IMMIGRATI TUNISINI E AUSTRIACI

 Ci sono i tunisini e anche gli austriaci, dei quali parleremo tra un attimo.

Ma cominciamo dai tunisini che tanto allarme stanno suscitando con il loro arrivo in Veneto. E dire che ne arrivano ben pochi, paragonati a quelli che vivono stabilmente a Mazara del Vallo. Infatti in questa cittadine di 60 mila abitanti della Sicilia Occidentale (dove sono stato lo scorso fine settimana), che è il primo porto peschereccio del Mediterraneo, ce ne sono 6 mila. Che diventano 10 mila contando gli altri stranieri provenienti dall’area del Maghreb.

Come possibile che 6 mila tunisini a Mazara non creino neppure lontanamente l’allarme e l’apprensione che creano qualche centinaia di loro in tutto il Veneto? Anzitutto perchè là non si sentono, nel senso che non sono protagonisti nel mondo della criminalità. Non che non ci siano spacciatori anche a Mazara; ma la larghissima maggioranza dei tunisini lavorano sui pescherecci, abitano la casbah nel cuore della città. Sanno che se dovessero rubare o stuprare incorrerebbero in una “giustizia” molto più celere e rigorosa di quella dei tribunali italiani.

C’è un ferreo controllo sociale. Non possiamo dire che lo garantisce la mafia. E quindi diciamo che lo garantisce la società siciliana…

Ma non è neppure questo l’aspetto decisivo. Dicevo che i tunisini abitano nella casbah. E tutti a Mazara la chiamano così, la casbah. Mentre da noi un simile epiteto, usato per indicare il quartiere degli immigrati, verrebbe tacciato di razzismo.

A Mazara no, perchè la casbah esiste da secoli, come ad Algeri, come a Tunisi. Ed è questa la differenza fondamentale (rispetto al Veneto): che i rapporti di Mazara (e della Sicilia in genere) con il mondo arabo sono rapporti secolari; divenuti stili di vita, se non proprio condivisi, certo ben conosciuti. Non c’è stato un impatto con il “diverso”, con l’ondata dell’immigrazione, perchè tunisini e maghrebini ci sono da sempre. E da sempre i mazaresi sanno come usarli e come fronteggiarli.

Mazara è una città viva, con luci suoni e voci che ti accompagnano per tutta la notte. Mi raccontano che d’estate si addormenta all’alba. Non come Mauterndorf, la cittadina vicino a Salisburgo dove sono andato in vacanza anni fa. La prima sera stavo chiacchierando con alcuni amici in un bar, poco dopo le 21: siamo stati interrotti dalla polizia, chiamata dagli austriaci che abitavano di fronte al bar, e accusati di disturbare la quiete pubblica…

Vogliamo far conoscere anche ai mazaresi l’impatto con l’immigrazione? lo scontro di civiltà? Le difficoltà della convivenza? Basta mandargli non dico 6 mila austriaci, ne bastano seicento o forse anche sessanta! Proprio come bastano 60 tunisini ad allarmarci, mentre 6 mila austriaci a Verona o a Padova nemmeno ci accorgeremmo se ci fossero.

Perchè noi abbiamo rapporti secolari con il mondo germanico, lo conosciamo e lo sentiamo “nostro”. Come i piemontesi con quello francese, i pugliesi con l’Albania e la Sicilia Occidentale, appunto, con il mondo arabo.

Più che domandarsi come facciano a convivere nello stesso Paese realtà storiche, culturali, civili tutte rispettabili eppure diversissime. Più che domandarci questo, dovremmo smettere di credere alla barzelletta che possa avvenire applicando in ogni territorio le stesse leggi, le stesse regole, gli stessi ordinamenti. Perchè la sola cosa certa ed evidente è questa: la Legge di Mazara non è quella di Padova né quella di Verona.

SE 26 MILA VI SEMBRAN POCHI

“Se otto ore vi sembran poche\ provate voi e lavorare\ e capirete la differenza\ tra lavorare e comandare”. Così cantavano all’inizio del secolo scorso, rivolti ai padroni, i sindacati che si battevano per ottenere la settimana lavorativa di 48 ore (8 ore al giorno per sei giorni la settimana).

“Se 26 mila tunisini vi sembrano pochi, provate a prenderveli a Parigi o a Berlino o a Bruxelles, e capirete la differenza tra predicare e praticare la convivenza con i clandestini”. Così potremmo cantarla oggi ai nostri “padroni” della Ue, secondo i quali i migranti arrivati fin’ora sono troppo pochi per poter derogare a Schengen e aprire le frontiere. (L’emergenza umanitaria quando scatta? A centomila? A un milione? A dieci milioni di sbarchi? E se l’Italia va già in crisi con 26 mila cosa deve fare? Suicidarsi?…)

Ma per cantargliela bisognerebbe non avere timori reverenziali e, soprattutto, bisognerebbe avere un reale potere contrattuale e la determinazione ad utilizzarlo. Sembra infatti del tutto inutile andare ad un negoziato europeo chiedendo comprensione e aiuto. Perché si tratta, e si ottiene qualcosa, solo se hai la forza (delle minacce) per ottenerlo.

Siamo per quantità, dopo Germania e Francia, il terzo Paese per contributi versati al fondo comune della cassa europea. Mentre siamo in fondo alla classifica quanto ad erogazione dei fondi dalla stessa cassa comune. (Per capirci, un po’ come i veneti che pagano molte tasse allo stato centrale e ricevono ben pochi trasferimenti…). Minacciare la sospensione di questa contribuzione parrebbe una misura molto efficace e persuasiva.

Ma possiamo permetterci una simile minaccia o sarebbe troppo rischioso? Non lo so. Ma direi che il governo avrebbe il dovere di spiegarcelo.

Intanto il Corriere ci racconta che in Tunisia fino a ieri c’era il business del turismo e che oggi, sulle stesse coste, è stato sostituito dal business degli scafisti: 20 milioni di euro guadagnati in tre mesi traghettando 18 mila migranti.

Difficile non pensare che, se avessimo fermato e rispedito indietro le prime dieci carrette, il business sarebbe saltato e l’esodo verso le nostre coste sarebbe stato bloccato.

Berlusconi e Bossi potevano e dovevano permetterselo. Anche se i “padroni” europei (che oggi chiudono le loro frontiere) li avrebbero accusati di essere disumani e razzisti; anche se l’opposizione italiana avrebbe detto altrettanto. Ma i cittadini elettori (della stessa sinistra) si sarebbero spellati le mani dagli applausi.


VINCE MARONI, L’ITALIANO

 

 

Di fronte all’emergenza dei clandestini tunisini sta passando la linea Maroni. Mi vien da dire che vince Maroni, l’italiano. Nel senso che è lui il più consapevole che siamo il Paese che siamo, che è inutile scambiare i sogni con la realtà. E l’unica realtà possibile, l’unica soluzione all’italiana, è appunto quella che il ministro degli interni predica da tempo e che oggi è stata accetta: diamo permessi di soggiorno temporanei e speriamo che servano per farne andare la gran parte in Francia.

Capisco che le soluzioni serie dovevano essere altre ed essere prese a monte. Cominciando da un blocco navale che fermasse all’origine l’esodo verso le nostre coste. Ma – anche ammesso di avere una marina militare capace di attuarlo – facciamo finta di non sapere quale sarebbe stata la reazione delle Caritas e dell’esercito di solidaristi (a costo zero)?

Ci vuole tanto ad immaginare le loro grida di sdegno e di dolore? “Siete barbari, siete crudeli! Sono dei poveri disperati, dobbiamo accoglierli! Ma come si fa a rispedirli indietro verso morte certa!?”. Non si è mai visto nella storia una marina militare impegnata a soccorrere in mare gli invasori, invece che a respingerli…E, non ostante questo, se qualche barcone fa naufragio sembra che sia colpa nostra e non delle mafie tunisine, non dei mercanti di morte, che li sbattono in mare su carrette decrepite e strapiene.

Sarebbe giusto, serio e ragionevole attuare il blocco navale. Ma è impensabile perché siamo l’Italia.

Sarebbe giusto serio e ragionevole riunire i clandestini – gli invasori, chiamiamoli con il loro vero nome! – che sono sbarcati illegalmente sulle nostre coste; riunirli in luoghi chiusi e vigilati per poterli identificare ed espellere. Invece scappano via, non solo dalle tendopoli di Manduria ma anche dai centri di identificazione ed espulsione. Basti vedere com’è ridotto l’unico Cie del triveneto, quello di Gradisca: distrutto e sbrindellato dai clandestini impuniti.

E cosa dovrebbero fare i poliziotti? Usare il manganello, ricorrere alla forza, intimare l’alt e sparare, in un Paese – Genova insegna – che è pronto a processarli in tribunale e sulle pagine dei giornali progressisti? I nostri tutori dell’ordine non sono né scemi né eroi, e quindi si voltano dall’altra parte e lasciano mano libera ai delinquenti stranieri che sciamano via.

Può piacere oppure no, ma questa è l’Italia in cui si trova ad operare il ministro degli Interni. E cosa deve fare il buon Maroni? Immaginarsi il Paese che non c’è? Lanciare i vani proclami di certi proto-leghisti “Nessun clandestino al Nord, nessuno in Veneto!” (Che tanto, come ha spiegato Flavio Tosi, ci vengono comunque attirati dal tessuto socioeconomico anche se non fai le tendopoli…).

I tunisini sono arrivati perchè non puoi fare il blocco navale. Una volta arrivati vanno dove vogliono perché non puoi né contenerli né vigilarli. Quindi non resta che facilitare l’esodo verso il loro approdo preferito: dando a tutti un bel permesso di soggiorno temporaneo e sperando che tutti o quasi se ne vadano al più presto in Francia.

Sarà una soluzione all’italiana; ma siamo in Italia, appunto, e pensare a soluzioni diverse è solo velleitario.

 

IMMIGRAZIONE GESTITA DA TOTO’

 Viene un dubbio: ma è la realtà quella che vedo oppure sto assistendo ad un film di Totò? Dubbio legittimato dal fatto che un fenomeno epocale e complesso come quello dell’immigrazione continua ad essere gestito alla Totò. E, se c’è un Totò italiano, che chiamiamo Berlusconi o Maroni, sia chiaro che n’è anche uno francese che risponde al nome di Nocolas Sarkozy.

La situazione l’ha fotografata Avvenire, il quotidiano dei vescovi, con il titolo di oggi in prima pagina: “Migra anche l’emergenza”. Sintesi perfetta: invece di provare a fronteggiare prima e risolvere poi l’emergenza, ci limitiamo a spostarla. A Farla migrare da Lampedusa a Manduria a Mineo a Ventimiglia a Trieste, nei vari siti dove stiamo allestendo tendopoli.

La “strategia” dei Totò italiani è quella messa in atto a Manduria, dove due terzi dei tunisini sono già sciamati via dalla tendopoli: lasciarne scappare il più possibile sperando che migrino spontaneamente all’estero, cioè in Francia. (Magari è l’unica strategia possibile per il Paese di Totò: dovessimo identificarli uno a uno, per distinguere i clandestini dai profughi, ci vorrebbero mesi ed anni. Probabilmente dovremmo assumere un paio di pubblici dipendenti per ogni immigrato per sbrigare le pratiche…Quindi meglio lasciar perdere…Il che non toglie che sia una strategia da Totò)

Se non che ci troviamo a fare i conti con i Totò di Sarkozy, ossia con quei poliziotti francesi che si inventano ogni pretesto per rispedire a Ventimiglia i tunisini che cercano di passare il confine. Ogni pretesto: nel senso che se non trovano la prova – biglietto ferroviario o scontrino di un bar – che provengono dall’Italia, sono loro, i flic, a mettergliela in tasca per poterli rispedire indietro.

Ma anche questa di Sarkozy è una strategia da Totò: perchè in un modo o nell’altro alla fine i tunisini passano, e anche la Fancia si troverà in emergenza.

Quando straripa un fiume, anzitutto costruisci un nuovo argine per fermare le acque; e solo dopo pensi con calma alle misure strutturali per evitare che la catastrofe si ripeta. Così oggi – altro che bombardare la Libia, col solo effetto di far crollare anche quell’argine! – Francia, Italia e Spagna dovrebbero di comune accordo schierare le flotte per fermare anzitutto l’ondata di piena che arriva dalla Quarta Sponda. Aspettare che si stabilizzino i governi dei Paesi nord africani, e poi ragionare sulle misure strutturali da adottare.

Invece la gestione è lasciata in mano a Totò, con l’unico risultato che “Migra anche l’emergenza”.


FUORI DALLE BALLE? BEATI LORO…

 

 

E’ evidente che, anche senza l’invito o la minaccia di Bossi, la larghissima maggioranza dei tunisini sarebbe ben felice di andarsene fuori dalle balle. Il problema non è certo il leader della Lega: è la polizia francese che li blocca a Ventimiglia. Ma un po’ alla volta riusciranno ad andarci.

E il discorso non riguarda solo i tunisini, perchè sono francofoni e hanno già tanti parenti in Francia, riguarda un po’ tutti gli immigrati: tutti o quasi ben contenti di andarsene fuori dalle balle, mentre solo una modesta minoranza sceglie di restare nel nostro Paese.

Lo certificano le richieste d’asilo del 2010 (dati Eurostat): 50 mila per la Francia, 48.500 per la Germania, 31.900 per la Svezia, 23.700 per il Regno Unito. Perfino piccoli Paesi come Belgio (26.100), Olanda (15.100) e Austria (11.100) hanno più domande d’asilo dell’Italia (10.100).

Il libero mercato dell’immigrazione ci boccia. Nel senso che magari vengono volentieri in Italia i delinquenti, agevolati da una giustizia che funzione come funziona. Ma gli immigrati seri, quelli intenzionati a costruire un futuro per se e i loro figli, se appena possono scelgono Paesi più seri, meglio strutturati, che offrono migliori opportunità.

Paesi dove non vigono le caste, le corporazioni, le liste d’attesa (precari) al posto della meritocrazia. Paesi non soffocati dalla burocrazia dove – tanto per dirne una – non occorre rivolgersi ad apposite società che ti facciano le mille pratiche necessarie anche per installare tre pannelli solari.

Gli immigrati se ne vanno fuori dalle balle, beati loro. Dannati noi che per pigrizia, per l’età, per i legami delle nostre radici, siamo condannati a restare; o non abbiamo il coraggio di andare fuori dalle balle dell’Italia.


CULTURA, BENZINA E TASSA DI SCOPO

 

 

Non resta che sperare che le prossime elezioni le vinca Berlusconi. Perché abbiamo questo infame governo Prodi che continua ad aumentare le tasse, che ci mette le mani in tasca anche al distributore per finanziare la cultura: sono così questi sinistri, loro hanno la mania della cultura…Dite che non è così? Che Berlusconi è lui che governa e che aumenta le tasse rimangiandosi tutte le promesse fatte di tagliarle con l’accetta (aliquota massima 33%)? Non posso crederci…

Non posso nemmeno credere che la Fiat sia passata invano, che non abbiamo preso atto di come i finanziamenti pubblici servano solo a garantire prodotti scadenti: come la Duna, appunto. Mentre ora Marchionne è costretto a stare sul mercato cioè a produrre auto con un accettabile rapporto qualità-prezzo (se vuole venderle).

Stessa cosa per il cinema italiano. Dovesse produrre film che minimo ripagano i costi al botteghino, eviterebbe di fare quelle pellicole che sono solo pugnette d’elite. E che invece si permette di fare perché può contare, appunto, sui finanziamenti pubblici.

Il cinema americano domina il mercato mondiale perché non ha mai saputo cosa sia un contributo a fondo perduto.

Altro esempio quello del fotovoltaico. Avesse camminato solo sulle proprie gambe, avrebbe prodotto pannelli meno osceni sotto il profilo estetico e di sicura efficacia nel generare energia solare. Che altrimenti l’utente non li avrebbe comperati. Invece all’utente sono stati regalati, grazie ai contributi pubblici; e cosi ci siamo portati a casa quelle mostruosità poste sui tetti la cui efficacia nella produzione di energia nessuno si è nemmeno preoccupato di verificare (a caval donato…). Per non parlare dei posti di lavoro drogati e degli addetti che ora, finita la pacchia del contributo, si ritrovano a spasso.

Dalla Fiat, ai pannelli, alla cultura, ai film, al contributo sagre: il finanziamento pubblico serve solo a garantire prodotti scadenti.

Ma la rivolta dei cittadini, per questo paio di centesimi in più di accise sulla benzina, dovrebbe far disperare gli pseudo federalisti e fa invece ben sperare i liberali. E’ infatti un’anticipazione della tassa di scopo: paghi in più la benzina perchè così aiuti la cultura; e tutti (o quasi) a rispondere col gesto dell’ombrello, a mandare al diavolo Tremonti e Berlusconi.

Speriamo sia un’inversione di tendenza. Perché fin’ora le tasse erano un calderone indistinto, a fronte del quale il cittadino era portato a domandare sempre nuovi servizi e interventi non avendo chiaro il rapporto costo-esborso. Ma se, con la tassa di scopo, il sindaco – ad esempio – andrà a domandargli dei soldi in più allo scopo di sistemargli il marciapiede, c’è la speranza che il cittadino risponda: no grazie, i soldi non te li do, mi tengo il marciapiede così com’è o me lo sistemo io che spendo la metà del Comune.

 

 

SIAMO IN GUERRA E ABBIAMO GIA’ PERSO

Ricorda Lucio Caracciolo su Repubblica che i nostri aviatori, quando “martellavano in incognito i serbi” decisero di “cucirsi sulle tute delle sagome di fantasmi”. Perché in teoria non dovevano esistere né fare quello che fecero. Così oggi i nostri piloti spiegano che sì, sono andati con i tornado in Libia (impossibile negarlo, dato che li hanno ripresi al decollo) ma solo per un giro turistico, senza lanciare nemmeno un missile…

La ragione di questa realtà palese eppure negata, dallo stesso presidente Napolitano, la spiega sempre Caracciolo: “Guerra è vocabolo espunto dal nostro gergo istituzionale. Perchè la Costituzione ci impedirebbe – secondo l’interpretazione corrente – di chiamare la guerra per nome”. Chiaro dunque che non può chiamarla così il “Custode” della Costituzione stessa…Anche se – sottolinea ancora Caracciolo – “Non abbiamo mai partecipato a tanti conflitti da quando ne abbiamo certificato l’abolizione su Carta”…

Fuor di retorica e di ipocrisia, dunque, siamo in guerra contro la Libia di Gheddafi. E, quel che è peggio, non sappiamo perchè siamo in guerra; mentre è evidente che – comunque vada – l’abbiamo già perduta.

Non sappiamo perchè ci siamo. A meno di voler credere alla “ingerenza umanitaria”. Che sarebbe come voler credere a Santa Lucia, alla Befana o al fatto che…l’Italia sia un Paese unito. Prova ne sia che del massacro di milioni di civili in Ruanda piuttosto che del Darfur non gliene è fregato nulla a nessun civile e democratico Paese occidentale (come dimostra il fatto che nessun ha nemmeno invocato un intervento)

Se prescindiamo dalle favole per bambini, dobbiamo prendere atto che le guerra si dichiarano e si combattono per interesse. Per interesse economico o anche per l’interesse a garantire la propria sicurezza. (Quindi è credibile un intervento in Afganistan per debellare lo stato-terrorista e per controllare le vie dei gasdotti o del petrolio. Non certo per impedire ai talebani di schiavizzare le donne afgane né per “esportare la democrazia”)

Oggi l’Italia non sa perchè è intervenuta in quella che – ancora Lucio Caracciolo – chiama a ragione “la guerra di Nicolas Sarkozy”. Lo sa benissimo, appunto, il presidente francese che ha due obiettivi. Uno tattico immediato: rafforzarsi in vista delle elezioni che affronta in calo di consensi. Uno strategico di medio termine: divenire il patner economico privilegiato dei ribelli libici se vincitori. Può andargli bene oppure male. Ma c’è un disegno francese.

Mentre da parte italiana c’è solo la volontà di farsi del male: oggi infatti la nostra sicurezza è garantita da Gheddafi, non dalla sua cacciata. Il poderoso interscambio economico, che fin’ora ha fatto di noi il patner privilegiato della Libia, è dovuto sempre all’attuale assetto di potere. Ora può succedere che gli scenari cambino a nostro sfavore. Ma che siamo noi a provocare il cambiamento a colpi di bombe lascia esterefatti!…

Abbiamo già perso comunque vada. Perchè se l’intervento provocherà la caduta di Gheddafi, avrà vinto la Francia che ci soppianterà nel ruolo fin qui avuto nella nostra ex colonia. Se invece il raiss riuscirà a restare al potere, come prima cosa – e giustamente – la farà pagare agli “italiani traditori”.

(avviso ai navigatori di sinistra: in sintesi sto dicendo che il Berlusca s’è comportato da pirla)

 

UNITA’ D’ITALIA ALLA MCDONALD’S

 

C’è poco da festeggiare. Perchè quella che celebriamo è l’unità d’Italia alla McDonald’s. Mi pare che il linguaggio culinario renda evidente lo scempio che si è consumato 150 anni fa. Potevamo continuare ad avere i sapori, i profumi, la pregnanza delle varie nostre cucine regionali: baccalà, pasta e fagioli, pastisada de caval, magari annaffiata con l’Amarone, nel nostro Veneto; Ribollita e Chianti in Toscana; Pasta alle melanzane, caponata e Corvo di Salaparuta in Sicilia…

Niente da fare. Nel 1861 è arrivato il McDonald’s piemontese: panini flosci, patatine fritte insipide e vino in cartone per tutti gli italiani.

Magari non era neppure la volontà dell’ottimo Cavour, ma questo è accaduto. Mentre i vari stati preunitari (a dominazione straniera, autocnona o naturalizzata) erano espressione delle realtà locali, che mantenevano la ricchezza della diversità, poi con l’unità fu imposto il modello unico piemontese. E per la nazione italiana, per gli italiani – che già esistevano da secoli, questo il concetto che va tenuto presente – è stata la castrazione.

Un centocinquantesimo che non fosse (com’è) solo nauseabonda retorica, dovrebbe proprio partire da questa precisa autocritica: nel 1861 abbiamo cominciato ad ammazzare l’Italia perchè non siamo partiti, come insegnava Cattaneo, con il modello federale che avrebbe preservato la fragranza delle singole cucine regionali e ci avrebbe risparmiato l’imposizione dell’hamburger savoiardo.

Il concetto cardine – che gli italiani esistevano secoli e secoli prima dell’unità politica – lo spiega splendidamente il cardinale Giacomo Biffi in un recente volumetto dedicato propria a “L’Unità d’Italia”. Spiega cioè che il concetto di nazione ingloba “il complesso di persone che hanno in comune l’origine, la storia, la lingua e la civiltà”. Mentre lo Stato è un’organizzazione che ha il monopolio dell’azione politica: per cui possiamo avere stati che inglobano diverse nazionalità, come ieri l’Impero asburgico e oggi la Svizzera; oppure la stessa nazione divisa in due stati, come accaduto con i tedeschi prima della riunificazione e anche con gli italiani prima del 1861.

Per cui la famose affermazione di D’Azzeglio, in realtà va capovolta: gli italiani esistevano già da secoli, con il Risorgimento si è fatta l’Italia; e nel peggiore dei modi, cioè appunto alla McDonald’s.

Sempre Biffi ricorda che, nel Settecento e inizio Ottocento, gli italiani primeggiavano a livello mondiale nelle arti e anche nelle scienze: nella poesia con il Metastasio, nella scultura con Canova, nella pittura con il Tiepolo, nella musica sinfonica con Vivaldi e Albinoni, nel mondo scientifico con Spallanzani Galvani e Alessandro Volta, nella legislazione penale con Cesare Beccaria.

Tutti erano consapevoli di essere italiani (non lombardi, o veneti o romani). E così li chiamavano in ogni angolo dell’Europa e del mondo per cui l’Italia era un faro di cultura e di civiltà anche senza essere uno stato unitario.

Ed è proprio dopo il 1861, è con la castrazione operata dall’unificazione statale forzata, che inizia la progressiva decadenza: dove sono oggi, nel 2011, gli scienziati, i pittori, i poeti e i musicisti italiani che abbiano una risonanza mondiale paragonabile ai nostri grandi del Settecento? Eravamo il faro, siamo diventati la ruota di scorta.

In conclusione: viva la nazione italiana unita nei secoli dei secoli (ma vorremmo tornare alla ricchezza delle varie cucine regionali). Abbasso lo stato unitario alla McDonald’s che ci hanno imposto 150 anni fa e che, da masochisti, stiamo pure celebrando.

 

 

MA NON LI HA UCCISI L’ATOMO

 

 

Non sono morti per colpa dell’atomo, li ha uccisi lo tsunami. Sembrerebbe una precisazione superflua, se i nostri giornali e tg non continuassero a parlare di “paura nucleare”, “emergenza nucleare”, centrali a rischio. Quasi che fosse stata – appunto – una serie di esplosioni nucleari ad ammazzare 5 mila giapponesi, a disperderne altrettanti. Quando invece è stata l’onda anomala dell’Oceano Pacifico a spazzarli via.

Un evento naturale catastrofico ha messo a rischio anche alcune centrali nucleari (nei prossimi giorni capiremo fino a che punto) così come ha messo senz’altro a rischio i trasporti navali, su strada e su ferrovia: ammazzando migliaia di persone che viaggiavano su nave, in treno, sui pulman e nelle auto. Dato che lo tsunami può ripetersi, vogliamo forse abolire per sempre questi trasporti, dimostratisi mortali, così come vogliamo rinunciare al nucleare?

Se ricavassimo una conclusione razionale, dovremmo prendere atto che le centrali nucleari giapponesi hanno resistito perfino ad un terremoto 30 mila volte più forte di quello dell’Aquila (come tutti gli altri edifici civili) e sono state messe in crisi solo dall’impatto devastante dell’onda anomala. Quindi – dal momento che nemmeno il principe degli eco-catastrofisti arriva a sostenere che questo laghetto interno e poco fondo, che è il Mare nostrum, può generare uno tsunami – dovremmo appunto concludere che centrali nucleari con tecnologia giapponese possono essere tranquillamente allocate non solo in zone a rischio sismico zero, come il Polesine o il Salento, ma perfino all’Aquila o a Gemona…

Se non fossimo travolti dallo tsunami emotivo, all’indomani della catastrofe Giapponese, avremmo dovuto domandarci se abbiamo edifici antisismici nelle zone a rischio. Invece abbiamo riaperto il dibattito sul nucleare. E non sui costi, sui tempi, sullo smaltimento delle scorie (casa di cui ha senso discutere) ma sulla sicurezza che, per noi Italia, è del tutto garantita.

Perchè lo abbiamo fatto? Si può pensare che la destabilizzazione del mondo arabo, dal quale dipendiamo per gas e petrolio, portasse acqua alla scelta nucleare. E che si sia quindi voluto controbilanciare enfatizzando il rischio nucleare che arriverebbe dal Giappone. Fatto sta che noi italiani, che abbiano conosciuto solo una modesta ricaduta di Carenobyl e non abbiamo nemmeno una centrale attiva, siamo qui a farcela sotto solo all’idea. Mentre i giapponesi – unico Paese ad avere conosciuto da devastazione delle bombe atomiche! – di centrali ne hanno oltre 50 e non si sognano di doverle chiudere per i danni subiti da tre di loro.

La paura del nucleare investe noi molto, ma molto, più di loro.

Qui entrano in ballo gli opposti caratteri nazionali. I giapponesi rimangono calmi e composti anche quando il mondo crolla: utilizzano cioè tutte le più moderne tecnologie, e tutte le precauzioni, per difendersi; ma poi sanno che è impossibile opporsi alla natura e per questo sono preparati a guardare in faccia anche alla morte. Come spiega mirabilmente Vittorio Zucconi su Repubblica, hanno “il terrore della vergogna, non della morte”.

Noi invece abbiamo rimosso la morte, ci spaventa troppo per ricordare che ci aspetta e prepararci ad affrontarla. Ci nutriamo di banalità salutiste e ambientaliste nella speranza che possano garantirci la vita eterna terrena. E, proprio perchè l’abbiamo rimossa, siamo terrorizzati dalla morte e ci pare di intravvederla anche dove non c’è: dietro un termovalizzatore, una centrale, una polvere sottile, un’antenna di telefonino.

L’UNITA’ A STATUTO SPECIALE

 

 

 

Nelle nostre città della pianura veneta la notizia quasi non è arrivata o, comunque, è scivolata via. Eppure è una notizia clamorosa: nel senso che non c’è solo il comunello dei fagioli (Lamon) e nemmeno solo la Perla della Dolomiti (Cortina), ma c’è l’intera provincia di Belluno che ha chiesto ufficialmente di entrare in Trentino Alto Adige.

Ed il motivo di questa richiesta diventa chiaro a chiunque vada dove sono stato io la settimana scorsa, cioè al confine tra i due territori. Da una parte, nel Bellunese, vedi abitazioni private ben tenute ed altre meno; vedi bar e ristoranti arredati in modo decoroso, altri un po’ vecchiotti e trasandati; le strade sono così così. Transiti dal passo S. Pellegrino ed entri in Trentino, cioè in un altro mondo dove tutto è perfetto, tutto curatissimo dalle strade alle case ai locali pubblici. Perfino i sassi nei torrenti sembrano disposti ad arte da un arredatore dell’ambiente montano…

E non è, sia chiaro, che i bellunesi siano scugnizzi senza voglia di rimboccarsi le maniche e i trentini invece stakanovisti germanici. Sono identici, è sempre gente di montagna che lavora sodo, si alza presto la mattina e non conosce né lamenti né piagnistei. La differenza, enorme, vergognosa, la fanno i contributi pubblici che in Trentino vengono elargiti anche se fai la pipì. La differenza la fa lo Statuto Speciale che vige da una parte del S. Pellegrino e dall’altra no.

Questa è la spaccatura, la divisione che spezza letteralmente in due l’intero Paese: da una parte i cittadini di serie A che vivono nelle cinque regioni a Statuto Speciale; dall’altra quelli di serie B, i “negri” dei trasferimenti fiscali, che abitano il resto d’Italia.

Mi sembra arduo sostenere che questo colpo al cuore dell’unità nazionale l’abbia inferto la Lega col suo brodetto federalista che sta per arrivare. E’ palese che l’attentato l’hanno compiuto tutti i partiti della Prima e della Seconda Repubblica che hanno prima introdotto e poi mantenuto – oltre ogni ragionevole limite temporale – l’istituto dello Statuto Speciale. (E il torto della Lega è di essersi accodata al silenzio generale, propinandoci il brodetto e sorvolando sullo scandalo delle cinque regioni privilegiate).

Diventa così evidente quale sarebbe un’iniziativa concreta da annunciare il prossimo 17 Marzo, evitando il fiume di vuota e inconcludente retorica. Volessero evitarlo questo fiume, tutte le forze politiche – confortate da un messaggio alle Camere del presidente Napolitano – dovrebbero impegnarsi solennemente ad abolire l’ignominia dello Statuto Speciale; per cominciare così, concretamente, a costruire l’Unità d’Italia fin qui solo enunciata.