Il Verona si è già perso. In un turbinio di moduli, giocatori, centrocampisti, doppioni. Perso nei meandri delle scelte astruse del proprio allenatore, capace di far diventare fenomeni due discrete squadre di serie B. Un Verona anestetizzato da dichiarazioni politicamente corrette, ma che non accendono più la passione. Il Verona si è perso a Salerno e non ha ritrovato la strada contro il Lecce. Dobbiamo migliorare, ripete come un mantra Fabio Grosso (nuovo tormentone che sostituisce il “siamo in crescita” di Pecchia), i cui limiti di lettura della partita stanno diventando macigni sulla strada della serie A, in cui l’abbondanza della rosa fa a pugni con le scelte, in cui più in generale, manca l’atteggiamento, la rabbia, la cattiveria. Chiamare in causa la sfortuna è da perdenti.
Il Verona deve piangere perché non segna e perché prende gol da polli. Perché fa una fase difensiva all’acqua di rose, perché soffre le verticalizzazioni degli avversari, perché crossa cento volte ma nessuno di quei cross è di qualità e perché tiene i suoi uomini migliori in panchina. Grosso stasera doveva venire in sala stampa con la bava alla bocca, doveva farci vedere la sua rabbia, quella che dovrebbe trasmettere ai suoi giocatori. Invece la sua conferenza sembra tarata sulla modalità “dobbiamo migliorare” “abbiamo creato molto” e non dà una spiegazione che sia una al perché il Verona che dovrebbe “ammazzare” il campionato grazie al suo paracadute milionario (certo lo ricordiamo perché è impossibile dimenticarlo nel metro del giudizio…) perde due a zero in casa contro il Lecce.
Il Verona non ha anima, che è dote differente dal gioco, non ha cattiveria, non ha il sacro fuoco. Grosso ha voluto imporre il suo metodo di lavoro. Allenamenti lontani dalla gente, praticamente tutti a porte chiuse (da quando l’Hellas è tornato dal ritiro le sedute a porte aperte si contano sulle dita di una mano) privandosi del valore aggiunto che una provinciale come il Verona può vantare: l’entusiasmo dei suoi meravigliosi tifosi. Che non si crea con le parole, gli slogan inglesizzati, i media event di plastica e solo con la stampa amica ammessa.
Si chiedeva a Setti quest’estate una netta dicotomia con lo schifo che ci era stato propinato. Lo chiedeva la Sud a cui venne ribattuto che nessuno avrebbe imposto le scelte. E così è stato promosso come ds il braccio destro di Fusco, l’invisibile Tony D’Amico ed è arrivato il suo amico Grosso da Bari, eliminato ai play off dal Cittadella. Sufficiente per dimenticare il passato? No: perché lo schema di lavoro è esattamente lo stesso della precedente gestione. Sono cambiati solo i nomi, ma tutto è riconducibile a ciò che ha creato la più grande disaffezione che si sia mai vissuta a Verona. La coppia di amici Fusco-Pecchia è stata sostituita dalla coppia D’Amico-Grosso. Questo è ciò che è accaduto, in mezzo c’è stata una campagna acquisti al risparmio (i migliori sono tutti parametri zero, arrivati dai fallimenti di Cesena e Bari) e molte plusvalenze. Nel frattempo Setti che solo qualche mese prima aveva umilmente spiegato ai veronesi di essere unicamente mosso da passione calcistica, ha acquistato il Mantova. Un cortocircuito comunicativo che non ha eguali.
Nonostante questo per la bassa qualità del campionato di serie B, il Verona è competitivo. Ma non è una squadra. Non ancora. La gara con il Crotone, a questo punto, va letta come una felice eccezione. In mezzo tante partite confusionarie, una vinta a tavolino, due perse in modo sciagurato. Eppure ritrovare la diritta via non deve essere così difficile. Basta fare mosse logiche, abbandonare le rotazioni insensate, trovare e mantenere un’identità di uomini e di moduli, mettere in campo quelli bravi. E trovare una testa, una società, uomini che ci rimettano passione. Quella vera. Quella per l’Hellas Verona.
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