FEDERALISMO E ACQUA CALDA

 

Sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda questo studio sul federalismo fiscale commissionato dal senatore del Pd Marco Stradiotto. Studio che ci spiega come federalismo significherebbe un bagno di sangue per il Sud e un bagno di ricchezza per il Nord.

Non si capisce infatti dove stia la novità. Dal momento che il federalismo o è questo – cioè una più equa distribuzione delle risorse pubbliche in base ai meriti (di produzione della ricchezza) – oppure è il nulla. Tuttavia dico sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda, perchè il realtà questo studio ci fornisce cifre che un po’ tutti avevano cercato di occultare o di ammorbidire. Cifre di questo genere: Comune di Napoli meno 61%, comune di Palermo meno 55%; comune di Treviso più 58%, comune di Padova più 76%!

Cifre che ci fanno capire come il federalismo vero – se mai venisse attuato – comporterebbe lacrime e sangue per il Sud. E per questo non verrà attuato (quello vero); perchè ci sarebbe prima la rivolta elettorale del Sud e, se non bastasse, la rivolta vera e propria. E, a quel punto, il federalismo si chiamerebbe con quel nome che nessun partito né di governo né di opposizione osa pronunciare: secessione.

D’altra parte non esiste nemmeno l’alternativa. Non si può infatti far finta di niente e lasciare che tutto continui ad andare come sta andando: con Alemanno che assume migliaia di dipendenti in più nelle municipalizzate romane, e Lombardo che spende per il personale della sua Sicilia dodici volto di più di quello che spende la Regione Veneto. Non si può per il semplice motivo che l’Italia andrebbe in bancarotta.

E credo proprio che ci andrà; che faremo la fine della Grecia, della Spagna e degli altri Paesi mediterranei.

Nell’attesa dell’esito esiziale, e tanto per passare il tempo, oso ricordare – per pura teoria – che ci sarebbe una ricetta molto più seria della stessa riforma federalista: cioè il taglio drastico delle tasse.

La ricchezza della nazioni, delle regioni e delle comunità, non dipende infatti mai dal trasferimento di risorse pubbliche. Che anzi, spesso hanno effetto mortifero, drogano e deprimono il mercato del lavoro. (ed uno dei rischi del federalismo è proprio quello di trasferire da Sud a Nord la droga dell’assistenzialismo e dei posti pubblici). La ricchezza dipende dal lavoro dei cittadini. Dipende da chi con il commercio, i servizi , la produzione crea sempre nuove opportunità.

Quindi è molto più importante lasciare più risorse nelle mani dei produttori, riducendo le tasse, che non portare più risorse al pubblico, aumentando le tasse. Al pubblico che dissipa le risorse.

La forza degli Stati Uniti, più ancora che nello Stato federale, risiede in una pressione fiscale bassissima che si attesta al 24% di media (contro il nostro 43,5%). Avessimo anche noi una pressione fiscale al 24% risolveremmo gran parte dei problemi, perchè non ci sarebbero più risorse pubbliche da destinare all’assistenzialismo né al Sud né al Nord, né a Est né ad Ovest.

Diventeremmo di botto ciò che recita pomposamente, e del tutto in astratto, la nostra veneratissima costituzione: una repubblica fondata sul lavoro.

TOGHE AZZURRE, GASPARRI IL ROSSO

 

 

Come perfetto contraltare alle “toghe azzurre” – quei magistrati che, liberando gli artefici della violenza a Roma, hanno fatto il gioco elettorale della destra – arriva adesso “Gasparri il rosso” che, con questa proposta balzana degli arresti preventivi, nobilita quegli stessi cialtroni e li trasforma in martiri di una sorta di governo autoritario e neofascista.

Gli arresti preventivi erano infatti tipici del fascismo (come lo sono tutt’ora delle dittature anche di sinistra): quando il Duce arrivava in visita a Padova piuttosto che a Verona gli antifascisti (pochi, pochissimi quelli veri, un millesimo dei manifestanti romani) venivano arrestati preventivamente. Una prassi evocata anche da Federico Fellini in Amarcord.

Ma è assurdo, autolesionista, martirizzare questi cialtroni, ipotizzando prassi giuridiche incompatibili con la democrazia, ed utili solo a fornire loro ulteriori pretesti per spaccare vetrine, incendiare automobili e assalire il Parlamento.

I cialtroni vanno trattati semplicemente da cialtroni. E’ spropositato perfino dare loro la truce statura degli assassini. Come suggerisce il buon senso comune, la risposta valida è una sola: mandiamoli a lavorare. Perchè tutti, a partire dai poliziotti, piuttosto che lavorare e svolgere il servizio di ordine pubblico, preferirebbero fare il loro “lavoro”: quello di paladini delle ingiustizie dell’Italia e del mondo…

Ma, per poter fare i paladini (fuori corso) delle ingiustizie della Gelmini e del mondo, bisogna avere anzitutto dei genitori poco responsabili che continuano a mantenerti anche dopo i trent’anni.

Non bastassero loro, ecco le “toghe azzurre” che, garantendoti l’impunità, ti tolgono il senso della realtà. Te ne fosse rimasto un poco (di senso della realtà) arriva “Gasparri il rosso” a fartelo perdere del tutto trasformandoti in martire del neofascismo con questa proposta scombinata dell’arresto preventivo.

Avanti di questo passo c’è il rischio di pensare (per paradosso, sia chiaro) che i manifestanti violenti siano più vittime che colpevoli.


DAL SANTO AL SACCO DI ROMA

 

 

Per cercar di capire l’ennesimo sacco di Roma, come mai un’orda di nuovi barbari abbia potuto mettere a ferro e fuoco la Capitale, bisogna partire dal Santo. Dalla Basilica del Santo di Padova dove le telecamere hanno pizzicato un albanese che rubava dalla cassetta delle offerte.

Il rettore del Santo, padre Enzo Pojana, pur essendo un francescano aperto, moderno e progressista, ha subito dichiarato: “La povertà non giustifica il gesto. Chi sbaglia paghi”. Non poteva che dire così perchè, se avesse cominciato a giustificare il furto con la povertà, il giorno dopo ne avrebbe trovati altri dieci di poveri, stranieri e veneti, a far man bassa delle offerte. Sarebbe stata un’istigazione a delinquere.

Esattamente quello che fa una classe politica ambigua che, da un lato condanna ogni violenza, dall’altro però però ricorda che c’è il disagio sociale, che ci sono i tagli alla cultura, che ci sono i rifiuti a Terzigno oppure i terremotati ancora senza casa all’Aquila. E’ esattamente come ricordare che c’è la povertà. Cioè è dare una giustificazione alla violenza. Mentre tutti dovrebbero dire e ribadire che non c’è né povertà né montagne di monnezze, ne tagli né licenziamenti o qualunque altra calamità che, in un Paese civile, possano rendere tollerabile il ricorso alla violenza.

Dopo di che tutto resta pura filosofia se non seguono risposte adeguate. Assai più importante di quanto ha detto padre Pojana, è che i carabinieri arrestino il ladro e i magistrati lo condannino (senza l’attenuante della povertà). Che altrimenti i furti si moltiplicheranno di certo.

Esattamente come non è mai stata estirpata la protesta violenta perchè non è mai stata punita adeguatamente. I mitici poliziotti inglesi girano disarmati perchè tutti sanno che colpire un poliziotto significa incorrere nel massimo rigore della legge. Da noi invece colpirli e bersagliarli è uno sport nazionale: anche ieri a Roma ci sono stati più feriti tra le forze dell’ordine che tra i nuovi barbari.

Si parla di infiltrati, di qualcuno che li organizza e li usa. E può darsi che sia anche così. Ma al fondo del sacco di Roma c’è la certezza dell’impunità, confermata dall’esperienza che risale al ’68 e arriva al 2010: quando mai chi lancia cubetti di porfido, chi spacca vetrine, chi incendia blindati o compattatori o auto, ha subito una seria condanna scontata in carcere? Mai è accaduto.

E allora è come quando compri un cucciolo, un cagnetto o un gattino. Lo porti a casa e lui regolarmente la fa sul tappeto. Dopo dipende solo da te: se lo sculacci e gli ficchi dentro il musetto, lui impara a non farla più. Se invece lo lasci continuare impunemente, lui continua a farla; non solo sul tappeto ma anche sul divano e sul letto.

Questo è il nocciolo del problema: ai “cuccioli” dei centri sociali e affini nessuno ha mai ficcato il muso nei loro escrementi di violenza.

 

 

MARCHIONNE MOLTO PIU’ CHE SILVIO

 Se arriverà (ammesso che mai arrivi) un reale cambiamento nel nostro Paese è più probabile che lo induca Sergio Marchionne, cioè l’economia, che non Berlusconi (o chi per lui a Palazzo Chigi) cioè la politica.

Nelle ore in cui l’attenzione generale è concentrata sul “B day”, la fiducia o non la fiducia, la maggioranza che tiene si sfalda o si allarga, il governo Berlusconi o quello tecnico o le elezioni, Giuliano Ferrara ci spiega che tutta questa spasmodica attenzione è superflua. Il direttore de Il Foglio, parafrasando Mussolini, sostiene che nel nostro Paese “governare è difficile, quasi impossibile, forse inutile”.

Un’analisi che è frutto della semplice osservazione: quale governo, dal 1948 ad oggi, è riuscito a varare una riforma davvero incisiva? La politica in Italia è resa impotente dalle corporazioni, dalle concertazioni, dal consociativismo che conobbe la sua più alta incarnazione in Gianni Agnelli, presidente di Confindustria che era “buseta e botòn” con Luciano Lama segretario della Cgil…

La modifica dei comportamenti – scrive Ferrara – non può che essere indotta da fuori. Si pensava che i vincoli e una maggiore disciplina in termini di produttività e mercato del lavoro fossero resi obbligatori dall’euro. Non è stato così. Ma oggi potrebbero costringerci a cambiare l’Asia e il modello americano che dettano legge nell’industria automobilistica mondiale.

Sergio Marchionne è solo l’interprete in Italia di queste nuove dinamiche mondiali collocando “la sfida tra capitale e lavoro nelle aziende, sul tema della produttività e del salario, in stretto collegamento tra loro e per incrementare decisivamente gli uni e l’altra”.

Per inciso ricordo che anche Federico Rampini, su Repubblica, ha scritto che Marchionne è costretto a muoversi in questa direzione perchè incalzato dallo stesso sindacato americano Uaw, azionista della Chrysler, che “considera impresentabile per i suoi iscritti un progetto strategico che conceda ai metalmeccanici italiani garanzie e rigidità abbandonate qui negli Usa”.

Tornando a Giuliano Ferrara, in quella che potremmo definire un’analisi marxiana, è convinto che i cambiamenti economici siano la struttura da cui derivano tutte le altre sovrastrutture. Cioè che dalla rivoluzione del rapporto produzione-salari in economia possano poi derivare riforme vere nella pubblica amministrazione, nella scuola, nel welfare, nella giustizia, nell’intero assetto del nostro Paese.

Di sicuro, se pensiamo al nostro Veneto, i cambiamenti profondi dal dopoguerra ad oggi non li hanno provocati le forze politiche, di governo e di opposizione, nemmeno la Chiesa (che anzi li ha subiti), ma la trasformazione economica di una regione che dall’agricoltura è passata alla produzione e ai servizi.

In conclusione il vento impetuoso di una crisi economica mondiale, che impone trasformazioni profonde, forse farà uscire il nostro Paese dalla palude. Non i refoli che in queste ore spirano su Camera e Senato, anche se tanti media li scambiano per tifoni.


LORO GLI ASSASSINI, NOI I COLPEVOLI

 

Saranno anche loro gli assassini materiali. Lo è di certo il marocchino che ha fatto strage di ciclisti a Lamezia Terme, è accusato di esserlo quello di Yara a Brembate. Ma i veri colpevoli, i mandati, siamo sicuramente noi italiani che abbiamo accettato che il nostro Paese sia divenuto un far west dove più sei violento meglio ci sguazzi.

Ovviamente è un’idiozia credere che gli istinti criminali appartengano solo agli stranieri e che quindi, nella fattispecie, basti rimandare a casa loro i marocchini per tornare ad essere sicuri a casa nostra.

Ma è altrettanto idiota evocare il razzismo (che si esplica nei fatti, non certo nelle parole) di fronte a quella che è una reazione umana e comprensibile, anche se fuorviante: si tenta cioè di esorcizzare la presenza di quelli istinti criminali, che appartengono anche a noi come a tutti gli uomini, attribuendone la paternità principale o addirittura esclusiva agli altri, cioè agli stranieri.

E’ un meccanismo che scatta ovunque, ad ogni latitudine e in qualunque Paese: sempre c’è la spinta (o la speranza) di attribuire all’altro il marcio che c’è anche in noi. E’ un meccanismo che (ai pochi che hanno voluto intenderlo) ha spiegato Freud oltre un secolo fa: la differenza non è negli istinti criminali, presenti in ciascun uomo; la differenza è nella capacità di esercitare o meno un controllo sugli istinti criminali.

E Freud chiama “civiltà” proprio la capacità di esercitare questo controllo. Capacità che viene indotta sia dalla cultura di una nazione che dalla deterrenza delle sue leggi (puntualmente applicate).

La cultura: ci basta entrare in Svizzera per migliorare il nostro senso civico, e non buttare nemmeno una carta per terra, perchè percepiamo di trovarci in un Paese serio ed ordinato. Basta che un immigrato entri in Italia per percepire di essere arrivato nel Bengodi dove una cultura da straccioni del solidarismo, in nome della pseudo umanità, consente ogni nefandezza agli italiani (pensiamo alle centinaia di migliaia di pensioni di invalidità fasulle) e di conseguenza anche agli stranieri.

Una classe politica incapace di emanare leggi serie e rigorose, imponendone il rispetto a tutti. Una magistratura che le applica solo se questo garantisce le luci della ribalta. ( Toghe che dovrebbero imparare la riservatezza dai genitori di Yara, e che invece sembrano andate a lezione di esibizionismo dai parenti di Sarah Scazzi…)

In un Paese così l’istinto criminale degli stranieri non viene certo inibito, al pari di quello degli italiani che infatti continuano ad innalzare la “linea della palma”… Ma non raccontiamocela diversa: i primi e veri colpevoli siamo noi che accettiamo, senza reagire, il progressivo degrado del nostro Paese.


 

UNA LAUREA CHE VALE UNA DUNA

 

 

Gli studenti universitari che protestano contro la riforma Gelmini (pochi: massimo 20 mila su 500 mila iscritti) non lo fanno per la questione pratica ed evidente di lauree che non garantiscono più un posto sul mercato del lavoro; lo fanno per una questione ideologica: temono cioè che l’università vada “in mano ai privati”. Credono che pubblico sia bello e di tutti (loro compresi); privato invece solo a vantaggio degli speculatori, degli affaristi, delle imprese. In breve sono fermi, surgelati, alla visione del mondo dell’Ottocento proto comunista.

Non capiscono che se i jeans che indossano, invece che essere prodotti da speculatori privati che si chiamano Dolce&Gabbana piuttosto che Fiorucci, fossero pubblici, cioè prodotti dallo Stato, loro si ritroverebbero con gli stesso abiti informi e sdruciti che indossavano le popolazioni dell’Est europeo (E costerebbero più dei jeans della Diesel). Proprio come sempre più informe e sdrucita è la nostra scuola pubblica, la nostra università.

Altro slogan dell’Ottocento proto comunista: “Ci sono servizi essenziali, come la sanità, come l’istruzione, che devono essere erogati dallo Stato come garanzia per il cittadino, che non possono mai essere privatizzati”. Aggiungiamo un altro servizio, o diritto, essenziale: la mobilità. E immaginiamo che vanga erogato dal pubblico: noi paghiamo una tassa in più o lo Stato ci compera lui l’automobile. E’ più probabile che ci ritroveremo tutti ad avere una Duna al costo di una Golf o una Golf al costo di una Duna?…

Finché era “statale”, cioè mantenuta dai contributi pubblici, la Fiat poteva permettersi di produrre auto come la Duna, appunto, come la Uno, come la prima Punto. Poteva sopravvivere senza confrontarsi con il mercato. Adesso invece deve fare i conti con la Volkswagen, con la Toyota, con la Renault, ed è tornata a produrre auto decenti.

Stessa cosa avviene con le nostre università. Finché non devono confrontarsi con nessuno, finché hanno l’alibi di distribuire titoli di studio con valore legale, possono continuare a fabbricare le Duna della cultura, ossia la preparazione universitaria più sgangherata d’Europa. Se ne esce solo rimettendo i soldi in tasca ai clienti e dando loro la possibilità di scelta, proprio come avviene con l’acquisto dell’auto.

Altro che pagare a priori le tasse per un’istruzione che non istruisce, che funziona come una Duna o una Trabant: soldi in tasca alle famiglie, agli studenti, e che siano loro ad andare a comprarsi l’università che vale la pena di essere acquistata. In Francia o in Germania o in Inghilterra, o anche in Slovenia. Oggi che viviamo nel mondo globalizzato, oggi che ci diciamo cittadini europei, non abbiamo certo bisogno dell’università sotto casa, della facoltà per ogni campanile: che lo studio diventi un’occasione in più per far conoscere il mondo ai nostri bamboccioni

E che tornino a casa, a ricomprare un’università italiana, solo se e quando i nostri atenei avranno smesso di sfornare Duna

 

 

MARA DIVENTA LA “CASTA DIVA”

 E Mara Carfagna si trasforma nella “casta diva” della politica italiana. Ma non era diventata ministro solo grazie – Paolo Guzzanti dixit – alla mignottocrazia? E non era sua figlia (di Guizzanti), Sabrina, ad urlare a piazza Navona tra un uragano di applausi: “ A me non me ne frega niente della vita sessuale di Berlusconi: Ma tu non puoi mettere alle Pari opportunità una che sta lì solo perchè t’ha succhiato l’uccello!”? (Questo è parlar chiaro e forbito. Altrochè le banalità delle barzellette del Cavaliere sulla Bindi che sarebbe “più bella che intelligente”…)

Oggi, improvvisamente, la Mara-Lewinski si transustanzia in casta diva. Anzi in coraggiosa testimone del marcio della politica italiana nell’era di Berlusconi. Scrive infatti il vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini: “Su questo abisso politico e morale, ha aperto una finestra Mara Carfagna. Con l’annuncio delle sue dimissioni mostra agli italiani la nudità del potere e, di riflesso, la caducità del governo”.

Parlando di lei ora l’eloquio si innalza, l’enfasi cresce; siamo quasi ad una riscrittura dei Sepolcri in cui Foscolo attribuiva a Macchiavelli il merito di aver svelato “alle genti di che lacrime grondi e di che sangue” lo scettro del potere…

Direi che stiamo esagerando. Non perchè la Carfanga non abbia ragione a criticare il modo in cui Cosentino esercita il potere in Campania. Che immagino sia molto simile a come lo esercitava Bassolino: nel senso che chiunque voglia far politica in certe regioni o si intreccia con le cosche, che controllano il territorio, o rinuncia…

Però le caste dive non possono esistere perché la politica – stando alla celebre definizione dell’ex ministro Rino Formica – “è sangue e merda”. Lo è per tutti, non solo per qualcuno, Lo è anche per chi mira a sostituirsi a Cosentino nel Pdl campano…

Tanto entusiamo per Mara è dovuto, sembra evidente, al fatto che minaccia di aprire una nuova crepa all’interno del Pdl. Un po’ un Fini in sedicesimi. Quel Fini che, da fascista che era, oggi viene presentato come leader della moderna destra europa, incarnata su legalità e senso dello stato. E, non a caso, anche le donne di Fini, l’Elisabetta (già amante di Gaucci) e l’ex moglie Daniela Di Sotto (già borgatara romana, tifosa scatenata della Lazio) diventano pure loro dive caste ed eleganti e raffinate…

Intendiamoci. Il sangue e merda della politica comprende da sempre il ricorso a questi mezzi: utilizzi, esalti e apprezzi chi serve a mettere in crisi il tuo avversario. Lo ha fatto anche il centrodestra con Clemente Mastella; che fece cadere Prodi e fu premiato con un seggio al Parlamento europeo. Ma, se non altro, Feltri ha evitato di scrivere che il buon Clemente era diventato un intellettuale della Magna Grecia…

SAVIANO, IOVINE E LA MERITOCRAZIA

 

 

Commentando l’arresto del boss Antonio Iovine, Roberto Saviano ha fatto un’osservazione molto interessante e, in buona parte, condivisibile. Ha scritto che “le organizzazioni criminali hanno un grande vantaggio rispetto all’economia legale italiana: sono meritocratiche. Un merito identificato nella severità d’azione, nella spietatezza, nel saper gestire gli imprenditori, comprare la politica e saper ammazzare”.

Non c’è alcun dubbio che non si diventa boss per caso ma solo per merito, per merito criminale. Non perchè sei figlio di un boss; come invece capita di diventare notaio o professore universitario solo perchè questa è la professione di tuo padre. Nelle mafie puoi essere un nessuno e salire fino a vertice se sei efferato e dotato. La spaventosa efficienza delle mafie è dovuta proprio alla meritocrazia come criterio di selezione dei boss. Saviano ha perfettamente ragione. Il merito è sempre vincente, sia in positivo che in negativo, sia nel male che nel bene.

Non concordo però quando afferma che nell’economia legale italiana non esisterebbe il merito. Non esiste se è economia assistita, stile Fiat. Ma in tutto il resto, che è la grandissima parte, esiste eccome: continui a fare il negoziante solo se sia innovare, mentre se credi di gestire come faceva tuo padre chiudi bottega. E questo vale per gli artigiani, per tutti i produttori di beni e di servizi.

Vale tra gli scrittori. Ce ne sono cento che hanno scritto di mafie, ma uno solo è divenuto Saviano: significa che sa scrivere meglio degli altri, che è più incisivo, che sa catturare i lettori. Vale tra i giornalisti conduttori: uno solo è e resta Santoro. Non basta schierarsi. E’ schieratissima anche la Busi (e per giunta contro Minzolini…). C’erano tutti i presupposti per farne il Michele in gonnella; ma dopo due puntate le hanno cancellato la trasmissione, travolta dal flop di ascolti, perchè non ha il merito di saper condurre…

Dove non esiste la meritocrazia è nel pubblico impiego. Quando vai in cattedra, alle medie o all’università, ci resti sia che insegni bene sia che cazzeggi e vai comunque avanti con i tuoi scattini di stipendio e di anzianità. Quando diventi magistrato ci resti fino alla pensione; e ci vanno tutti al massimo livello della carriera, sia che abbiano fatto il loro dovere sia che abbiano sperperato tempo e risorse. Non a caso la scuola e la giustizia (come il resto del pubblico impiego) sono allo sbando: lo sono perchè non esiste meritocrazia nella selezione e nella promozione degli addetti.

E qui arriviamo al paradosso finale: per rilanciare il pubblico impiego bisognerebbe adottare gli stessi rigidissimi criteri meritocratici che valgono tra i picciotti delle mafie. Oppure rovesciamo il discorso e arriviamo all’identica conclusione: per distruggere le mafie, per mandarle in rottamazione, bisognerebbe che i boss fossero selezionati e promossi con gli stessi criteri che sono in vigore per magistrati e professori…

Conclusione. Non so se Saviano ne sia consapevole ma, commentando l’arresto di Iovine, ha tessuto l’elogio della società liberale, delle grandi democrazie, che sono fondate sul merito. Non sulle cricche, sulle corporazioni, sulle caste, sul familismo, sugli ordini professionali: queste, purtroppo, sono le fondamenta dell’Italia.


IL “SERVIZIETTO” DI SAVIANO A FINI

 

Chi più di Emilio Fede incarna, agli occhi del popolo di sinistra, la figura del giullare di destra? Pronto a tutto pur di compiacere e servire il suo padrone. Eppure nemmeno Fede il fedele è arrivato al punto di dimostrare affetto e dedizione prendendo in braccio Berlusconi; né il Cavaliere si è sognato di lasciarlo fare.

Per vedere una scena del genere bisogna spostarsi sull’altro campo, applicare la par condicio del cortigiano, andare ai primi anni Ottanta: ed eccolo là Roberto Benigni che prende in braccio Enrico Berlinguer; con il leader del Pci che, sorridente, lo lascia fare. Una scena simpatica, l’esuberanza festosa di un grande attore: così venne commentato allora quell’abbraccio; non ci fu una critica che fosse una.

Vi pare che oggi saremmo altrettanto indulgenti se Silvio si facesse prendere in braccio da un qualunque artista di gran fama? O non accuseremo subito quell’artista di essersi prestato ad un “servizietto” del genere che la nota stagista garantiva a Bill Clinton?

Certi “servizietti” sono anzitutto ridicoli sia che li pratichino artisti, giornalisti, scrittori o cantanti (ricordate Gianni Morandi che canta in prima serata su Rai uno “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e Rolling Stones” accompagnato dall’allora capo del governo Massimo D’Alema?). Ma più ridicolo ancora è chiamarli col loro nome, cioè pompini, quando avvengono a beneficio di un politico di destra, e chiamarli invece “contributi culturali” quando sono a beneficio di un politico di sinistra.

Premessa lunghetta per concludere che l’invito fatto a Bersani e Fini questa sera da Fazio e Saviano – con tutta la buona volontà – non può essere considerato un “contributo culturale” alla loro trasmissione su Rai tre.

 





ARRIVANO I SOLDI, NON LA LIBERTA’

 

Con Berlusconi e Bossi in Veneto sono arrivati i soldi. Non si ancora bene quanti, ed è impossibile saperlo finchè non saranno quantificati i danni comune per comune, ma sono arrivati. Magari non basteranno per far fronte a tutte le necessità, ma è certo che il governo in finanziaria farà uno stanziamento pro alluvionati veneti.

Sono arrivati i soldi, ma non è arrivata la libertà. La libertà cioè l’autonomia, il federalismo vero, quel Veneto alla catalana che pure poteva emergere dalle acque. Perchè la politica, i leader politici veri colgono al volo anche le occasioni che le tragedie offrono per imporre una svolta.

Ma devono, appunto, essere leader veri capaci di imporre una scelta. Di dire: noi veneti ci teniamo il primo acconto Irpef, Non di chiedere al governo centrale – come ha fatto Zaia – se è d’accordo che i veneti si tengano il versamento Irpef…Chiara la differenza? Vi pare che un Pujol sia andato a domandare a re Juan Carlos o al capo del governo spagnolo di allora se poteva rendere autonoma la Catalogna? Lo ha fatto è basta; li ha messi nelle condizioni di non poterla rifiutare.

Infatti Jordi Pujol era un leader. Mentre in Veneto abbiamo tanti bravi amministratori: ottimi sindaci, presidenti di provincia preparati, governatori capaci di realizzare grandi opere come il Passante o di gestire la sanità meglio che in altre regioni.

Però le grandi opere le facevano anche i provveditori della Serenissima Repubblica. Uno di loro, Andrea Memmio, realizzò a Padova il Prato della Valle, una delle più belle piazze d’Europa. Ma agiva agli ordini e per conto di quella che veniva chiamata “la Dominante”…

Eccolo il punto: un vero leader politico deve essere consapevole che nessuno lo domina, che non ha capi né ad Arcore né in via Bellerio. Che solo i veneti sono il suo capo. Anzi: che lo riconoscono come capo solo se è capace di imporre una svolta, cioè di tirarli fuori dall’attuale rapporto con lo Stato centrale che per loro è penalizzante.

La libertà, sia chiaro, non è fuffa. Sono anche soldi, anzi soldoni; molti più di quelli che oggi ci hanno promesso Berlusconi e Bossi. E’ la libertà di gestire le risorse che i veneti producono.