IMMIGRAZIONE GESTITA DA TOTO’

 Viene un dubbio: ma è la realtà quella che vedo oppure sto assistendo ad un film di Totò? Dubbio legittimato dal fatto che un fenomeno epocale e complesso come quello dell’immigrazione continua ad essere gestito alla Totò. E, se c’è un Totò italiano, che chiamiamo Berlusconi o Maroni, sia chiaro che n’è anche uno francese che risponde al nome di Nocolas Sarkozy.

La situazione l’ha fotografata Avvenire, il quotidiano dei vescovi, con il titolo di oggi in prima pagina: “Migra anche l’emergenza”. Sintesi perfetta: invece di provare a fronteggiare prima e risolvere poi l’emergenza, ci limitiamo a spostarla. A Farla migrare da Lampedusa a Manduria a Mineo a Ventimiglia a Trieste, nei vari siti dove stiamo allestendo tendopoli.

La “strategia” dei Totò italiani è quella messa in atto a Manduria, dove due terzi dei tunisini sono già sciamati via dalla tendopoli: lasciarne scappare il più possibile sperando che migrino spontaneamente all’estero, cioè in Francia. (Magari è l’unica strategia possibile per il Paese di Totò: dovessimo identificarli uno a uno, per distinguere i clandestini dai profughi, ci vorrebbero mesi ed anni. Probabilmente dovremmo assumere un paio di pubblici dipendenti per ogni immigrato per sbrigare le pratiche…Quindi meglio lasciar perdere…Il che non toglie che sia una strategia da Totò)

Se non che ci troviamo a fare i conti con i Totò di Sarkozy, ossia con quei poliziotti francesi che si inventano ogni pretesto per rispedire a Ventimiglia i tunisini che cercano di passare il confine. Ogni pretesto: nel senso che se non trovano la prova – biglietto ferroviario o scontrino di un bar – che provengono dall’Italia, sono loro, i flic, a mettergliela in tasca per poterli rispedire indietro.

Ma anche questa di Sarkozy è una strategia da Totò: perchè in un modo o nell’altro alla fine i tunisini passano, e anche la Fancia si troverà in emergenza.

Quando straripa un fiume, anzitutto costruisci un nuovo argine per fermare le acque; e solo dopo pensi con calma alle misure strutturali per evitare che la catastrofe si ripeta. Così oggi – altro che bombardare la Libia, col solo effetto di far crollare anche quell’argine! – Francia, Italia e Spagna dovrebbero di comune accordo schierare le flotte per fermare anzitutto l’ondata di piena che arriva dalla Quarta Sponda. Aspettare che si stabilizzino i governi dei Paesi nord africani, e poi ragionare sulle misure strutturali da adottare.

Invece la gestione è lasciata in mano a Totò, con l’unico risultato che “Migra anche l’emergenza”.


FUORI DALLE BALLE? BEATI LORO…

 

 

E’ evidente che, anche senza l’invito o la minaccia di Bossi, la larghissima maggioranza dei tunisini sarebbe ben felice di andarsene fuori dalle balle. Il problema non è certo il leader della Lega: è la polizia francese che li blocca a Ventimiglia. Ma un po’ alla volta riusciranno ad andarci.

E il discorso non riguarda solo i tunisini, perchè sono francofoni e hanno già tanti parenti in Francia, riguarda un po’ tutti gli immigrati: tutti o quasi ben contenti di andarsene fuori dalle balle, mentre solo una modesta minoranza sceglie di restare nel nostro Paese.

Lo certificano le richieste d’asilo del 2010 (dati Eurostat): 50 mila per la Francia, 48.500 per la Germania, 31.900 per la Svezia, 23.700 per il Regno Unito. Perfino piccoli Paesi come Belgio (26.100), Olanda (15.100) e Austria (11.100) hanno più domande d’asilo dell’Italia (10.100).

Il libero mercato dell’immigrazione ci boccia. Nel senso che magari vengono volentieri in Italia i delinquenti, agevolati da una giustizia che funzione come funziona. Ma gli immigrati seri, quelli intenzionati a costruire un futuro per se e i loro figli, se appena possono scelgono Paesi più seri, meglio strutturati, che offrono migliori opportunità.

Paesi dove non vigono le caste, le corporazioni, le liste d’attesa (precari) al posto della meritocrazia. Paesi non soffocati dalla burocrazia dove – tanto per dirne una – non occorre rivolgersi ad apposite società che ti facciano le mille pratiche necessarie anche per installare tre pannelli solari.

Gli immigrati se ne vanno fuori dalle balle, beati loro. Dannati noi che per pigrizia, per l’età, per i legami delle nostre radici, siamo condannati a restare; o non abbiamo il coraggio di andare fuori dalle balle dell’Italia.


CULTURA, BENZINA E TASSA DI SCOPO

 

 

Non resta che sperare che le prossime elezioni le vinca Berlusconi. Perché abbiamo questo infame governo Prodi che continua ad aumentare le tasse, che ci mette le mani in tasca anche al distributore per finanziare la cultura: sono così questi sinistri, loro hanno la mania della cultura…Dite che non è così? Che Berlusconi è lui che governa e che aumenta le tasse rimangiandosi tutte le promesse fatte di tagliarle con l’accetta (aliquota massima 33%)? Non posso crederci…

Non posso nemmeno credere che la Fiat sia passata invano, che non abbiamo preso atto di come i finanziamenti pubblici servano solo a garantire prodotti scadenti: come la Duna, appunto. Mentre ora Marchionne è costretto a stare sul mercato cioè a produrre auto con un accettabile rapporto qualità-prezzo (se vuole venderle).

Stessa cosa per il cinema italiano. Dovesse produrre film che minimo ripagano i costi al botteghino, eviterebbe di fare quelle pellicole che sono solo pugnette d’elite. E che invece si permette di fare perché può contare, appunto, sui finanziamenti pubblici.

Il cinema americano domina il mercato mondiale perché non ha mai saputo cosa sia un contributo a fondo perduto.

Altro esempio quello del fotovoltaico. Avesse camminato solo sulle proprie gambe, avrebbe prodotto pannelli meno osceni sotto il profilo estetico e di sicura efficacia nel generare energia solare. Che altrimenti l’utente non li avrebbe comperati. Invece all’utente sono stati regalati, grazie ai contributi pubblici; e cosi ci siamo portati a casa quelle mostruosità poste sui tetti la cui efficacia nella produzione di energia nessuno si è nemmeno preoccupato di verificare (a caval donato…). Per non parlare dei posti di lavoro drogati e degli addetti che ora, finita la pacchia del contributo, si ritrovano a spasso.

Dalla Fiat, ai pannelli, alla cultura, ai film, al contributo sagre: il finanziamento pubblico serve solo a garantire prodotti scadenti.

Ma la rivolta dei cittadini, per questo paio di centesimi in più di accise sulla benzina, dovrebbe far disperare gli pseudo federalisti e fa invece ben sperare i liberali. E’ infatti un’anticipazione della tassa di scopo: paghi in più la benzina perchè così aiuti la cultura; e tutti (o quasi) a rispondere col gesto dell’ombrello, a mandare al diavolo Tremonti e Berlusconi.

Speriamo sia un’inversione di tendenza. Perché fin’ora le tasse erano un calderone indistinto, a fronte del quale il cittadino era portato a domandare sempre nuovi servizi e interventi non avendo chiaro il rapporto costo-esborso. Ma se, con la tassa di scopo, il sindaco – ad esempio – andrà a domandargli dei soldi in più allo scopo di sistemargli il marciapiede, c’è la speranza che il cittadino risponda: no grazie, i soldi non te li do, mi tengo il marciapiede così com’è o me lo sistemo io che spendo la metà del Comune.

 

 

SIAMO IN GUERRA E ABBIAMO GIA’ PERSO

Ricorda Lucio Caracciolo su Repubblica che i nostri aviatori, quando “martellavano in incognito i serbi” decisero di “cucirsi sulle tute delle sagome di fantasmi”. Perché in teoria non dovevano esistere né fare quello che fecero. Così oggi i nostri piloti spiegano che sì, sono andati con i tornado in Libia (impossibile negarlo, dato che li hanno ripresi al decollo) ma solo per un giro turistico, senza lanciare nemmeno un missile…

La ragione di questa realtà palese eppure negata, dallo stesso presidente Napolitano, la spiega sempre Caracciolo: “Guerra è vocabolo espunto dal nostro gergo istituzionale. Perchè la Costituzione ci impedirebbe – secondo l’interpretazione corrente – di chiamare la guerra per nome”. Chiaro dunque che non può chiamarla così il “Custode” della Costituzione stessa…Anche se – sottolinea ancora Caracciolo – “Non abbiamo mai partecipato a tanti conflitti da quando ne abbiamo certificato l’abolizione su Carta”…

Fuor di retorica e di ipocrisia, dunque, siamo in guerra contro la Libia di Gheddafi. E, quel che è peggio, non sappiamo perchè siamo in guerra; mentre è evidente che – comunque vada – l’abbiamo già perduta.

Non sappiamo perchè ci siamo. A meno di voler credere alla “ingerenza umanitaria”. Che sarebbe come voler credere a Santa Lucia, alla Befana o al fatto che…l’Italia sia un Paese unito. Prova ne sia che del massacro di milioni di civili in Ruanda piuttosto che del Darfur non gliene è fregato nulla a nessun civile e democratico Paese occidentale (come dimostra il fatto che nessun ha nemmeno invocato un intervento)

Se prescindiamo dalle favole per bambini, dobbiamo prendere atto che le guerra si dichiarano e si combattono per interesse. Per interesse economico o anche per l’interesse a garantire la propria sicurezza. (Quindi è credibile un intervento in Afganistan per debellare lo stato-terrorista e per controllare le vie dei gasdotti o del petrolio. Non certo per impedire ai talebani di schiavizzare le donne afgane né per “esportare la democrazia”)

Oggi l’Italia non sa perchè è intervenuta in quella che – ancora Lucio Caracciolo – chiama a ragione “la guerra di Nicolas Sarkozy”. Lo sa benissimo, appunto, il presidente francese che ha due obiettivi. Uno tattico immediato: rafforzarsi in vista delle elezioni che affronta in calo di consensi. Uno strategico di medio termine: divenire il patner economico privilegiato dei ribelli libici se vincitori. Può andargli bene oppure male. Ma c’è un disegno francese.

Mentre da parte italiana c’è solo la volontà di farsi del male: oggi infatti la nostra sicurezza è garantita da Gheddafi, non dalla sua cacciata. Il poderoso interscambio economico, che fin’ora ha fatto di noi il patner privilegiato della Libia, è dovuto sempre all’attuale assetto di potere. Ora può succedere che gli scenari cambino a nostro sfavore. Ma che siamo noi a provocare il cambiamento a colpi di bombe lascia esterefatti!…

Abbiamo già perso comunque vada. Perchè se l’intervento provocherà la caduta di Gheddafi, avrà vinto la Francia che ci soppianterà nel ruolo fin qui avuto nella nostra ex colonia. Se invece il raiss riuscirà a restare al potere, come prima cosa – e giustamente – la farà pagare agli “italiani traditori”.

(avviso ai navigatori di sinistra: in sintesi sto dicendo che il Berlusca s’è comportato da pirla)

 

UNITA’ D’ITALIA ALLA MCDONALD’S

 

C’è poco da festeggiare. Perchè quella che celebriamo è l’unità d’Italia alla McDonald’s. Mi pare che il linguaggio culinario renda evidente lo scempio che si è consumato 150 anni fa. Potevamo continuare ad avere i sapori, i profumi, la pregnanza delle varie nostre cucine regionali: baccalà, pasta e fagioli, pastisada de caval, magari annaffiata con l’Amarone, nel nostro Veneto; Ribollita e Chianti in Toscana; Pasta alle melanzane, caponata e Corvo di Salaparuta in Sicilia…

Niente da fare. Nel 1861 è arrivato il McDonald’s piemontese: panini flosci, patatine fritte insipide e vino in cartone per tutti gli italiani.

Magari non era neppure la volontà dell’ottimo Cavour, ma questo è accaduto. Mentre i vari stati preunitari (a dominazione straniera, autocnona o naturalizzata) erano espressione delle realtà locali, che mantenevano la ricchezza della diversità, poi con l’unità fu imposto il modello unico piemontese. E per la nazione italiana, per gli italiani – che già esistevano da secoli, questo il concetto che va tenuto presente – è stata la castrazione.

Un centocinquantesimo che non fosse (com’è) solo nauseabonda retorica, dovrebbe proprio partire da questa precisa autocritica: nel 1861 abbiamo cominciato ad ammazzare l’Italia perchè non siamo partiti, come insegnava Cattaneo, con il modello federale che avrebbe preservato la fragranza delle singole cucine regionali e ci avrebbe risparmiato l’imposizione dell’hamburger savoiardo.

Il concetto cardine – che gli italiani esistevano secoli e secoli prima dell’unità politica – lo spiega splendidamente il cardinale Giacomo Biffi in un recente volumetto dedicato propria a “L’Unità d’Italia”. Spiega cioè che il concetto di nazione ingloba “il complesso di persone che hanno in comune l’origine, la storia, la lingua e la civiltà”. Mentre lo Stato è un’organizzazione che ha il monopolio dell’azione politica: per cui possiamo avere stati che inglobano diverse nazionalità, come ieri l’Impero asburgico e oggi la Svizzera; oppure la stessa nazione divisa in due stati, come accaduto con i tedeschi prima della riunificazione e anche con gli italiani prima del 1861.

Per cui la famose affermazione di D’Azzeglio, in realtà va capovolta: gli italiani esistevano già da secoli, con il Risorgimento si è fatta l’Italia; e nel peggiore dei modi, cioè appunto alla McDonald’s.

Sempre Biffi ricorda che, nel Settecento e inizio Ottocento, gli italiani primeggiavano a livello mondiale nelle arti e anche nelle scienze: nella poesia con il Metastasio, nella scultura con Canova, nella pittura con il Tiepolo, nella musica sinfonica con Vivaldi e Albinoni, nel mondo scientifico con Spallanzani Galvani e Alessandro Volta, nella legislazione penale con Cesare Beccaria.

Tutti erano consapevoli di essere italiani (non lombardi, o veneti o romani). E così li chiamavano in ogni angolo dell’Europa e del mondo per cui l’Italia era un faro di cultura e di civiltà anche senza essere uno stato unitario.

Ed è proprio dopo il 1861, è con la castrazione operata dall’unificazione statale forzata, che inizia la progressiva decadenza: dove sono oggi, nel 2011, gli scienziati, i pittori, i poeti e i musicisti italiani che abbiano una risonanza mondiale paragonabile ai nostri grandi del Settecento? Eravamo il faro, siamo diventati la ruota di scorta.

In conclusione: viva la nazione italiana unita nei secoli dei secoli (ma vorremmo tornare alla ricchezza delle varie cucine regionali). Abbasso lo stato unitario alla McDonald’s che ci hanno imposto 150 anni fa e che, da masochisti, stiamo pure celebrando.

 

 

MA NON LI HA UCCISI L’ATOMO

 

 

Non sono morti per colpa dell’atomo, li ha uccisi lo tsunami. Sembrerebbe una precisazione superflua, se i nostri giornali e tg non continuassero a parlare di “paura nucleare”, “emergenza nucleare”, centrali a rischio. Quasi che fosse stata – appunto – una serie di esplosioni nucleari ad ammazzare 5 mila giapponesi, a disperderne altrettanti. Quando invece è stata l’onda anomala dell’Oceano Pacifico a spazzarli via.

Un evento naturale catastrofico ha messo a rischio anche alcune centrali nucleari (nei prossimi giorni capiremo fino a che punto) così come ha messo senz’altro a rischio i trasporti navali, su strada e su ferrovia: ammazzando migliaia di persone che viaggiavano su nave, in treno, sui pulman e nelle auto. Dato che lo tsunami può ripetersi, vogliamo forse abolire per sempre questi trasporti, dimostratisi mortali, così come vogliamo rinunciare al nucleare?

Se ricavassimo una conclusione razionale, dovremmo prendere atto che le centrali nucleari giapponesi hanno resistito perfino ad un terremoto 30 mila volte più forte di quello dell’Aquila (come tutti gli altri edifici civili) e sono state messe in crisi solo dall’impatto devastante dell’onda anomala. Quindi – dal momento che nemmeno il principe degli eco-catastrofisti arriva a sostenere che questo laghetto interno e poco fondo, che è il Mare nostrum, può generare uno tsunami – dovremmo appunto concludere che centrali nucleari con tecnologia giapponese possono essere tranquillamente allocate non solo in zone a rischio sismico zero, come il Polesine o il Salento, ma perfino all’Aquila o a Gemona…

Se non fossimo travolti dallo tsunami emotivo, all’indomani della catastrofe Giapponese, avremmo dovuto domandarci se abbiamo edifici antisismici nelle zone a rischio. Invece abbiamo riaperto il dibattito sul nucleare. E non sui costi, sui tempi, sullo smaltimento delle scorie (casa di cui ha senso discutere) ma sulla sicurezza che, per noi Italia, è del tutto garantita.

Perchè lo abbiamo fatto? Si può pensare che la destabilizzazione del mondo arabo, dal quale dipendiamo per gas e petrolio, portasse acqua alla scelta nucleare. E che si sia quindi voluto controbilanciare enfatizzando il rischio nucleare che arriverebbe dal Giappone. Fatto sta che noi italiani, che abbiano conosciuto solo una modesta ricaduta di Carenobyl e non abbiamo nemmeno una centrale attiva, siamo qui a farcela sotto solo all’idea. Mentre i giapponesi – unico Paese ad avere conosciuto da devastazione delle bombe atomiche! – di centrali ne hanno oltre 50 e non si sognano di doverle chiudere per i danni subiti da tre di loro.

La paura del nucleare investe noi molto, ma molto, più di loro.

Qui entrano in ballo gli opposti caratteri nazionali. I giapponesi rimangono calmi e composti anche quando il mondo crolla: utilizzano cioè tutte le più moderne tecnologie, e tutte le precauzioni, per difendersi; ma poi sanno che è impossibile opporsi alla natura e per questo sono preparati a guardare in faccia anche alla morte. Come spiega mirabilmente Vittorio Zucconi su Repubblica, hanno “il terrore della vergogna, non della morte”.

Noi invece abbiamo rimosso la morte, ci spaventa troppo per ricordare che ci aspetta e prepararci ad affrontarla. Ci nutriamo di banalità salutiste e ambientaliste nella speranza che possano garantirci la vita eterna terrena. E, proprio perchè l’abbiamo rimossa, siamo terrorizzati dalla morte e ci pare di intravvederla anche dove non c’è: dietro un termovalizzatore, una centrale, una polvere sottile, un’antenna di telefonino.

L’UNITA’ A STATUTO SPECIALE

 

 

 

Nelle nostre città della pianura veneta la notizia quasi non è arrivata o, comunque, è scivolata via. Eppure è una notizia clamorosa: nel senso che non c’è solo il comunello dei fagioli (Lamon) e nemmeno solo la Perla della Dolomiti (Cortina), ma c’è l’intera provincia di Belluno che ha chiesto ufficialmente di entrare in Trentino Alto Adige.

Ed il motivo di questa richiesta diventa chiaro a chiunque vada dove sono stato io la settimana scorsa, cioè al confine tra i due territori. Da una parte, nel Bellunese, vedi abitazioni private ben tenute ed altre meno; vedi bar e ristoranti arredati in modo decoroso, altri un po’ vecchiotti e trasandati; le strade sono così così. Transiti dal passo S. Pellegrino ed entri in Trentino, cioè in un altro mondo dove tutto è perfetto, tutto curatissimo dalle strade alle case ai locali pubblici. Perfino i sassi nei torrenti sembrano disposti ad arte da un arredatore dell’ambiente montano…

E non è, sia chiaro, che i bellunesi siano scugnizzi senza voglia di rimboccarsi le maniche e i trentini invece stakanovisti germanici. Sono identici, è sempre gente di montagna che lavora sodo, si alza presto la mattina e non conosce né lamenti né piagnistei. La differenza, enorme, vergognosa, la fanno i contributi pubblici che in Trentino vengono elargiti anche se fai la pipì. La differenza la fa lo Statuto Speciale che vige da una parte del S. Pellegrino e dall’altra no.

Questa è la spaccatura, la divisione che spezza letteralmente in due l’intero Paese: da una parte i cittadini di serie A che vivono nelle cinque regioni a Statuto Speciale; dall’altra quelli di serie B, i “negri” dei trasferimenti fiscali, che abitano il resto d’Italia.

Mi sembra arduo sostenere che questo colpo al cuore dell’unità nazionale l’abbia inferto la Lega col suo brodetto federalista che sta per arrivare. E’ palese che l’attentato l’hanno compiuto tutti i partiti della Prima e della Seconda Repubblica che hanno prima introdotto e poi mantenuto – oltre ogni ragionevole limite temporale – l’istituto dello Statuto Speciale. (E il torto della Lega è di essersi accodata al silenzio generale, propinandoci il brodetto e sorvolando sullo scandalo delle cinque regioni privilegiate).

Diventa così evidente quale sarebbe un’iniziativa concreta da annunciare il prossimo 17 Marzo, evitando il fiume di vuota e inconcludente retorica. Volessero evitarlo questo fiume, tutte le forze politiche – confortate da un messaggio alle Camere del presidente Napolitano – dovrebbero impegnarsi solennemente ad abolire l’ignominia dello Statuto Speciale; per cominciare così, concretamente, a costruire l’Unità d’Italia fin qui solo enunciata.

 

 

L’AMOR PATRIO SECONDO CACCIARI

 

 

L’esempio oramai è divenuto un classico: se ami tua figlia – dicono in tanti – di certo non la mandi di sera ad Arcore, non la lasci in balia del Drago e delle sue brame. Per analogia potremmo dire: se ami il tuo paese al punto di chiamarlo Patria (con la p maiuscola) schieri la marina militare alla difesa, non lo lasci in balia delle orde di disperati che arrivano dalla Quarta Sponda. Perchè, se non lo fai, se non la difendi…sarebbe come portare ad Arcore quest’Italietta minorenne e consegnarla al Drago.

Ma l’analogia è vietata, è in odore di razzismo. L’importante è riempirsi la bocca di Patria, come se la retorica da festival di Sanremo bastasse a soddisfare la quotidianità dei cittadini della Patria italiana.

Questa improvvisa esplosione di amor patrio l’ha spiegata Massimo Cacciari intervistato nei giorni scorsi da La Stampa: “Il centrosinistra è stato spinto quasi per necessità verso la rivendicazione di valori attribuibili in senso lato a Patria e Nazione, nel quadro di un confronto politico con la Lega. C’è molta retorica”

“E’ evidente – aggiunge sempre Cacciari – come la grande debolezza del nostro Paese sia di non avere un’identità nazionale, come accade in Francia o in Inghilterra. Che la nostra storia è stata segnata tragicamente da questa assenza. Ci pesa addosso come un macigno, ma non si supera con le prediche o le deprecazioni”.

Nemmeno con le belle esibizioni di Benigni a Sanremo, spiega sempre l’ex sindaco-filosofo di Venezia che conclude:” Nella mia formazione la Patria è stata totalmente assente. E non solo nella mia. Quelli che oggi attaccano la Lega per il poco amor patrio dovrebbero riandare con onestà ai loro vent’anni, dove non troverebbero la minima traccia di questo amore”.

Già ci vorrebbe la stessa onestà che ha avuto il rifondarolo Paolo Benvegnù che, a Rosso e Nero, ha ricordato come per tutta la sinistra italiana (Napolitano compreso) il riferimento era l’internazionalismo, non certo la Patria. Per i cattolici la Patria era nell’aldilà o in Vaticano. Mentre era in Italia solo per i post fascisti.

E quindi bisognerebbe avere l’onesta di dire che sembrava Giorgio Almirante quello entrato a cavallo al teatro Ariston sventolando con tanta passione il Tricolore, prima di mettersi a celebrare l’Inno di Mameli. Benigni a vent’anni è probabile cantasse “De tu querida presencia, comandante Che Guevara…”. ( Io – si parvus licet – ero a intonare “Nostra Patria il mondo intero, nostra legge la libertà).

Tornando all’analisi di Cacciari, mi sembra incontestabile che la riscoperta della Patria e del Tricolore sia avvenuta in funzione di contenimento della Lega. Ma con l’equivoco ricorrente: il federalismo, o la stessa pulsione secessionista, non li contrasti con la retorica; ma solo, se e quando, riesci a dimostrare con i fatti che l’Italia unita conviene a tutti.


SE VECCHIONI VINCE A SANREMO

Ho passato buona parte della notte di Venerdì a discutere con una carissimo amico nato, vissuto e schierato nella sinistra seria (quella di origine Pci).

La sua tesi era che Berlusconi non poteva che essere estirpato per via “extraparlamentare”, nel senso che era impossibile batterlo alle elezioni. Perchè – mi spiegava – il Berlusca ha messo in piedi un tale sistema di controllo dell’informazione che conta e che determina l’orientamento elettorale. Orientamento – aggiungeva – che non deriva da chi legge il Corriere o Repubblica, ma di guarda la televisione e sfoglia settimanali come Chi o Sorrisi e Canzoni.

Dopo averlo provocato fino al punto dire che trovo più preoccupante un presidente del consiglio che passe le serate al tavolo della seduta spiritica (Prodi) piuttosto che tra le cosce della Minetti, ho tralasciato di aggiungere che Santoro, Floris, Fazio e la Annunziata non si dedicano propriamente all’elogio televisivo del Cavaliere…

Sarebbe stata un’obiezione inutile perchè il mio amico è convinto che l’orientamento dei cittadini elettori non sia veicolato dai talk show (seguiti da chi è comunque politicamente già schierato) ma dall’intrattenimento televisivo stile Amici, l’Isola, Ballando sotto le stelle e telenovelas varie: qui si determinerebbe la scelta politica dei non allineati.

Noi passavano la notte a discutere, gli italiani a votare. Anzi: a televotare. E il risultato, giunto nella notte successiva, lo conosciamo bene: Sanremo, spettacolo nazional-popolare per eccellenza, che non lo guarda certo chi passa le serate a leggere Kant (Umberto Eco, poveretto…) bensì il popolo ignorante ed abbrutito dei berluscones, è stato vinto – attraverso il televoto, altro strumento del populismo neoperonista – dal “compagno” Roberto Vecchioni, e non da una Iva Zanicchi.

E vinto con una canzone così schierata a sinistra – dove si parla di operai senza lavoro, di studenti senza futuro, di donne da cui dipende invece il nostro futuro, di soldati ventenni catapultati nei deserti bellici – da spingere lo stesso Vecchioni a mettere le mani avanti e dichiarare che Chiamami ancora amore “non diventerà l’inno dei Pd”. Come la mettiamo?

Conclusione, se Vecchioni vince a Sanremo, delle due l’una: o Berlusconi con le tivvù non controlla proprio nulla; oppure il desiderio di sinistra, che pure aleggia nel pubblico nazional-popolare delle televisioni, semplicemente non trova né un leader né un sogno né un idea in cui incarnarsi. Ed è costretto – suo malgrado, per pura mancanza di alternative – a ripiegare sul protagonista delle Mille e una notte di Arcore.

OPPOSIZIONE CAMUFFATA DA ITALIA

 

 

E’ divenuto l’esempio storico per antonomasia di come ci si perda dietro alle futilità dimenticando i problemi e le urgenze vere: 1453, con i turchi che stanno conquistando Costantinopoli ultimo baluardo dell’impero romano d’Oriente, i saggi bizantini discutono di sesso degli angeli. (Sarà maschile o femminile, questo il loro assillo)

2011, con il mondo arabo che salta per aria e l’esodo biblico che arriva dall’altra sponda del Mediterraneo, i “saggi” italiani discutono del sesso di Berlusconi, e manifestano contro la sua vita sessuale.

Non sempre le manifestazioni di piazza ottengono il risultato auspicato; come ci dimostra proprio il caso dell’Egitto dove, alla fine della giostra, un golpe militare si è sostituito al despota Mubarak e, come prima cosa, ha chiuso il parlamento ultima parvenza di democrazia.

Le manifestazioni svoltesi ieri in 230 nostre città, con oltre un milione di donne in piazza, avrebbero invece – secondo Repubblica – raggiunto il risultato auspicato. Nel senso che la fiducia nel premier sarebbe ulteriormente crollata.

Leggendo i dati del sondaggio – gradimento per Berlusconi 30,4 per Grillo 35,2 per Fini 35,3 per la Bonino 45,3 – ho qualche perplessità…Qualche dubbio comunque può esserci sul conseguimento del risultato, ma nessuno sul diritto di scendere in piazza a manifestare contro chiunque e in qualunque modalità purchè non violenta.

Sulle manifestazioni di ieri è lecita solo una critica. L’opposizione che si camuffa da Italia; le donne legittimamente schierate contro Berlusconi che si camuffato da donne tout court.

Non credo che tra i manifestanti di ieri ci fossero frotte né di pidiellini né di leghisti. E allora perchè lasciare a casa le bandiere e i simboli di partito? Con l’unico obiettivo, mi pare, di far credere che sia l’intero Paese sdegnato contro Berlusconi al punto di volerlo mandare a casa; e non invece la parte di Paese rappresentata dall’opposizione. Così le donne: sono tutte, ma proprio tutte, scandalizzate dalla vita sessuale di Berlusconi? Sentendo le telefonate femminili che arrivano a Telenuovo, non direi.

Tanto per intenderci, il giorno prima al teatro Del Verme di Milano, Giuliano Ferrare aveva chiamato a raccolta una rappresentanza di “berlusconiani in mutande, ma vivi”. Senza far credere di rappresentare tutte le donne e tutti gli uomini italiani.

Da laico impenitente dove concludere osservando che siamo molto più avanti dell’Iran dove, non ammettendo il sacerdozio femminile, sono solo gli ayatollah ad arringare la folla. Mentre da noi l’emancipazione della donna consente che lo faccia anche suor Eugenia Bonetti, la missionaria della Consolata salita sul palco a Roma.