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CAMPEDELLI, PERCASSI E…SETTI. PERCHÈ ACCONTENTARSI?

Una risata ci salverà” dice quel fine umorista di Daniel Pennac. Maurizio Setti non sorride mai. Il Setti “attaccante” un po’ ganassa degli inizi, quello per intenderci del modello Borussia Dortmund e dell’Europa, ha lasciato posto a un uomo da tempo “in difesa”. Ricordo il Setti che più di cinque anni fa pronunciò solennemente le due promesse cardine e imprescindibili del suo mandato: centro sportivo e consolidamento in A. Oggi il centro sportivo ancora non c’è e la serie A, nel migliore dei casi (la salvezza), è un faticosissimo e sofferente affanno da preservare con calciatori e allenatore low cost. Tutto questo nonostante dal 2013 il Verona goda di entrate plurimilionarie e abbia potuto beneficiare di diverse plusvalenze. “In passato sono stati commessi degli errori” ha detto il 5 settembre al Corriere di Verona il direttore operativo Francesco Barresi. Non ci è dato sapere quali.

Verona che in caso di salvezza con la riforma Lotti in fase di definizione potrebbe prendere 40 milioni di euro dalla nuova ripartizione dei diritti tv, in caso di retrocessione altri 25 milioni di paracadute. “Ma nessuno vuole il Verona” afferma il conformista che segue acriticamente i cliché. Io sommessamente ma con il gusto della provocazione sposto il tiro: “Ma Setti vuole vendere?”. Non conosco altri settori merceologici con entrate garantite di questo peso. Conviene vendere? Ma come disse uno più importante di me e di Setti: “Se sbaglio mi corrigerete”.

Torno a scrivere di Setti non a caso dopo Chievo e Atalanta, due club che dimostrano (con modi e stili diversi ma entrambi efficaci) come si fa calcio in provincia. Due club presieduti da due imprenditori della città, perché anche nel calcio globalizzato, delle proprietà cinesi o arabe, dei fondi d’investimento e delle cordate opache (Milan), c’è ancora spazio per gli imprenditori vecchio stampo, quelli inseriti nel territorio, che vivono la città, a cui rendono conto. Campedelli e Percassi non sbandierano centri sportivi, li fanno. Campedelli e Percassi non parlano ogni due per tre di internazionalizzare il brand, ma in Europa il primo c’è stato, il secondo c’è. Campedelli è retrocesso ma è ripartito con autorevolezza. Percassi, come Setti, ha preso la squadra in B e l’ha consolidata, lui sì, in A. Percassi non ha mai cambiato i colori delle maglie e non ricordo un suo direttore generale che in tv abbia detto restando serio: “I colori non sono importanti”.

Lo dico a costo di essere impopolare: Chievo e Atalanta, la prima nella nostra Verona, la seconda nella vicina Bergamo, piaccia o meno sono la coscienza della società che dovremmo essere anche e soprattutto noi, più di loro, per storia, tifoseria e tradizione. Perché accontentarsi di essere meno? 

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