Forse non è un stato un caso. Ci sono incroci, destini, storie che si accompagnano a certi luoghi. E allora mi piace pensare che un talento cristallino e indiscusso come Mattia Valoti si sia rivelato in tutta la sua forza, e non a caso, nello stadio dedicato a Paolo Mazza, presidente di una Spal che negli anni ’60 era fucina dei giovani di qualità (Fabio Capello su tutti, ma non dimentico il nostro Gianni Bui e neanche quel matto poeta donnaiolo di Ezio Vendrame, artista del pallone mai realizzato, cui l’unico difetto per me veronese è stato essere un simbolo del Vicenza).
Ieri prima della partita nella nostra chat whatsapp di Telenuovo scrivevo: “Valoti titolare: può essere la sua occasione”. Sono stato facile profeta, sottolineo facile, perché Valoti sa giocare a pallone e la notizia, in un mondo normale, non dovrebbe essere la sua doppietta e il suo assist, ma che a 23 anni è (era?) ancora un’incompiuta addirittura in serie B. Un no sense per uno con le sue qualità.
Chi mi legge sa che ho sempre difeso questo ragazzo timido, educato, riservato, dal modo di fare anonimo “come l’erba da scarpata ferroviaria” (cit.), con la faccia di uno che passa di lì per caso, senza la spocchia, gli atteggiamenti, il look, insomma gli stereotipi del calciatore medio. Quando lo incrociai al ‘Vighini Show’ di due anni fa, nel vederlo banalmente in tuta sociale mi sembrava uno di quei tanti ragazzi che trovi alla domenica sera nei bar all’aperitivo post partita della loro squadra di paese.
Il mio amico Marco Gaburro, che ha allenato Valoti due anni all’Albinoleffe, mi dice: “Mattia probabilmente ha sempre vissuto nella certezza di essere un predestinato e su questa certezza si è inconsciamente adagiato, non riuscendo fino ad oggi a fare lo scatto caratteriale necessario”. Il ds Fusco quest’estate nelle conversazioni private era sinceramente tormentato nel parlarne: “Valoti è forte, ma viene da annate difficili e ha bisogno di ritrovare fiducia e di giocare, bisogna capire se qui a Verona può rilanciarsi oppure è meglio darlo in prestito, ma nel caso sarebbe un prestito secco perché uno come lui è un patrimonio tecnico anche in serie A”. Poi ancora, dopo qualche settimana: “Potremmo confermarlo, il ragazzo ha lo spirito giusto e a Pecchia piace, il suo valore tecnico non di discute”. Tormenti, ragionamenti, finezze che attestano la complessità del lavoro di un ds che fa calcio (e Fusco, come Sogliano che ha portato Valoti a Verona, fa calcio). Retroscena che spiegano il lavoro profondo che c’è dietro alla costruzione di una squadra e di un gruppo.
Il Verona di Fusco e Pecchia è stato costruito su questi risvolti psicologici e – ma è perfino palese – sulla qualità balistica del centrocampo. Così Pecchia persegue senza troppi compromessi il suo disegno rivoluzionario di un gioco offensivo e ad alta caratterizzazione estetica, al netto delle critiche (comprese le mie lievi). Lo ‘Ayatollah beniteziano’ ieri ha dissipato anche qualche mio dubbio sulla tenuta tattica in trasferta di un atteggiamento così a trazione anteriore, e ne sono ben felice perché come ho avuto modo di scrivere la scorsa volta a sua difesa: “Il bel gioco aiuta a vincere (e a riconciliarsi con il calcio) ed è pure educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché più bravi e non più furbi”.
Ma il Frosinone incombe e potrebbe essere quello di domenica lo snodo per legittimare, forse definitivamente, le convinzioni di Pecchia.
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