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LO ‘AYATOLLAH’ PECCHIA SOGNA LA RIVOLUZIONE MA…

Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton diceva che “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto: anche un principio giusto se portato alle estreme conseguenze diventa un errore.

Ecco, non vorrei che Pecchia, allenatore emergente e rampante di indiscutibile cultura tattica, nel portare avanti la sua idea (sacrosanta) di calcio offensivo ed elegante, vestito di trame e fraseggi, non scadesse nel più facile e terribile degli errori: il radicalismo che conduce all’effimero, il velleitarismo che s’accompagna alla mera testimonianza, un talebanismo che s’avvita su se stesso.

Lo “Ayatollah” Pecchia sogna la rivoluzione e ciò è pure affascinante. Ma la storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione. L’impressione è che l’allenatore laziale badi molto alla fase offensiva e meno a quella difensiva (15 ammoniti e un espulso in tre partite, segno di mal posizionamenti, sbilanciamenti e interventi scomposti in fase di non possesso?), eppure ci sono partite, campi e situazioni ambientali dove forse occorrerebbe essere più attendisti senza divenire per forza sparagnini o calcolatori.

Benevento è paradigmatica. L’approccio è stato presuntuoso e non sarà casuale che dopo pochi minuti dietro ci si sia trovati già in due situazioni di affanno (dalla seconda nasce l’espulsione di Caracciolo). Nonostante l’inferiorità numerica Pecchia non ha provveduto a nessuna sostituzione ammettendo poi in sala stampa che preferiva tenersi tutti i tre cambi per il corso successivo della partita (come se i cambi servissero solo da metà campo in su). Nel secondo tempo poi la gestione della partita mi è sembrata istintiva, frettolosa (squadra troppo sbilanciata alla ricerca del pareggio ancora a mezz’ora dalla fine, un’eternità) e confusa (l’incrocio di cambi Ganz-Gomez-Cappelluzzo mi è sembrata una smentita a se stessi).

Sia chiaro, pur non essendo il sottoscritto un guardioliano spagnoleggiante (io sono per la superba medietà degli Ancelotti, degli Hiddink e, più modestamente, degli Allegri), apprezzo l’idea che ispira Fusco (zemaniano convinto) e Pecchia: il bel gioco sempre e comunque. Anche nelle loro dichiarazioni all’unisono di ieri (“dobbiamo essere più concreti”, come dire ci è mancato solo il gol) i due sottintendono la loro vocazione prettamente offensiva. E, certo, il “bel gioco” aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Voglio dire: Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il “bel gioco” non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente, specie in trasferta. In certi contesti vero che occorre più concretezza, ma aggiungerei anche meno spavalderia. Solo così Pecchia vincerà la sua (affascinante) rivoluzione.

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