In principio fu Ranzani. Mi divertivo a chiamarlo così, Maurizio Setti, nei primi tempi da presidente del Verona. Era un modo ironico per parodiare i tic e i vezzi dell’industriale di Carpi, tipico self-made man della provincia italiana, che mi ricordava l’imprenditore di Cantù un po’ smargiasso e un po’ rampante inventato da dj Angelo a Radio Deejay e portato sugli schermi Mediaset da Albertino a Zelig.
Ora il ranzanismo è bypassato: a distanza di due anni Setti ha dimostrato di essere persona sì esuberante e visionaria, eppure terribilmente concreta e – a differenza delle apparenze iniziali – poco incline a raccontarla e a raccontarcela.
Lontano dalla logica da padre padrone del “ghe pensi mi”, Setti ha creato una struttura moderna e orizzontale, divisa per aree di competenza dove la figura di riferimento delegata ha un potere autonomo. E i risultati sportivi e manageriali sono sotto gli occhi di tutti, anche del partito dei diffidenti che due anni fa spaccava il capello in quattro “perché Setti non è veronese” (come se questa fosse la discriminante per essere o non essere un buon presidente). Io all’epoca scrissi provocatoriamente “per fortuna”, perché così non saremmo stati fagocitati da certe logiche salottiere e gelosie di bottega tipiche della provincia.
E così è stato: Setti, dal punto di vista della gestione, ha sprovincializzato il club, slegandolo dal paternalismo ambiguo (eufemismo) di Pastorello, da quello ingenuo di Arvedi e da quello buono di Martinelli. Il suo obiettivo, neanche tanto celato, è espandere il brand fuori dalla provincia, dando al Verona un’ immagine moderna, e patrimonializzare la società (da qui l’Hellas Store e l’ambizione del centro sportivo per il settore giovanile). Nell’idea presidenziale il Verona deve vivere di luce propria e autofinanziarsi (perché come Setti sovente ricorda “non sono uno sceicco e l’epoca dei mecenati è finita”). In tal senso i diritti tv sono determinanti, ma non devono essere la sola voce di bilancio: il resto lo fanno la valorizzazione dei calciatori, del vivaio e il merchandising.
L’importante è che nell’intento di sprovincializzare (intento necessario se vuoi restare a galla nel calcio ahimè globalizzato di oggi) si salvaguardi sempre la cultura identitaria del Verona Hellas, un’anomalia positiva nel panorama calcistico italiano, una risorsa e, aggiungerei, anche un anticorpo all’omologazione che può fare la differenza, anche a livello di immagine. Credo che in questi due anni di conoscenza della piazza, Setti e il dg Gardini l’abbiano capito. Vecchio e nuovo assieme, il passato per consolidare il futuro, modernità e non modernismo. Questo è il must: non ci si scappa.
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