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BELLA SENZ’ANIMA

Tutto senza allegria, senza una lacrima”. No emotions, è il calcio di oggi. Anzi forse il football moderno, a differenza della cocciantiana “Bella senz’anima”, non è neppure bello (partite imbarazzanti nella prima giornata di campionato); ma l’anima, questo è sicuro, se l’è venduta al diavolo. Il resto è venuto di conseguenza, trasformando uno sport in un marchio (quasi) fine a se stesso. Nostalgia canaglia di chi ha vissuto gli anni ’80 e ’90? Forse. Snobismo a metà tra disincanto e rassegnazione? Probabile. Eppure, credo, ci sia anche qualcosa che va oltre l’inflazionato filone del “si stava meglio quando si stava peggio”.

Chi scrive sa benissimo che in passato non era tutto romanticismo, anzi. L’ombra del doping negli anni ’70, il Totonero del 1980, i due punti a vittoria che spesso erano la molla per accomodare diverse partite in un pari (il buffoniano “meglio due feriti che un morto” ante litteram), dirigenti già allora “chiacchierati” quando Moggi era solo un allievo di Italo Allodi, i ritmi blandi di gioco e le eterne manfrine in campo.

Ma c’è una differenza decisiva: in passato il business, per quanto importante, rimaneva comunque e sempre un passo indietro rispetto allo sport e all’agonismo; e la corruzione era in un certo senso “naif”, paternalistica, cioè frutto di iniziative individuali e di sistemi quasi arcaici se non improvvisati. A rileggere adesso “Nel fango del dio pallone” di Carlo Petrini, che spiega il sistema delle scommesse a fine anni ’70, viene quasi da sorridere confrontandolo con quanto è emerso dagli scandali degli ultimi anni.

Oggi invece il business prevarica totalmente la sfera sportiva, che anzi sembra quasi un impiastro, una convitata da tollerare giusto per mantenere le apparenze. E’ questo il passaggio determinante: gli affari da dignitosi e legittimi comprimari sono divenuti gli arroganti protagonisti, anzi gli “one man show” di un sempre più delirante monologo. Comandano le pay tv e i grandi sponsor, presidenti e dirigenti sono solo controfigure che (felicemente) si adeguano.

Così cambiano gli usi e i costumi, le priorità, e persino le parole. Succede allora che un termine commerciale come “brand” venga applicato tristemente a un club sportivo senza che ci si renda conto di quanto grottesca sia la cosa. La parola “immagine” è tutto e dappertutto, ma John Lennon purtroppo non c’entra. Identità e appartenenza sono solo concetti di retroguardia per vecchi tromboni nostalgici. Le multinazionali – della tv o dell’abbigliamento poco importa – si sono prese tutto e omologano tutto, ché ormai non si capisce più chi è chi. Le interviste e il racconto giornalistico sono specie in via d’estinzione, tutto viene racchiuso e pianificato in inutili e stantie conferenze stampa che non dicono niente. Il resto è gossip. Il resto sono (scadenti) recite di attorucoli (quasi) tutti con le stesse pettinature, le stesse cuffie, gli stessi tatuaggi, le stesse donne e, nel pre e post partita, le stesse gravi e seriose espressioni da entrata e uscita in sala operatoria (ma giocano a calcio od operano a cuore aperto?). Il resto sono le facce grigie come i loro completi sartoriali e mai sorridenti di dirigenti in poco geniale parata. Il resto sono giornalisti specializzati in calciomercato – cioè niente, quindi tutto in quest’epoca – per 365 giorni l’anno, cantori del calcio virtuale, un po’ come se qualcuno ci volesse convincere che scopare su internet è più bello.

Infine ci sono i tifosi, trattati come polli da batteria, consumatori da blandire e mungere, da sballottare con partite in giorni e orari sempre più improbabili e – se è il caso – da punire con regole e sanzioni demenziali, in nome di un politicamente corretto oramai surreale quanto inutile (si puniscono i cori dentro lo stadio, ma poi le vere tragedie succedono fuori, vedi Raciti a Catania e Ciro Esposito a Roma). Già i tifosi, gli ultimi giapponesi a difesa della sola verità del calcio. Verità popolare, col suo pathos e non il suo ethos, le sue rivalità e le sue differenze. I tifosi, spesso capri espiatori per lor signori, in realtà l’unica àncora di bellezza che può salvare il mondo (del calcio). Qualcuno lo metta in testa ai padroni del vapore, che con il loro bulimico business hanno intristito tutto. Qualcuno dica loro che la maionese sempre più impazzita che ci propinano sta andando a male. Qualcuno li avverta che la “bella senz’anima”, a forza di cambiare letti e uomini, è rimasta sola.   

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