SHOWROOM CATTOLICO PER L’ISLAM

 

 

L’on. Massimo Bitonci, sindaco di Cittadella, ha raccontato che nel suo comune il parroco ha concesso gli spazi del patronato ai mussulmani per celebrare la fine del Ramadan. Non è la prima volta che si manifesta questa “disponibilità” cattolica nei confronti dell’Islam. E lascia perplessi.

Non si tratta certo di mettere in discussione il principio della libertà religiosa, che va comunque garantita – anche in assenza di reciprocità – a qualunque credo. Esattamente come la libertà di pensiero politico va difesa anche (e soprattutto) per le ideologie che giudichiamo più aberranti.

Il confronto e il dialogo non possono certo essere ostacolati; vanno anzi promossi. Nell’epoca della comunicazione globale è infatti inevitabile che si raffrontino tutte le offerte: da quelle politiche, a quelle religiose, fino a quelle automobilistiche. Non a caso, restando alle auto, le pagine che più interessano di Quattroruote sono proprio quelle che confrontano prezzi e prestazioni delle Fiat con quelli delle Renault o delle Volkswagen o delle Toyota.

In questi giorni Marchionne ha bacchettato i rappresentanti americani della Crysler ingiungendo loro di tenere aperti gli showroom anche al sabato, ed ha così confermato di essere un duro. Ma, se avesse intimato di mettere gli showroom Crysler a disposizione delle auto General motor o Ford, avremmo tutti pensato che l’uomo del pullover era impazzito. Perchè un conto è rispettare la concorrenza, un altro impegnarsi ad agevolarla.

E cosa ha fatto il parroco di Cittadella se non mettere a disposizione dell’Islam il suo showroom cattolico?…

La “disponibilità” arriva a spingersi oltre: nei siti di alcune diocesi abbiamo addirittura trovato una raccolta di fondi pro moschea! E non si tratta di discutere il diritto di realizzare i luoghi di culto per qualunque fede. Si va perfino al di là di riaffermare il principio che tutte i credo hanno diritto ad accedere all’otto per mille. Perchè si arriva a finanziare direttamente l’avversario, o se volete, il concorrente religioso.

Cosa diremmo se Berlusconi si mettesse a raccogliere fondi per aiutare Fini a radicare Futuro e Libertà? Diremmo che il Cavaliere è andato via di testa.

Non dubito che Oriana Fallaci avrebbe bollato questa “disponibilità” cattolica come collusione con il nemico.

Forse però c’è un virus più sottile ed insidioso. L’ho pensato vedendo il cardinal Bertone a Porta Pia e Papa Benedetto con il cappello da bersagliere in testa. Non si tratta, per la Chiesa, di prendere atto della fine del potere temporale, ma addirittura di celebrarlo come un evento per lei fausto.

E allora mi domando se non ci sia una radice di autolesionismo: il Papa esalta i bersaglieri che 150 anni fa l’hanno “imprigionato” in Vaticano; il parroco di Cittadella offre oggi la parrocchia agli islamici in attesa che domani gli costruiscano un minareto sulla sua chiesa…

 

CHI DISCRIMINA I ROM

 

 

Chi discrimina i rom? E’ Sarkozy con i suoi provvedimenti, o si auto-discriminano con i loro comportamenti? La sentenza non sembra particolarmente ardua.

E’ arduo invece, anche se ispirato da un cieco amore zigano, l’accostamento tra i 300 euro con cui il presidente francese cerca di convincerli a ritornare volontariamente a Bucarest e le deportazioni con destinazione campo di sterminio che attuò Hitler; avendo imparato il metodo – scusate se oso ricordarlo – dal suo Gran Maestro, il compagno Stalin.

Sgombriamo il campo dai deliri e torniamo al dunque, cioè a chi discrimina chi.

Come mai, se viene ad abitare vicino a noi una famiglia di filippini, siamo al massimo incuriositi, mentre se arriva la carovana dei nomadi siamo allarmati? Come lo spieghiamo questo nostro “razzismo a corrente alterna”, che con uno scatta e con l’altro no? Perchè

(aggiungendo un particolare per il mio biografo Silvestro) a due operai moldavi ho dato le chiavi di casa mia dopo tre giorni che li conoscevo, mentre ad un rom non gliele darei nemmeno dopo trent’anni? E voi gliela dareste la chiave di casa vostra? Dubito lo farebbe perfino il presidente dell’Opera Nomadi…

Mi sembra evidente che chi – nel Terzo Millennio e in Occidente – vive ancora da nomade, ci racconta che si sostenta allevando cavalli e forgiando il rame, pretende di avere campi attrezzati e gratuiti quando tutti gli altri giramondo della domenica si pagano il campeggio e presentano i documenti senza sognarsi di sentirsi schedati. Mi sembra evidente che chi adotta questo stile di vita si auto-discrimina e minimo ispira diffidenza.

Abbiamo mai visto un nigeriano o un polacco mandare i propri bambini in strada a chiedere la carità e bastonarli se non obbediscono? Li abbiamo visti rifiutarsi di mandare i figli a scuola anche se arriva l’assistente sociale e il pulmino gratuito a prelevarli? Possiamo osservare che solo certi nomadi lo fanno? Oppure siamo razzisti e vogliamo noi discriminarli?

Che poi se ragioniamo così, se abbiamo questa libido nel lanciare l’accusa di razzismo, allora dobbiamo notare che la discriminazione esiste anche in positivo. Sindaci come Cacciari che ha destinato loro un intero villaggio o come Zanonato che gli ha dato alcune casette, hanno discriminato i nomadi; perchè dovevano dire loro di mettersi in coda per le case popolari come tutti gli altri cittadini italiani e stranieri.

Se ragioniamo così’, è razzista anche il sindaco di Verona Tosi che ha previsto interventi economici mirati per smantellare un campo nomadi. Interventi riservati solo a loro e non previsti per gli altri cittadini veronesi.

Se invece recuperiamo un po’ di buonsenso, dobbiamo riconoscere che per alcuni gruppi o etnie servono interventi mirati, sia in positivo che in negativo; ci vuole tanto il bastone quanto la carota e l’importante è dosarli bene se si vuole risolvere i problemi e non lasciarli marcire.

Il vero razzista è chi evoca la discriminazione , e addirittura il fantasma di Hitler; perchè tutto questo serve solo a convincerlo che lui mica è becero, lui appartiene alla razza superiore della fratellanza e dell’amore universale. ( almeno finché il “fratello” non si materializza nel suo salotto…)

SE IL PROFE BLOCCA LO STRETTO

 

 

L’anno scolastico è cominciato all’insegna della protesta degli insegnanti precari. A conferma che la funzione cruciale della nostra scuola non è trasmettere un sapere agli studenti, ma stabilizzare il posto di lavoro dei docenti. (Fosse il contrario l’anno sarebbe iniziato con la protesta delle famiglie per le tante ore che – come certificato dall’Ocse – i nostri figli passano con poco profitto sui banchi)

Diamo comunque per scontato che i precari abbiano tutte le ragioni del mondo. Resta – e spero siate d’accordo – inaccettabile la forma della loro protesta, cioè il reato che hanno compiuto quei tremila che per alcune ore hanno impedito il transito attraverso lo Stretto, bloccando i collegamenti tra la Sicilia e il continente.

Forse ho troppa considerazione per i docenti, ma trovo che il blocco di strade, ferrovie (e traghetti) attuato da loro sia ancora più grave di quando lo fanno i lavoratori di un’azienda. Perché gli insegnati (come dice il nome) dovrebbero insegnare anche l’educazione civica, il rispetto delle leggi. E l’idea che lo insegnino violando le leggi è un po’ della serie Dracula presidente dei donatori di sangue…Più che in cattedra alle medie li vedrei bene a tenere seminari nei centri sociali.

Prendiamo atto che anche loro invece adottano queste forma di ribellismo da Paese sudamericano, inaccettabili in una democrazia matura. Ma rendiamoci conto che vengono adottate per la semplice ragione che funzionano: che blocchi, occupazioni, picchettaggi e simili violazioni delle leggi e dei diritti, da un lato non vengono (quasi) mai sanzionate dalla magistratura dall’altro spingono (quasi) sempre la controparte a calare le braghe.

Quindi, chi spera che la protesta di strada alla Masaniello divenga anacronistica anche nel nostro Paese, deve auspicare che i manifestanti di Messina e Reggio Calabria non ottengano alcun risultato. In caso contrario avremo un effetto moltiplicatore.

Venendo al merito, e fermo restando che per tutte le professioni vale la regola che possono svolgerla non tutti coloro che lo desiderano ma tanti quanti ne richiede il mercato, bisogna sempre trovare un ragionevole equilibrio tra diritti e doveri. Nel senso che gli insegnanti hanno diritto ad un posto fisso e ad una retribuzione decorosa, se accompagnato al dovere di essere preparati nella loro materia, di saperla insegnare (capacità didattica) e di accettare verifiche periodiche.

Un equilibrio che si raggiunge solo se lo esige la controparte. Cioè il potere politico, che dovrebbe rappresentare il più vasto interesse degli studenti e delle loro famiglie ad avere una scuola che trasmetta un sapere, e non si limiti a funzionare da agenzia per l’impiego dei precari della pubblica istruzione.

 

TODOS COMUNALES, C’E’ PANTALONE

 

 

Tutti in coda per diventare comunali. In duemila a Verona sperando di agguantare uno dei dieci posti di impiegato a Palazzo Barbieri.

Tanti e anche piuttosto seccati, a sentire le dichiarazioni che hanno rilasciato ai cronisti: i 1.250 euro netti al mese non sono molti, diceva uno; è anni che aspetto di entrare nella pubblica amministrazione, lamentava un’altra degli aspiranti.

Scusate. Ma il lavoro c’è, anche subito; e così pure l’opportunità di guadagnare molto di più. Lo vediamo con tutti quei lavoratori veneti e stranieri che hanno scelto di fare i posatori, gli imbianchini, gli idraulici, gli elettricisti, i muratori. Lavorano in proprio, lavorano a misura, lavorano anche dieci ore al giorno e sei giorni alla settimana, e così arrivano tranquillamente a 3.000 euro al mese.

Naturalmente non è obbligatorio seguire il loro esempio. Siamo un Paese libero e non c’è un Mao che ci mandi tutti a zappare la terra. C’è chi sceglie il lavoro “intellettuale” e vuole diventare comunale. Libero di provarci ma si metta in coda, abbia pazienza, e non si lamenti per i tempi d’attesa e lo stipendio modesto.

Dopo di che il concorso per i dieci comunali in più è servito a ricordare che Verona, con i suoi 250 mila abitanti, di comunali ne ha già 2.600. Scusate se sono pochi! Tenendo conto che lavora circa metà della popolazione totale, significa che un veronese ogni cinquanta è assunto in Comune. Non parliamo di tutti gli altri statali: della scuola, della sanità, delle forze dell’ordine, degli enti pubblici vari. E siamo nel nostro Veneto, a Verona. Non a Palermo.

Credo che l’origine di tutti i problemi sia chi li paga. Da noi non si capisce bene, negli Stati Uniti è chiarissimo: là vige una sorta di federalismo fiscale totale. Nel senso che gli abitanti di una qualsiasi città americana pagano direttamente tutte le spese dei loro comuni, a partire da quella per il personale.

Le conseguenze più immediate e diverse rispetto a noi sono due: se un sindaco statunitense proponesse di aumentare i servizi verrebbe “lapidato” (elettoralmente parlando) dai suoi cittadini che non vogliono sborsare soldi in più, che sono consapevoli che qualunque cosa erogata dal pubblico costa il doppio e che, seconda conseguenza, esigono organici comunali ridotti all’osso.

Se i veronesi fossero cittadini americani ragionerebbero come già ragionano con la manutenzione della propria casa: se serve una colf la prendo per le ore che mi servono (non certo a tempo pieno perchè, poverina, è precaria ed ha diritto ad un lavoro stabile…) e controllo cosa fa in quelle ore, cioè se stira le camice o naviga su internet. In sintesi trasferirebbero gli stessi criteri, e gli identici controlli, con chi si occupa della manutenzione della città.

Ma questo avviene solo se è chiaro chi sborsa i soldi e perchè. Se invece sussiste l’idea confusa che paghi Pantalone, speriamo che anche i nostri figli riescano a diventare…intellettuali a Palazzo Barbieri.


FINI LA VOLPE E L’ARTE DI GOVERNO

 

 

Ad ascoltare ieri Fini a Mirabello veniva da pensare che uscisse più dalle Acli che dal Fronte della Gioventù. Nel senso che ha fatto un discorso da vecchia volpe democristiana, ripassando il cerino, cioè la responsabilità della rottura definitiva, in mano a Berlusconi.

Piaccia o meno la strategia di Fini ha un senso e lui sta portandola avanti con astuzia e capacità politica: sa di non avere alcun interesse ad andare subito ad elezioni, perchè rischia di essere spazzato via con l’accusa di traditore; punta dunque a logorare il Cavaliere, a tenerlo sulle braci di un governo sotto scacco che non governa; convinto, a ragione, che il tempo giochi a suo favore e contro il Cavaliere.

Vedremo se e come il Cav. saprà uscire dalla morsa. Intanto restando ai tanti temi toccati dal presidente della Camera nel suo lungo discorso, dissento in particolare dalla sua affermazione che governare si può e si deve, ma che questo non significa comandare. Credo sia esattamente il contrario: si deve comandare perché, se non sai comandare cioè farti ubbidire senza sfibranti mediazioni, non riesci nemmeno a governare.

Possiamo capirlo se riusciamo ad uscire (Evor) dall’ossessione berlusconiana, cioè a prescindere da ciò che giova o che danneggia Berlusconi, concentrandoci invece su ciò che funziona o non funziona.

Pensiamo ai nostri sindaci, sia a Flavio Zanonato che a Flavio Tosi; sindaci di opposta appartenza politica, a dimostrazione che non è il colore quello che conta, ma accomunati da un simile attitudine al comando. Il primo direi più ancora del secondo. Zanonato che non ha esitato a “processare” in giunta l’assessore Colasio che tendeva a fare troppo “il finiano”, cioè a distinguersi criticando sui media l’operato dell’amministrazione.

Magari un po’ più felpato nei rapporti coi suoi assessori, ma anche Tosi decide, comanda, agisce. Ed ha un consenso crescente: manca poco che a Verona comincino a costruirgli i monumenti in piazza… Zanonato è ormai sindaco da vent’anni in una Padova che pure, ad ogni elezione politica, è più orientata sul centrodestra. Perché i cittadini apprezzano e vogliono sindaci decisionisti.

Loro, i sindaci, possono comandare e decidere perchè hanno uno strumento che non possedevano i loro predecessori prima della riforma elettorale degli enti locali: possono mandare tutti a casa. Oggi se il sindaco non ha più una maggioranza, si torna a votare. Una volta invece si andava a cercare una diversa maggioranza in consiglio.

La differenza è enorme: una volta si poteva cambiare sindaco ogni momento, anche due-tre-quattro nel quinquennio, ed il sindaco era sempre ostaggio del consiglio comunale. Oggi invece il pallino l’ha in mano lui, se lo mettono in minoranza sanno di andare tutti a casa, ed il risultato è che il sindaco comanda, decide e si assume le sue responsabilità elettorali, e quasi sempre resta in carica per tutto il mandato.

Riuscissimo a prescindere dall’ossessione berlusconiana, capiremmo subito che esiste l’identica esigenza a maggior ragione per i governi nazionali: per dar loro stabilità, per garantire la governabilità, bisogna che sia il capo del governo ad avere il potere (se volete il ricatto) di sciogliere le Camere.

La Costituzione affida invece questa facoltà al presidente della Repubblica perché è figlia del suo tempo: fresca cioè del Ventennio fascista mirava anzitutto ad imbrigliare il potere dell’esecutivo, ad evitare la concentrazione delle funzioni su una sola figura. Un pericolo che era stato reale, che si comprende pensando al 1946. Ma che oggi solo gli ossessionati da Berlusconi continuano a brandire, impedendo così di avere quei governi stabili e incisivi che hanno (quasi) tutti gli altri Paesi.

 


NAPOLITANO E L’ECONOMIA DA FREEZER

 

 

Da mesi manca un ministro dell’Industria, o dello Sviluppo Economico che dir si voglia. E tutti danno per scontato che sia uno scandalo, una falla inaccettabile per il Paese nel pieno della crisi economica. Proviamo ad essere meno conformisti e a rovesciare il discorso: e se fosse invece una fortuna, una delle ragioni della pur timida ripresa produttiva?

Alla fine a cosa serve un ministro dell’Industria? Nella migliore delle ipotesi è irrilevante, se sta fermo. Se agisce procura danni, come (quasi) tutti gli interventi dello Stato e della politica sull’economia di mercato. Ammesso che le rottamazioni e i vari aiutini siano una politica industriale (e non la droga di Stato che invece sono), basta e avanza il consiglio dei ministri per vararli. Non serve certo un ministro ad hoc.

Purtroppo, anche senza ministro dell’Industria, è rimasto il ministero; col suo stuolo di burocrati. I quali fanno esattamente come gli altri loro colleghi nei vari ambiti: giustificano lo stipendio ed esercitano il potere preparano decreti, norme, regolamenti che hanno l’unico effetto di imbrigliare ancor più la vita e le attività quotidiane; comprese quelle produttive. (Dall’inchiesta che stiamo seguendo sui costi della veterinaria abbiamo scoperto che i burocrati del ministero della Salute si sono inventati anche il patentino per il cane! Restiamo in attesa di microcip obbligatorio per le zanzare di casa…)

Nella sua richiesta di ministro e di “politica industriale”, il presidente Napolitano conferma le sue mai estirpate radici comuniste. Bastasse un ministero e una politica industriale a garantire la ricchezza delle nazioni, tutti i Paesi l’avrebbero già adottata! E sarebbero così tutti prosperi e al riparo da qualunque crisi economica. In particolare avrebbe sbancato proprio il mondo comunista, che credeva fermamente nella programmazione economica, nei piani quinquennali, nella politica industriale. Avrebbe sbancato e messo in ginocchio l’Occidente preda della sua “anarchia” capitalista.

Ma non mi pare che sia andata così. Anzi. E la prima causa di implosione del mondo comunista furono proprio le politiche industriali capaci di produrre solo miseria. Perchè l’intervento dello Stato in economia genera un unico effetto sicuro: trasforma i galletti ruspanti in polli di batteria, abituati ad attendere che vanga distribuito il mangime pubblico.

Altro che politiche industriali, oggi al Paese serve esattamente ciò che garantì a suo tempo il boom economico del nostro Veneto: la voglia di lavorare, ora quasi desaparecida, una stirpe di imprenditori, che purtroppo non è programmabile con l’eugenetica, e quel buonsenso democristiano che quantomeno ti lasciava fare.

Ci vorrebbe anche una rivoluzione culturale da mondo protestante: considerare cioè i produttori di ricchezza dei benemeriti della comunità e non degli sfruttatori come li ha invece sempre giudicati sia la Chiesa cattolica che la “chiesa” comunista.

E questo dovrebbe raccomandare agli italiani un presidente della Repubblica moderno che non uscisse, fresco fresco, dal freezer d’inizio Novecento…


GHEDDAFI, ROMA E I NOSTRI PRETI

 

 

Tutti scandalizzati per Gheddafi che vuole l’Europa intera convertita all’Islam; ed ancor più per l’avanspettacolo imbastito dal leader libico sbarcato a Roma con le tende, i cavalli e la sua guardia del corpo di amazzoni statuarie.

Francesco Merlo, offeso e risentito, parla su Repubblica di “un circo che ci umilia”. Più che umiliarci direi che Gheddafi ci fotografa, cioè ci ricorda cosa siamo e cos’è in particolare Roma: una città levantina, un tempo caput mundi, oggi capitale del Basso Mediterraneo, luogo delle sceneggiate per antonomasia. Lo sa bene il povero sindaco Alemanno che vorrebbe far pagare un apposita tassa alle oltre 500 manifestazioni nazionali che è costretto ad ospitare ogni anno.

I romani sono come i dipendenti Rai, pagati per fare il finto pubblico alle trasmissioni. A Roma tutti vanno per esibirsi, sperando così di strappare un minimo di visibilità sui media; anche se lo spettacolo è sempre più monotono e ripetitivo: gli stessi slogan, gli stessi striscioni, gli stessi tamburi della Coldiretti, della Triplice, dei Cobas della scuola e del latte che al massimo della creatività hanno “inventato” e portato in giro la mucca Ercolina…

Vuoi mettere Gheddafi con le sue Urì? Con lo sfarzo del sultano orientale pronto ad ingaggiare 500 hostess, non per un orgia collettiva, ma per una distribuzione del Corano! Roma ha trovato il suo ottavo re, uno show man degno di calpestare il più fastoso e putrescente palcoscenico del Mediterraneo. Lui sì che merita tutto lo spazio che i media gli hanno dato, altro che i nostri bolsi dilettanti della sceneggiata! (l’Onda dei no global, per provare a risalire l’onda, dovrebbe chiedergli una consulenza…).

Il leader libico, da persone intelligente, mette in scena lo spettacolo adatto al contenitore. Mai si sognerebbe di sbarcare con lo stesso armamentario non dico a Parigi o a Berlino, ma nemmeno nel cuore operoso della Milano lombarda. Solo a Roma si può, anzi si deve.

C’è poi il contenuto del suo appello : Europa, convertiti all’Islam! E qui va osservato che la lezione è per i nostri preti, che dovrebbero dire (come dicevano un tempo): Oriente convertiti al cristianesimo! Ascolta la parola dell’unico vero Dio! Geddafi ha il coraggio di dire ciò che la Chiesa cattolica non osa, una Chiesa che oggi predica il dialogo al posto della conversione. Cioè che ha calato le braghe di fronte all’impeto islamico…

Sacerdoti alla Bagnasco che pensano al caso Melfi; che si preoccupano per il lavoro, per l’immigrazione, per l’ambiente e gli ogm, per i rom “deportati” da Sarkosy.

Intendiamoci: non che la Chiesa non debba occuparsi anche di tutti questi problemi economici, umanitari e sociali. Ma al centro deve restare la fede e la conversione, da cui poi derivano anche le altre attenzioni. Altrimenti Bagnasco scade a sindacalista di serie B.

Magari per evitare il rischio potrebbe chiedere udienza all’imam Gheddafi che fa discendere tutto dalla parole di Maometto, “l’ultimo dei profeti”.

 


ECCO PERCHE’ STO CON FINI

 L’estate porta consiglio, le ferie sono l’occasione per riflettere. E dopo averci riflettuto, appunto, ho concluso di essere anch’io un finiano; un finiano di ferro, più che mai convinto. Di cosa? Che il presidente della Camera sia l’uomo giusto, forse quello decisivo, per spaccare in due il Paese. Per farla finita con quella unità nazionale che è stata più disastrosa ancora per il Sud che per il Nord (Qui concordo con Pino Aprile: leggetevi il suo “Terroni”, edizioni Piemme, è l’autentico best seller politico del 2010).

Smettiamola una buona volta con la retorica unitaria. Lasciamo perdere l’estrema, pasticciata e velleitaria, riforma federalista che vorrebbe – e francamente non si capisce come – riempire un po’ di più la botte padana (che ne ha tutti i diritti come produttrice della ricchezza nazionale) continuando però anche ad ubriacare la moglie meridionale. Prendiamo atto che quello realizzato nel 1860 è un matrimonio coatto, imposto dai cosiddetti Padri della Patria, Cavour-Garibaldi-Vittorio Emanuele II, contro la volontà degli sposi. Una di quelle unioni impossibili, che fanno unicamente soffrire entrambi i coniugi, e che giustificano la legge sul divorzio come strumento di civiltà e libertà.

Tornando a Fini spiego perchè lo ritengo il “giudice” che potrebbe decretare la separazione tra Nord e Sud. Tutto dipende dal suo diverso appeal elettorale. Da noi in Settentrione il suo seguito tra gli elettori del Pdl è modesto, per non dire inesistente. Riscuote molta simpatia ma tra gli elettori di centrosinistra, che apprezzano la sua capacità di mettere in crisi Berlusconi, che lo ritengono magari più efficace di Bersani…

Qui al Nord però Fini non modifica gli equilibri elettorali, non sposta voti: è solo un commensale in più che si siede al tavolo dell’opposizione, e che minaccia di mangiarsi un pezzo della già modesta torta elettorale senza contribuire a farla lievitare. (E da questo punto di vista Casini, Bersani e Di Pietro gli riservano più la diffidenza del concorrente che l’entusiasmo dell’alleato capace di portare nuove truppe…).

Mentre il discorso al Sud è radicalmente diverso. Fini infatti qua si presenta come il paladino dell’antileghismo, contrapposto ad un Berlusconi che è invece legato a doppio filo con Bossi. Per l’elettorato meridionale il presidente della Camera è il primo ostacolo alla riforma federalista, il politico che – in nome della solidarietà e dell’unità nazionale – potrebbe garantire che continui l’elargizione di denaro pubblico. E quindi al Sud potrebbe raccogliere parecchi consensi.

Si profila così uno scenario verosimile: Lega e Pdl che hanno una solida maggioranza al Nord; mentre al Sud il Pdl si ritroverebbe in minoranza, con una maggioranza magari solo teorica ma comunque ampia che va da Vendola al Pd a Casini a Di Pietro e ai finiani.

Credo che questo scenario sarebbe la premessa per festeggiare i 150 anni dell’unità…iniziando le pratiche per il divorzio.

In conclusione sottolineiamo un paio di contraddizioni tipiche della politica (che solo nelle attese degli ingenui non è contraddittoria): Fini, l’alfiere dell’unità nazionale, da vita ad un partito nei fatti territoriale-sudista che contribuisce a spaccare ancora di più il Paese. Bossi, l’alfiere della secessione, che ha fondato un partito dichiaratamente territoriale-nordista, è il protagonista dell’ultimo stoico tentativo di salvare l’unità nazionale con la riforma federalista (che oggi pare abortita sul nascere).

Personalmente comunque non ho dubbi: sto con Fini perchè sarà lui, più di Bossi, a dare la spallata definitiva…

 

MANI PULITE, SOLDI SPORCHI

 

 

Al centro della rottura definitiva tra Fini e Berlusconi c’è la legalità, la questione morale. Questione fondamentale, cui l’opinione pubblica è, a ragione, molto sensibile. Ma che, proprio per questo, si presta ad essere strumentalizzata nella battaglia politica.

E’ successo fin dagli albori, con l’antesignano della questione morale. Enrico Berlinguer, leader del Pci, che la lanciò già negli anni Ottanta e, battendo nel tempo e nella definizione gli stessi magistrati del pool di Milano, attribuì per primo al suo partito la qualifica di “mani pulite”. Definizione indubbiamente efficace che dava per scontata anche la contrapposizione con gli altri partiti, Dc e Psi, che le mani invece le avrebbero avute sporche.

Peccato però che pure le mani pulite avessero maneggiato soldi sporchi. Quei soldi delle tangenti che anche il Pci intascava, come dimostra la vicenda del “compagno G.”. (Quel Primo Greganti che i comunisti allora considerarono un eroe, con l’identico ragionamento fatto poi da Dell’Utri nei confronti di Mangano: anche il compagno G, pur sbattuto in carcere, non parlò…)

Ma per il Pci di Berlinguer c’era un aggravante e non da poco. Aveva cioè intascato per decenni anche i soldi dall’Urss, l’oro di Mosca, da un Paese nemico, fulcro del Patto di Varsavia, mentre noi eravamo schierati sul fronte opposto con la Nato.

In qualunque nazione dell’Occidente – Francia, Germania, Inghilterra- i dirigenti di un partito, che avesse ricevuto finanziamenti occulti da un Paese nemico, sarebbero stati processati per alto tradimento. Da noi invece il Parlamento mandò in prescrizione qualunque tipo di finanziamento illecito avvenuto fino al 1988.(Non è che la “prescrizione ad hoc” se la sia inventata Berlusconi, l’ha solo copiata dalla Prima Repubblica…)

E’ giusto non dimenticare questi precedenti perchè la questione morale è tanto importante da rendere inaccettabile che ieri, come oggi, vesta i panni della Vergine Vestale l’accusatore che magari ne ha combinate di più e di peggio degli accusati.

Al centro della rottura tra Fini e Berlusconi c’è oggi anche la cosiddetta P3. Siamo davvero di fronte ad una potente loggia segreta con finalità eversive o sono solo, come sostiene Ferrara, dei millantatori (in siciliano “scogli acquazzina”)? Staremo a vedere. Di certo anche la storica P2 venne strumentalizzata alla grande.

L’accusa di piduista servì infatti a sottrarre ad Angelo Rizzoli jr il Corriere della sera che poi, per “moralizzarlo” e ripulirlo dalla fosca contaminazione gelliana, fu consegnato su un piatto d’argento a Gianni Agnelli, Cuccia e ai grandi banchieri dall’allora, alcuni dei quali tutt’ora lo controllano…

Allora la domanda corretta non è se esisteva una potente loggia segreta, ma qual’era? Quella di Licio Gelli o quella di Gianni Agnelli? Chi l’ha fatto il colpaccio? Il Gran Maestro Supremo abitava a villa Wanda o a Villar Perosa?

Chiediamocelo. Non perchè non esista una questione morale o non ci siano logge più o meno segrete (quella di Agnelli era lì, alla luce del sole. Però nessuno, finch’era in vita l’Avvocato, osò aprire un’inchiesta su di lui). Ma perchè non è il caso di farci prendere in giro, cioè di farci indurre a scambiare lucciole per lanterne.

 

LO STATO PIU’ FANTASMA DELLE CASE

 

Siamo lo Stato delle case fantasma; delle abitazioni che esistono nella realtà ma non esistono legalmente, cioè non sono registrate al catasto e quindi evadono totalmente qualsiasi imposta. L’Agenzia del territorio, emanazione del ministero dell’Economia, ne ha individuate due milioni e settantasette mila.

Le case fantasma sono sparse un po’ in tutte le province italiane ma, indovinate dov’è la concentrazione più rilevante? Quasi impossibile riuscirci…Sorpresa: e’ al Centro-Sud con Roma che, tanto per dire, ne annovera sedici volte più di Milano! Uno sguardo alla scontatissima classifica: primo posto a Salerno (93.389 case fantasma), secondo a Roma, terzo a Cosenza, quarto a Napoli, quinta Avellino, sesta Lecce, settima Palermo e avanti così.

Non sto a ripetere la tiritera sull’Italia divisa in due, sulla secessione in atto nel nostro Paese; una secessione che solo chi non vuole non vede. Osservo che è inutile ricordare la pessima abitudine dei continui condoni. Abitudine senz’altro pessima e diseducativa, ma in questo caso del tutto fuorviante: perché questi due milioni e settantasette mila proprietari nemmeno si sognano di condonare, di rientrare nella legalità e cominciare a pagare le imposte. Per loro è molto più conveniente restare fantasmi a vita. (Esattamente come è più conveniente per tante attività economiche restare completamente a nero).

E possono farlo – arriviamo al dunque – perché c’è uno Stato fantasma che rinuncia ad esercitare le sue prerogative. Dico uno Stato perché la questione è trasversale, attraversa i governi di qualunque colore. Nello specifico non c’è la provincia dalla mani pulite e quella dalle mani sporche; il presidente finiano che vigila sulla legalità e quello berlusconiano che si incricca coi proprietari fuorilegge: a Salerno il presidente è del Pdl, a Roma del Pd; eppure vanno a braccetto in testa alla classifica delle case fantasma.

Aggiungo che la Lega, che denuncia la latitanza dello Stato al Sud, poi vuole uno Stato altrettanto latitante con i produttori di latte del Nord…In questo caso sono le multe a diventare fantasma.

Ha poco senso anche tirare in ballo le cosche e la lotta alla mafia. Non sarà mica il padrino che ti garantisce il non accatastamento?! E’ invece lo Stato nelle sue varie articolazioni, sono gli enti locali che rinunciano a compiere accertamenti, che chiudono gli occhi, che “scoprono” Rosarno il giorno dopo…

E poi con Roma in testa alla classifica, proprio là dove si concentra al massimo il potere dello Stato. Cosa dobbiamo concludere? Che è qui il vertice della Cupola, che è la supercosca romana dei partiti?…

Le case fantasma sono una delle varie sfaccettature: accanto ai redditi fantasma, ai lavoratori la cui presenza risulta impalpabile, ai privilegi immotivati concessi alle corporazioni. Tutte sfaccettature riconducibili ad uno Stato fantasma, che latita invece di esercitare prerogative essenziali; che sembra convinto di durare tanto più quanto meno si fa sentire dai cittadini.