Leggo del nuovo filone dell’inchiesta sul calcio-scommesse. È il terzo in pochi anni. Lungi da me dare giudizi su persone e società coinvolte (c’è la presunzione d’innocenza e su fatti di cronaca giudiziaria è deontologicamente corretto conoscere le carte). È altrettanto evidente, però, che ripercorrendo la storia del calcio degli ultimi 35 anni (dal maxiscandalo del 1980 a calciopoli, fino alle confessioni delle recenti scommessopoli) la sua credibilità è minata alle fondamenta.
Eppure il pallone rimane sempre, e nonostante tutto, la religione laica di questo Paese in declino. Italia cupa, povera e incazzata, eppure eternamente tifosa, che punta i “forconi” contro tutti (e quindi nessuno), ma idolatra a prescindere i ricchi Dei della pedata.
Il calcio, infatti, qualunque cosa succeda, mantiene intatto il suo appeal sugli italiani, incuranti della bulimia televisiva che lo ha contaminato dal 1993 in poi; ciechi dinanzi alle logiche commerciali e liberiste che tra mercato sempre aperto, rose infinite e stranieri a gogò ne hanno indebolito il suo significato identitario e identificativo; sordi a tutto ciò che lo ha reso sempre meno sport e trasformato in entertainment, con maglie inventate e dai colori sociali dimenticati e numeri di maglia da giocarci a tombola, calciatori con pettinature improbabili e “scarpini” (sic) fluorescenti.
Il calcio perciò non morirà mai, malgrado l’esercito di prefiche che a ogni scandalo ne annunciano retoricamente la dipartita imminente. Non morirà perché non può. Non morirà perché, crollate le ideologie e scomparso il senso religioso, non ci è rimasto altro in cui credere in questa epoca globalizzata, materialista e relativista.
Proprio così, qui non c’entra la cosiddetta ignoranza popolare, è questione di sentimento. Noi tifosi non siamo scemi, abbiamo capito da un pezzo come funziona il sistema, ma non ce ne curiamo, oppure bellamente ce ne freghiamo. Giriamo la testa dall’altra parte e un po’ come le tre scimmiette non vediamo, non sentiamo, non parliamo. E se proprio vediamo qualche pensiero autoassolutorio ci verrà subito soccorso. L’alibi ce l’abbiamo e si chiama sopravvivenza. In questo mondo senza futuro dove ieri è il nostro unico domani, il calcio per noi è più che mai una necessità organica. Il pallone rotolante ci fa sognare, credere, partecipare, parteggiare. Non possiamo rinunciare al nemico comune della domenica (o del sabato, lunedì, venerdì o di qualsiasi accidenti di giorno si giochi!). Ci aggrappiamo irrimediabilmente e a piene mani al senso di comunità del tifare. Come eterni adulti-bambini conserviamo questo unico anfratto di purezza che non si è disperso. Cornuti, ma non mazziati. Traditi, ma non abbandonati.
Dunque truccate pure, ma mi raccomando truccate bene, che meno ne sappiamo e meglio è. Così che mentre voi vi arricchite (ancor di più) noi ci salviamo l’anima. Talmente finto da sembrare vero.
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