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UNA GESTIONE CONFUSA

C’è un’assenza nel tempestoso flusso di cronaca. C’è un vuoto nella frenesia di queste ore. Lucidità, questa sconosciuta, pare, in via Belgio. La gestione dell’esonero di Mandorlini e della nomina del suo successore mostra la confusione che da qualche mese a questa parte alberga nella dirigenza del Verona.

Ricapitoliamo. Ieri Mandorlini si presenta a Peschiera, dove si allena la squadra, da esonerato (di fatto). Contemporaneamente, e per lunghe ore, si consuma il surreale triangolo Verona-Corini-Chievo. Vallo a spiegare a un tifoso dell’Hellas che per avere Corini (non Ferguson, non Ancelotti), simbolo Chievo, con un plus di vecchie ruggini per un derby passato, devi chiedere permesso a Campedelli, per i tifosi del Verona simpatico come una zanzara in camera da letto (ciò non toglie che Campedelli, avendo Corini sotto contratto, ha tutto il diritto di tutelare i suoi interessi per svincolarlo). Ieri un maestro del giornalismo come Adalberto Scemma è stato tranchant: “Pensare a Corini è da neuroni scollegati”. Ovviamente Scemma esagera, utilizzando da abile maestro qual è il genere giornalistico dell’invettiva, tuttavia appare chiaro come la dirigenza sia arrivata con il fiatone a pensare al dopo Mandorlini. E col senno di poi forse si spiegano le numerose chanches, quasi a sfiorare il grottesco, concesse al vecchio allenatore, che sarebbe stato da esonerare prima di arrivare alla disperazione.

Lo scrivo con disincanto, al di là del carico di sentimenti (innegabili) che l’allontanamento di uno come Mandorlini porta con sé: per i suoi cinque anni carichi di significato, per i risultati ottenuti con Martinelli, Gibellini e Sogliano, e soprattutto per il rapporto intenso con la piazza, da capopopolo prima, da intoccabile a prescindere o capro espiatorio di tutti i mali poi, quando il suo nome è diventato divisivo. Di Mandorlini non mi è mai piaciuta la tendenza a prendersi i meriti e ad additare i suoi critici come ‘non tifosi’ del Verona (invece l’amore per il Verona e la critica a un allenatore-dirigente-calciatore sono due piani distinti e non sovrapponibili). Non ho mai amato la sua tentazione di scaricare le colpe (il ritornello dei “18 giocatori nuovi” dell’anno scorso) e cercare nemici inesistenti. Avrei preferito senz’altro che il suo gioco non fosse monotematico e che evitasse fissazioni per alcuni giocatori e idiosincrasia per altri. Mi è piaciuto da matti invece nel suo politicamente scorretto: la tuta in panchina anche in serie A, lo spareggio di Salerno, le corna di Cittadella, la canzone degli Skiantos. Cose di calcio, cose di campo, cose di nervi, cose di fazione, che dovrebbero lì nascere e morire, e invece (purtroppo) puntualmente vengono megafonate in negativo da un circuito mediatico ipocrita e paraculo.

Non so cosa riuscirà a combinare Gigi Delneri, che ho conosciuto nella sua seconda esperienza al Chievo nel 2006-07, ai tempi in cui per il Corriere di Verona e il Corriere del Veneto seguivo giornalisticamente le vicende del club di via Galvani. Una carriera scostante quella del ‘baffo di Aquileia’, di grandi alti e grossi tonfi, prima precursore tattico (la difesa altissima e il fuorigioco sistematico) e poi dimenticato.  Con lui ebbi anche uno ‘scazzo’ a Veronello per un articolo, ma gli ho sempre riconosciuto la ruvida sincerità del ‘non mandarle a dire’.

La situazione è disperata e le sorti del Verona sembrano segnate. Ma “io credo nei miracoli” canta l’eclettica Cristina Donà. Metto lo stereo e mi affido a lei.

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