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IL BURQA, PROBLEMA DI CHI LO PORTA

La Regione Veneto, anche con l’assenso delle opposizioni (Moretti Pd, Berti 5 Stelle), si appresta a vietare il burqa a chi entra nei locali pubblici. Tutti d’accordo per rafforzare la sicurezza di fronte al pericolo di attentati.
Ma, se il problema è la sicurezza, lo è a 360 gradi; anche nei locali non pubblici ma aperti al pubblico: piazze, stadi, discoteche, centri commerciali. Il Bataclan era appunto una discoteca, non un ospedale.
D’altra parte la terribile esperienza che abbiamo fatto con gli attentatori islamici ce li ha mostrati a viso scoperto: non avevano il burqa, ma la cintura esplosiva sotto il giubetto e il mitra in mano.
Il burqa più che un segnale di pericolo per noi, è un segno inequivocabile della sottomissione delle donne islamiche che vivono anche nel nostro Paese: non solo velate, ma recluse in casa, schiavizzate dal marito, con l’obbligo di camminare due passi dietro a lui. Per le adolescenti in divieto di istruirsi, il matrimonio combinato, ogni genere di angherie.
Un Paese libero e moderno non può accettare questo abuso del corpo e della mente della donna. Che abbia una giustificazione religiosa, o di qualunque altra natura, poco importa.
Non è accettabile nemmeno invocando una scelta libera e non coatta. Nessuno è libero di suicidarsi, di morire per anoressia, di auto-schiavizzarsi.
Un Paese e uno stato civili hanno il dovere di tutelare i cittadini anche dal loro autolesionismo.
Quindi la sottomissione della donna islamica, coatta o libera che sia, va (andrebbe) combattuta ed impedita con ogni mezzo.
L’uso del burqa è un segnale preciso. Ma, a questo punto, il ragionamento di partenza va rovesciato: il burqa non è un pericolo per noi; rende anzitutto lampante la carcerazione di colei che lo indossa.

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