Vivono in una bolla. Fuori dalla realtà, distanti dalla sofferenza, indifferenti alla passione. E tronfi sollevano il ditino verso la bocca (nel gesto di zittire) dopo un rigoretto tirato pure male, decine di prestazioni inutili e storiche debacle. E superbi e spudorati in sala stampa accusano: “Non è facile giocare dopo quello che abbiamo subito”.
Abitano in una campana di vetro. Gli occhi chiusi e l’ovatta intorno. Vincono una partita di mediocre fattura e segnata da un episodio e si ergono a professorini. Ridicolo, surreale, grottesco deja vu. Il loro allenatore – una volta tanto vincente, forse a sua insaputa – è come il suo presidente: tende alla gaffes, nonostante l’inconsistenza di gran parte delle domande a lui rivolte: “Forse questa vittoria è figlia anche delle dimissioni del nostro direttore sportivo, che hanno dato una scossa all’ambiente” dice. Frase criptica, dalle molte interpretazioni e dai mille sottendimenti. Dimissioni che “non approvo” continua l’allenatore. Dunque, per la proprietà transitiva, se non si condividono delle dimissioni che però a detta del tecnico hanno portato a una vittoria, la vittoria è un fatto casuale, non previsto, indipendente dalla volontà di chi (l’allenatore) dovrebbe crearne le premesse? Kafkiano. Ma anche coerente, sulla falsariga del leggendario e indimenticabile verbo del nostro: “Il calcio non ha una logica”.
Una cosa è certa. Società e squadra da mesi hanno segnato una distanza netta e consapevole dalla tifoseria e più in generale dalla gente del Verona. Un fatto grave e (a mia memoria) senza precedenti. E difficilmente sarà una salvezza (non mi stanco di ripetere, comodamente raggiungibile dato l’agevole calendario rispetto a Crotone e Spal, sarà un’impresa non salvarsi e a volte sembra che siano in grado di compierla, vedi Benevento) a poterla colmare. Come ho già avuto modo di scrivere, qui c’è un vulnus che va molto al di là dell’aspetto tecnico, agonistico, di una classifica o di un pallone in rete. Società e squadra da tempo si sono creati l’alibi perfetto: se ci salveremo sarà nonostante l’ambiente; se retrocederemo sarà colpa dell’ambiente. Un noi contro di voi che lascia senza fiato. Onanismo metaforico, autoreferenzialità paracula. Ieri la mezz’ala con il ditino alzato sulla bocca e l’allenatore l’hanno ribadito: giochiamo solo per noi stessi.
E a morire è il senso sociologico e assoluto del calcio, “l’unica religione che non conosce atei” come scrisse Eduardo Galeano: la condivisione, il campanilismo, il giocare per una bandiera, una città, un qualcosa e un qualcuno. Unire e non dividere. Rappresentare e non estromettere. Aspetti che valgono molto di più di un’effimera annata, o di una possibile salvezza che rischia di non creare nemmeno consolidamento (l’anno prossimo saranno fatti investimenti, o ci aspetta un altro campionato del genere?). Per questo hanno già perso anche se vincono.
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