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MARCHIONNE: DI DIRITTI SI MUORE

E’ evidente che la Fiat, non sta per lasciare, ma ha già lasciato l’Italia. Il core business, Chrysler in testa, è ormai altrove. D’altronde questo – al di là di un po’ di comprensibile melina – era l’obiettivo di Sergio Marchionne: dal suo primo giorno di lavoro al Lingotto non ha fatto altro che progettare e costruire la fuga dalla casa automobilistica degli Agnelli dal nostro Paese.
I motivi sono vari: i tribunali, la Fiom, l’assistenzialismo, le tasse e la burocrazia. Tutto però è riconducibIle ad un dato culturale che lo stesso amministratore delegato Fiat ha così riassunto: “Diritto al posto fisso, diritto al salario garantito, al lavoro sotto casa, a urlare e a sfilare, a pretendere. Se continuamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”.
Lui di morire non ha intenzione e per questo se ne va. Perchè ha capito tutto. Ha fatto la sintesi di quanto qui non funzione sotto il profilo lavorativo, e non solo.
Diritti, diritti, diritti: alla casa, al lavoro, alla salute, alla pensione. Questa è la parola d’ordine. E poi ci meravigliamo che gli immigrati continuino a rivendicarli anche loro. Come se noi italiani dessimo un esempio diverso. Come se la nostra parola d’ordine fosse il dovere: dovere di cercarmi un lavoro, dovere di guadagnarmi lo stipendio, dovere di osservare le leggi, dovere di provvedere a me stesso e alla mia famiglia invece di pretendere la pappa fatta dallo Stato…
Uno Stato con risvolti etici a corrente alternata: che tuona (a parole) contro l’evasione fiscale e tollera (anzi pianifica) l’evasione dal lavoro, cioè lo stipendio intascato a prescindere da qualunque verifica di produttività.
Tralasciando le considerazioni economiche e sociali, dovremmo almeno tener presente il dato soggettivo e individuale: tutti questi diritti producono il diritto ad una vita inutile, piatta, mortificante e noiosa. Che solo questo assicurano alla fine il posto fisso, il salario garantito, l’automatismo nella carriera.
Nessuno stimolo a migliorarsi, a progredire, nessuna soddisfazione nel raggiungere mete successive. Una vita che vale ben poco la pena di vivere quando l’unica tensione deriva dal guardare l’orario che scorre in attesa di passare a cazzeggiare dal posto di lavoro, al piano bar, agli hobby, al villaggio vacanze.
E la responsabilità prima non è del singolo, dall’imboscato in comune, in redazione o in azienda. Lui è solo la vittima. La responsabilità è di un modello diseducativo nefando: continuando a vivere di soli diritti, di diritti si muore.

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