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LA SPERANZA È CHE NON SIA TARDI

Era una pagina bianca il Verona. Nessun afflato. Nessuna emozione. Nessuna parola. Lo spartito era sempre quello: mediocrità in serie, la solita melina sull’allenatore (resta-va-resta con dietrofront e Cosmi già tecnico in pectore), e la consueta vittoria scaccia-crisi al bivio decisivo. A creare un po’ di divertissement ci si è messo , per parafrasare Battisti, “quel gran genio del D’Amico”, con una conferenza stampa su cui per carità di patria (e pure cristiana) era meglio maliconicamente tacere.

Ho voluto fare un esperimento sociale: non scrivere nulla finché nulla era da scrivere. Compresa la vittoria con il Venezia che – come ha giustamente detto  Vighini – è stata una piccola luce. Ma non mi sembrava ancora abbastanza, troppo discontinuo questo Verona, che a mio avviso aveva trovato da tempo la sua giusta dimensione e la sua esatta collocazione (5°-6° posto). Il mio era anche un esperimento simbolico, utile a registrare il gigantesco solco che si è scavato tra società e ambiente. Il mio silenzio era lo stesso dei tanti vuoti allo stadio Bentegodi nelle ultime partite casalinghe. Il mio non dire era lo smarrimento verso qualcosa (il Verona squadra e società) che, per una serie di motivi più volte sviscerati, non è più il “nostro” Verona da tempo.

La (convincente) vittoria di Perugia – esame probante per una serie di motivi – cambia le carte in tavola? Non lo so. Tecnicamente, se analizziamo il calcio nella sua essenza, potremmo pensare di sì. Oggi pare di vedere un’altra squadra: più centrata e dinamica. Rimango però ancora perplesso: non vorrei che fossimo un po’ in ritardo. Nove partite da giocare sono tante, ma anche poche. Tante, se l’Hellas ingrana la quinta e fa un filotto di vittorie in modo da poter riagganciare almeno il secondo posto. Poche, se ci sarà ancora qualche incidente di percorso, che sarebbe pure fisiologico (nel qual caso il fallimento sarà da imputare al ritardo accumulato nei mesi precedenti) con Brescia, Palermo, Benevento e Pescara da affrontare.

Una parola su Grosso. Non lo ammetterà mai, ma credo che l’essere stato messo concretamente in discussione gli abbia fatto bene. La precarietà ha dato a un allenatore accademico, professorale, pregno di teoria e troppo mite, quel qualcosa in più in termini di concretezza, nervo e motivazioni. Ma ancora non basta. Lui e il Verona hanno tanto da farsi perdonare. L’allenatore e i suoi ragazzi meritano una tregua, ma la chiusura del cerchio della pace può essere solo la serie A. Per Setti ovviamente non basta solo il risultato sportivo:  il presidente dovrebbe spiegare cosa vuole fare del Verona in futuro e con quali risorse. Ma su questo ci torneremo.

 

 

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