaggio già nel primo tempo con Pacione, ma nella ripresa mentre attacchiamo sotto la curva nord, dove sedevo io (all’epoca era aperta ai veronesi e con la curva esaurita era il settore popolare per eccellenza), sotto di me vedo Elkjaer incazzato nero che smadonna per conto suo a gioco fermo. Nel primo tempo aveva preso una traversa, fallito un rigore e sbagliato un gol facile, e lui era ancora lì a smoccolare, con una visceralità tale che avrei voluto scendere in campo a imprecare con lui, solidale. Bambino sì, ma mica scemo: mi rendevo conto già allora che Preben avrebbe considerato patetico qualsivoglia supporto morale, specie se di un babbeo ingenuo come me. Lui preferiva risolversela alla sua maniera. Da solo. Come quegli eroi dei film, che salvano il mondo dai criminali mentre la polizia arriva sempre dopo, a cose fatte. Siglò il raddoppio, Preben: lancio dalla mediana, scatto sul filo del fuorigioco e stop d’interno collo a seguire, fuga verso l’area e pallonetto a Zinetti (come si dice adesso cucchiaio? scavino?). Ed esultanza alla sua maniera, con le braccia tese verso il bacino e i pugni serrati. Gioia focosa, spontanea, essenziale. Ergo non televisiva. Ma Elkjaer era questo, fuoriclasse di un calcio nel quale la tv era il mezzo, non il fine. Ed è da questo (terribile) trapasso che il football ha cominciato a imbruttirsi.   

Auguri (in ritardo) Vichingo. E come scrissero i tifosi danesi il giorno del tuo addio alla Nazionale: “Tak Elkjaer”.

 

P.S. Un omaggio al mio campione. Un omaggio a tutti i “cavalli pazzi”. Mai omologarsi.   

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