SIAMO IN GUERRA E ABBIAMO GIA’ PERSO

Ricorda Lucio Caracciolo su Repubblica che i nostri aviatori, quando “martellavano in incognito i serbi” decisero di “cucirsi sulle tute delle sagome di fantasmi”. Perché in teoria non dovevano esistere né fare quello che fecero. Così oggi i nostri piloti spiegano che sì, sono andati con i tornado in Libia (impossibile negarlo, dato che li hanno ripresi al decollo) ma solo per un giro turistico, senza lanciare nemmeno un missile…

La ragione di questa realtà palese eppure negata, dallo stesso presidente Napolitano, la spiega sempre Caracciolo: “Guerra è vocabolo espunto dal nostro gergo istituzionale. Perchè la Costituzione ci impedirebbe – secondo l’interpretazione corrente – di chiamare la guerra per nome”. Chiaro dunque che non può chiamarla così il “Custode” della Costituzione stessa…Anche se – sottolinea ancora Caracciolo – “Non abbiamo mai partecipato a tanti conflitti da quando ne abbiamo certificato l’abolizione su Carta”…

Fuor di retorica e di ipocrisia, dunque, siamo in guerra contro la Libia di Gheddafi. E, quel che è peggio, non sappiamo perchè siamo in guerra; mentre è evidente che – comunque vada – l’abbiamo già perduta.

Non sappiamo perchè ci siamo. A meno di voler credere alla “ingerenza umanitaria”. Che sarebbe come voler credere a Santa Lucia, alla Befana o al fatto che…l’Italia sia un Paese unito. Prova ne sia che del massacro di milioni di civili in Ruanda piuttosto che del Darfur non gliene è fregato nulla a nessun civile e democratico Paese occidentale (come dimostra il fatto che nessun ha nemmeno invocato un intervento)

Se prescindiamo dalle favole per bambini, dobbiamo prendere atto che le guerra si dichiarano e si combattono per interesse. Per interesse economico o anche per l’interesse a garantire la propria sicurezza. (Quindi è credibile un intervento in Afganistan per debellare lo stato-terrorista e per controllare le vie dei gasdotti o del petrolio. Non certo per impedire ai talebani di schiavizzare le donne afgane né per “esportare la democrazia”)

Oggi l’Italia non sa perchè è intervenuta in quella che – ancora Lucio Caracciolo – chiama a ragione “la guerra di Nicolas Sarkozy”. Lo sa benissimo, appunto, il presidente francese che ha due obiettivi. Uno tattico immediato: rafforzarsi in vista delle elezioni che affronta in calo di consensi. Uno strategico di medio termine: divenire il patner economico privilegiato dei ribelli libici se vincitori. Può andargli bene oppure male. Ma c’è un disegno francese.

Mentre da parte italiana c’è solo la volontà di farsi del male: oggi infatti la nostra sicurezza è garantita da Gheddafi, non dalla sua cacciata. Il poderoso interscambio economico, che fin’ora ha fatto di noi il patner privilegiato della Libia, è dovuto sempre all’attuale assetto di potere. Ora può succedere che gli scenari cambino a nostro sfavore. Ma che siamo noi a provocare il cambiamento a colpi di bombe lascia esterefatti!…

Abbiamo già perso comunque vada. Perchè se l’intervento provocherà la caduta di Gheddafi, avrà vinto la Francia che ci soppianterà nel ruolo fin qui avuto nella nostra ex colonia. Se invece il raiss riuscirà a restare al potere, come prima cosa – e giustamente – la farà pagare agli “italiani traditori”.

(avviso ai navigatori di sinistra: in sintesi sto dicendo che il Berlusca s’è comportato da pirla)

 

UNITA’ D’ITALIA ALLA MCDONALD’S

 

C’è poco da festeggiare. Perchè quella che celebriamo è l’unità d’Italia alla McDonald’s. Mi pare che il linguaggio culinario renda evidente lo scempio che si è consumato 150 anni fa. Potevamo continuare ad avere i sapori, i profumi, la pregnanza delle varie nostre cucine regionali: baccalà, pasta e fagioli, pastisada de caval, magari annaffiata con l’Amarone, nel nostro Veneto; Ribollita e Chianti in Toscana; Pasta alle melanzane, caponata e Corvo di Salaparuta in Sicilia…

Niente da fare. Nel 1861 è arrivato il McDonald’s piemontese: panini flosci, patatine fritte insipide e vino in cartone per tutti gli italiani.

Magari non era neppure la volontà dell’ottimo Cavour, ma questo è accaduto. Mentre i vari stati preunitari (a dominazione straniera, autocnona o naturalizzata) erano espressione delle realtà locali, che mantenevano la ricchezza della diversità, poi con l’unità fu imposto il modello unico piemontese. E per la nazione italiana, per gli italiani – che già esistevano da secoli, questo il concetto che va tenuto presente – è stata la castrazione.

Un centocinquantesimo che non fosse (com’è) solo nauseabonda retorica, dovrebbe proprio partire da questa precisa autocritica: nel 1861 abbiamo cominciato ad ammazzare l’Italia perchè non siamo partiti, come insegnava Cattaneo, con il modello federale che avrebbe preservato la fragranza delle singole cucine regionali e ci avrebbe risparmiato l’imposizione dell’hamburger savoiardo.

Il concetto cardine – che gli italiani esistevano secoli e secoli prima dell’unità politica – lo spiega splendidamente il cardinale Giacomo Biffi in un recente volumetto dedicato propria a “L’Unità d’Italia”. Spiega cioè che il concetto di nazione ingloba “il complesso di persone che hanno in comune l’origine, la storia, la lingua e la civiltà”. Mentre lo Stato è un’organizzazione che ha il monopolio dell’azione politica: per cui possiamo avere stati che inglobano diverse nazionalità, come ieri l’Impero asburgico e oggi la Svizzera; oppure la stessa nazione divisa in due stati, come accaduto con i tedeschi prima della riunificazione e anche con gli italiani prima del 1861.

Per cui la famose affermazione di D’Azzeglio, in realtà va capovolta: gli italiani esistevano già da secoli, con il Risorgimento si è fatta l’Italia; e nel peggiore dei modi, cioè appunto alla McDonald’s.

Sempre Biffi ricorda che, nel Settecento e inizio Ottocento, gli italiani primeggiavano a livello mondiale nelle arti e anche nelle scienze: nella poesia con il Metastasio, nella scultura con Canova, nella pittura con il Tiepolo, nella musica sinfonica con Vivaldi e Albinoni, nel mondo scientifico con Spallanzani Galvani e Alessandro Volta, nella legislazione penale con Cesare Beccaria.

Tutti erano consapevoli di essere italiani (non lombardi, o veneti o romani). E così li chiamavano in ogni angolo dell’Europa e del mondo per cui l’Italia era un faro di cultura e di civiltà anche senza essere uno stato unitario.

Ed è proprio dopo il 1861, è con la castrazione operata dall’unificazione statale forzata, che inizia la progressiva decadenza: dove sono oggi, nel 2011, gli scienziati, i pittori, i poeti e i musicisti italiani che abbiano una risonanza mondiale paragonabile ai nostri grandi del Settecento? Eravamo il faro, siamo diventati la ruota di scorta.

In conclusione: viva la nazione italiana unita nei secoli dei secoli (ma vorremmo tornare alla ricchezza delle varie cucine regionali). Abbasso lo stato unitario alla McDonald’s che ci hanno imposto 150 anni fa e che, da masochisti, stiamo pure celebrando.

 

 

MA NON LI HA UCCISI L’ATOMO

 

 

Non sono morti per colpa dell’atomo, li ha uccisi lo tsunami. Sembrerebbe una precisazione superflua, se i nostri giornali e tg non continuassero a parlare di “paura nucleare”, “emergenza nucleare”, centrali a rischio. Quasi che fosse stata – appunto – una serie di esplosioni nucleari ad ammazzare 5 mila giapponesi, a disperderne altrettanti. Quando invece è stata l’onda anomala dell’Oceano Pacifico a spazzarli via.

Un evento naturale catastrofico ha messo a rischio anche alcune centrali nucleari (nei prossimi giorni capiremo fino a che punto) così come ha messo senz’altro a rischio i trasporti navali, su strada e su ferrovia: ammazzando migliaia di persone che viaggiavano su nave, in treno, sui pulman e nelle auto. Dato che lo tsunami può ripetersi, vogliamo forse abolire per sempre questi trasporti, dimostratisi mortali, così come vogliamo rinunciare al nucleare?

Se ricavassimo una conclusione razionale, dovremmo prendere atto che le centrali nucleari giapponesi hanno resistito perfino ad un terremoto 30 mila volte più forte di quello dell’Aquila (come tutti gli altri edifici civili) e sono state messe in crisi solo dall’impatto devastante dell’onda anomala. Quindi – dal momento che nemmeno il principe degli eco-catastrofisti arriva a sostenere che questo laghetto interno e poco fondo, che è il Mare nostrum, può generare uno tsunami – dovremmo appunto concludere che centrali nucleari con tecnologia giapponese possono essere tranquillamente allocate non solo in zone a rischio sismico zero, come il Polesine o il Salento, ma perfino all’Aquila o a Gemona…

Se non fossimo travolti dallo tsunami emotivo, all’indomani della catastrofe Giapponese, avremmo dovuto domandarci se abbiamo edifici antisismici nelle zone a rischio. Invece abbiamo riaperto il dibattito sul nucleare. E non sui costi, sui tempi, sullo smaltimento delle scorie (casa di cui ha senso discutere) ma sulla sicurezza che, per noi Italia, è del tutto garantita.

Perchè lo abbiamo fatto? Si può pensare che la destabilizzazione del mondo arabo, dal quale dipendiamo per gas e petrolio, portasse acqua alla scelta nucleare. E che si sia quindi voluto controbilanciare enfatizzando il rischio nucleare che arriverebbe dal Giappone. Fatto sta che noi italiani, che abbiano conosciuto solo una modesta ricaduta di Carenobyl e non abbiamo nemmeno una centrale attiva, siamo qui a farcela sotto solo all’idea. Mentre i giapponesi – unico Paese ad avere conosciuto da devastazione delle bombe atomiche! – di centrali ne hanno oltre 50 e non si sognano di doverle chiudere per i danni subiti da tre di loro.

La paura del nucleare investe noi molto, ma molto, più di loro.

Qui entrano in ballo gli opposti caratteri nazionali. I giapponesi rimangono calmi e composti anche quando il mondo crolla: utilizzano cioè tutte le più moderne tecnologie, e tutte le precauzioni, per difendersi; ma poi sanno che è impossibile opporsi alla natura e per questo sono preparati a guardare in faccia anche alla morte. Come spiega mirabilmente Vittorio Zucconi su Repubblica, hanno “il terrore della vergogna, non della morte”.

Noi invece abbiamo rimosso la morte, ci spaventa troppo per ricordare che ci aspetta e prepararci ad affrontarla. Ci nutriamo di banalità salutiste e ambientaliste nella speranza che possano garantirci la vita eterna terrena. E, proprio perchè l’abbiamo rimossa, siamo terrorizzati dalla morte e ci pare di intravvederla anche dove non c’è: dietro un termovalizzatore, una centrale, una polvere sottile, un’antenna di telefonino.

L’UNITA’ A STATUTO SPECIALE

 

 

 

Nelle nostre città della pianura veneta la notizia quasi non è arrivata o, comunque, è scivolata via. Eppure è una notizia clamorosa: nel senso che non c’è solo il comunello dei fagioli (Lamon) e nemmeno solo la Perla della Dolomiti (Cortina), ma c’è l’intera provincia di Belluno che ha chiesto ufficialmente di entrare in Trentino Alto Adige.

Ed il motivo di questa richiesta diventa chiaro a chiunque vada dove sono stato io la settimana scorsa, cioè al confine tra i due territori. Da una parte, nel Bellunese, vedi abitazioni private ben tenute ed altre meno; vedi bar e ristoranti arredati in modo decoroso, altri un po’ vecchiotti e trasandati; le strade sono così così. Transiti dal passo S. Pellegrino ed entri in Trentino, cioè in un altro mondo dove tutto è perfetto, tutto curatissimo dalle strade alle case ai locali pubblici. Perfino i sassi nei torrenti sembrano disposti ad arte da un arredatore dell’ambiente montano…

E non è, sia chiaro, che i bellunesi siano scugnizzi senza voglia di rimboccarsi le maniche e i trentini invece stakanovisti germanici. Sono identici, è sempre gente di montagna che lavora sodo, si alza presto la mattina e non conosce né lamenti né piagnistei. La differenza, enorme, vergognosa, la fanno i contributi pubblici che in Trentino vengono elargiti anche se fai la pipì. La differenza la fa lo Statuto Speciale che vige da una parte del S. Pellegrino e dall’altra no.

Questa è la spaccatura, la divisione che spezza letteralmente in due l’intero Paese: da una parte i cittadini di serie A che vivono nelle cinque regioni a Statuto Speciale; dall’altra quelli di serie B, i “negri” dei trasferimenti fiscali, che abitano il resto d’Italia.

Mi sembra arduo sostenere che questo colpo al cuore dell’unità nazionale l’abbia inferto la Lega col suo brodetto federalista che sta per arrivare. E’ palese che l’attentato l’hanno compiuto tutti i partiti della Prima e della Seconda Repubblica che hanno prima introdotto e poi mantenuto – oltre ogni ragionevole limite temporale – l’istituto dello Statuto Speciale. (E il torto della Lega è di essersi accodata al silenzio generale, propinandoci il brodetto e sorvolando sullo scandalo delle cinque regioni privilegiate).

Diventa così evidente quale sarebbe un’iniziativa concreta da annunciare il prossimo 17 Marzo, evitando il fiume di vuota e inconcludente retorica. Volessero evitarlo questo fiume, tutte le forze politiche – confortate da un messaggio alle Camere del presidente Napolitano – dovrebbero impegnarsi solennemente ad abolire l’ignominia dello Statuto Speciale; per cominciare così, concretamente, a costruire l’Unità d’Italia fin qui solo enunciata.

 

 

L’AMOR PATRIO SECONDO CACCIARI

 

 

L’esempio oramai è divenuto un classico: se ami tua figlia – dicono in tanti – di certo non la mandi di sera ad Arcore, non la lasci in balia del Drago e delle sue brame. Per analogia potremmo dire: se ami il tuo paese al punto di chiamarlo Patria (con la p maiuscola) schieri la marina militare alla difesa, non lo lasci in balia delle orde di disperati che arrivano dalla Quarta Sponda. Perchè, se non lo fai, se non la difendi…sarebbe come portare ad Arcore quest’Italietta minorenne e consegnarla al Drago.

Ma l’analogia è vietata, è in odore di razzismo. L’importante è riempirsi la bocca di Patria, come se la retorica da festival di Sanremo bastasse a soddisfare la quotidianità dei cittadini della Patria italiana.

Questa improvvisa esplosione di amor patrio l’ha spiegata Massimo Cacciari intervistato nei giorni scorsi da La Stampa: “Il centrosinistra è stato spinto quasi per necessità verso la rivendicazione di valori attribuibili in senso lato a Patria e Nazione, nel quadro di un confronto politico con la Lega. C’è molta retorica”

“E’ evidente – aggiunge sempre Cacciari – come la grande debolezza del nostro Paese sia di non avere un’identità nazionale, come accade in Francia o in Inghilterra. Che la nostra storia è stata segnata tragicamente da questa assenza. Ci pesa addosso come un macigno, ma non si supera con le prediche o le deprecazioni”.

Nemmeno con le belle esibizioni di Benigni a Sanremo, spiega sempre l’ex sindaco-filosofo di Venezia che conclude:” Nella mia formazione la Patria è stata totalmente assente. E non solo nella mia. Quelli che oggi attaccano la Lega per il poco amor patrio dovrebbero riandare con onestà ai loro vent’anni, dove non troverebbero la minima traccia di questo amore”.

Già ci vorrebbe la stessa onestà che ha avuto il rifondarolo Paolo Benvegnù che, a Rosso e Nero, ha ricordato come per tutta la sinistra italiana (Napolitano compreso) il riferimento era l’internazionalismo, non certo la Patria. Per i cattolici la Patria era nell’aldilà o in Vaticano. Mentre era in Italia solo per i post fascisti.

E quindi bisognerebbe avere l’onesta di dire che sembrava Giorgio Almirante quello entrato a cavallo al teatro Ariston sventolando con tanta passione il Tricolore, prima di mettersi a celebrare l’Inno di Mameli. Benigni a vent’anni è probabile cantasse “De tu querida presencia, comandante Che Guevara…”. ( Io – si parvus licet – ero a intonare “Nostra Patria il mondo intero, nostra legge la libertà).

Tornando all’analisi di Cacciari, mi sembra incontestabile che la riscoperta della Patria e del Tricolore sia avvenuta in funzione di contenimento della Lega. Ma con l’equivoco ricorrente: il federalismo, o la stessa pulsione secessionista, non li contrasti con la retorica; ma solo, se e quando, riesci a dimostrare con i fatti che l’Italia unita conviene a tutti.


SE VECCHIONI VINCE A SANREMO

Ho passato buona parte della notte di Venerdì a discutere con una carissimo amico nato, vissuto e schierato nella sinistra seria (quella di origine Pci).

La sua tesi era che Berlusconi non poteva che essere estirpato per via “extraparlamentare”, nel senso che era impossibile batterlo alle elezioni. Perchè – mi spiegava – il Berlusca ha messo in piedi un tale sistema di controllo dell’informazione che conta e che determina l’orientamento elettorale. Orientamento – aggiungeva – che non deriva da chi legge il Corriere o Repubblica, ma di guarda la televisione e sfoglia settimanali come Chi o Sorrisi e Canzoni.

Dopo averlo provocato fino al punto dire che trovo più preoccupante un presidente del consiglio che passe le serate al tavolo della seduta spiritica (Prodi) piuttosto che tra le cosce della Minetti, ho tralasciato di aggiungere che Santoro, Floris, Fazio e la Annunziata non si dedicano propriamente all’elogio televisivo del Cavaliere…

Sarebbe stata un’obiezione inutile perchè il mio amico è convinto che l’orientamento dei cittadini elettori non sia veicolato dai talk show (seguiti da chi è comunque politicamente già schierato) ma dall’intrattenimento televisivo stile Amici, l’Isola, Ballando sotto le stelle e telenovelas varie: qui si determinerebbe la scelta politica dei non allineati.

Noi passavano la notte a discutere, gli italiani a votare. Anzi: a televotare. E il risultato, giunto nella notte successiva, lo conosciamo bene: Sanremo, spettacolo nazional-popolare per eccellenza, che non lo guarda certo chi passa le serate a leggere Kant (Umberto Eco, poveretto…) bensì il popolo ignorante ed abbrutito dei berluscones, è stato vinto – attraverso il televoto, altro strumento del populismo neoperonista – dal “compagno” Roberto Vecchioni, e non da una Iva Zanicchi.

E vinto con una canzone così schierata a sinistra – dove si parla di operai senza lavoro, di studenti senza futuro, di donne da cui dipende invece il nostro futuro, di soldati ventenni catapultati nei deserti bellici – da spingere lo stesso Vecchioni a mettere le mani avanti e dichiarare che Chiamami ancora amore “non diventerà l’inno dei Pd”. Come la mettiamo?

Conclusione, se Vecchioni vince a Sanremo, delle due l’una: o Berlusconi con le tivvù non controlla proprio nulla; oppure il desiderio di sinistra, che pure aleggia nel pubblico nazional-popolare delle televisioni, semplicemente non trova né un leader né un sogno né un idea in cui incarnarsi. Ed è costretto – suo malgrado, per pura mancanza di alternative – a ripiegare sul protagonista delle Mille e una notte di Arcore.

OPPOSIZIONE CAMUFFATA DA ITALIA

 

 

E’ divenuto l’esempio storico per antonomasia di come ci si perda dietro alle futilità dimenticando i problemi e le urgenze vere: 1453, con i turchi che stanno conquistando Costantinopoli ultimo baluardo dell’impero romano d’Oriente, i saggi bizantini discutono di sesso degli angeli. (Sarà maschile o femminile, questo il loro assillo)

2011, con il mondo arabo che salta per aria e l’esodo biblico che arriva dall’altra sponda del Mediterraneo, i “saggi” italiani discutono del sesso di Berlusconi, e manifestano contro la sua vita sessuale.

Non sempre le manifestazioni di piazza ottengono il risultato auspicato; come ci dimostra proprio il caso dell’Egitto dove, alla fine della giostra, un golpe militare si è sostituito al despota Mubarak e, come prima cosa, ha chiuso il parlamento ultima parvenza di democrazia.

Le manifestazioni svoltesi ieri in 230 nostre città, con oltre un milione di donne in piazza, avrebbero invece – secondo Repubblica – raggiunto il risultato auspicato. Nel senso che la fiducia nel premier sarebbe ulteriormente crollata.

Leggendo i dati del sondaggio – gradimento per Berlusconi 30,4 per Grillo 35,2 per Fini 35,3 per la Bonino 45,3 – ho qualche perplessità…Qualche dubbio comunque può esserci sul conseguimento del risultato, ma nessuno sul diritto di scendere in piazza a manifestare contro chiunque e in qualunque modalità purchè non violenta.

Sulle manifestazioni di ieri è lecita solo una critica. L’opposizione che si camuffa da Italia; le donne legittimamente schierate contro Berlusconi che si camuffato da donne tout court.

Non credo che tra i manifestanti di ieri ci fossero frotte né di pidiellini né di leghisti. E allora perchè lasciare a casa le bandiere e i simboli di partito? Con l’unico obiettivo, mi pare, di far credere che sia l’intero Paese sdegnato contro Berlusconi al punto di volerlo mandare a casa; e non invece la parte di Paese rappresentata dall’opposizione. Così le donne: sono tutte, ma proprio tutte, scandalizzate dalla vita sessuale di Berlusconi? Sentendo le telefonate femminili che arrivano a Telenuovo, non direi.

Tanto per intenderci, il giorno prima al teatro Del Verme di Milano, Giuliano Ferrare aveva chiamato a raccolta una rappresentanza di “berlusconiani in mutande, ma vivi”. Senza far credere di rappresentare tutte le donne e tutti gli uomini italiani.

Da laico impenitente dove concludere osservando che siamo molto più avanti dell’Iran dove, non ammettendo il sacerdozio femminile, sono solo gli ayatollah ad arringare la folla. Mentre da noi l’emancipazione della donna consente che lo faccia anche suor Eugenia Bonetti, la missionaria della Consolata salita sul palco a Roma.

 

BERLUSCONI E’ GIA’ PROCESSATO

 Fosse anche istantaneo questo rito immediato chiesto dai pm milanesi per Berlusconi, arriverebbe comunque in ritardo. Nel senso che lo abbiamo già processato e, a seconda della nostra scelta di campo politico, già condannato oppure già assolto.

Innocentisti e colpevolisti, sia chi lo considera un puttaniere oppure un perseguitato, almeno su questo dovremmo tutti concordare: che è un anomalia che non ci sia in pratica nemmeno un cittadino (politicizzato) che abbia sospeso il giudizio in attesa del processo, della sentenza, della verifica o meno delle accuse.

Invece il processo deve ancora iniziare e noi abbiamo già emesso una sentenza inappellabile. Nulla e nessuno più potrà farci cambiare idea. Come mai? Ma perchè siamo stati sommersi dalle carte processuali, dalla marea di intercettazione che ha offerto a ciascuno di noi il materiale per trovare ciò che cercava: ossia la pistola fumante in mano al premier o in mano ai pubblici ministeri, la prova della colpevolezza del Berlusca o dell’accanimento della Ilda.

Senza questa marea di documenti pubblicati da tutti i giornali, non avremmo potuto improvvisarci commissari tecnici della Giustizia. E magari avremmo avuto la prudenza e il buon senso di tenere in sospeso il giudizio.

Solo nelle repubbliche delle banane, solo nei Paesi sudamericani vengono pubblicate così tante intercettazioni. Calma, Evor: non sono io a dirlo. E’ – udite, udite – Luciano Violante intervistato oggi dal Corriere. Un intervista che il corrierone, prudentemente, mette defilata nelle pagine interne. Ma dove l’ex magistrato, che il centrodestra accusava di essere addirittura il capo del partito delle toghe, sviluppa una tesi molto interessante.

Violante spiega cioè che la visione di tutto questo materiale è servita solo a farci confondere il piano del giudizio penale con il giudizio morale e politico. Piani che invece andrebbero e vanno tenuti ben distinti, anche per non scambiare un peccato con un reato.

Ma – soprattutto – l’ex presidente della Camera dice che “c’è un intreccio malato tra indagini e informazione”. L’anomalia cioè non è tanto dovuta al numero delle intercettazioni, effettuate ormai a raffica anche in altri Paesi dove però “questa è la differenza – sottolinea Violante – le intercettazioni non finiscono sui giornali”.

Di conseguenza i primi responsabili della barbarie del processo mediatico, che tutti noi abbiamo già celebrato anche con Berlusconi, non sono tanto i magistrati quanto i giornalisti. Replica puntuale di quanto già accaduto con tangentopoli, quando lo scempio non furono le indagini più che doverose bensì le notizie sulle indagini. Notizie messe in pagina come sentenze di colpevolezza.

 

LA VERMICINO DI NAPOLITANO

 

 

Correndo a trovare e consolare i genitori dei quattro bambini rom morti nel rogo di Roma il presidente Napolitano ha trovato, o si è costruito, la sua Vermicino.

Credo lo ricordiate tutti Sandro Pertini che, in spolvero di telecamere e fotografi, si precipitò e seguire il dramma del piccolo Alfredino risucchiato dal pozzo. Così Napolitano non ha scelto la visita privata, ma è andato a trovare i genitori con un codazzo di cameraman e fotoreporter pronti ad immortalare la carezza presidenziale.

Non si tratta di essere insensibili alla tragedia dei quattro bambini morti. Anzi: proprio perchè quattro innocenti non possono e non devono morire così, prima di precipitarsi a consolare i genitori forse bisognava domandarsi se non ci siano anche delle responsabilità. Tant’è che la stessa procura di Roma ha aperto un procedimento per abbandono di minore…

E già. Come mai i genitori li avevano abbandonati di notte nella baracca con quel braciere ardente? A Roma ci sono forse delle agenzie per l’impiego aperte h24? Non risulta. Erano andati a chiedere la carità? Improbabile che lo avessero fatto lasciando a casa proprio quei piccoli che sono lo strumento per indurre alla pietà. Quindi cosa diavolo facevano in giro per Roma a notte fonda con i figlioletti incustoditi nella baracca?

Anche a prescindere da questa legittima domanda, è curioso che proprio il Custode della Costituzione non tenga presente che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. Non fondata sull’accattonaggio, né sul nomadismo. I diritti derivano dal dovere di lavorare. O valgono a prescindere? Se è così la casa decorosa dobbiamo garantirla a tutti, rom e non rom, a Roma e in Italia e nel mondo. Paga il Quirinale col taglio (meno 6%) delle sue spese o paghiamo noi cittadini (che la casa l’abbiamo in proprietà o in affitto grazie al nostro lavoro) con un surplus di tasse?

Ho avuto il piacere di conoscere un operaio moldavo che, arrivato in Veneto nel 2002, per due anni e mezzo ha lavorato per un impresa edile che lo pagava 40 euro al giorno qualunque fosse l’orario richiesto, mai inferiore alle otto ore. Lui aveva trovato una stanza in città, i cantieri erano in provincia e ogni giorno, sabato compreso, li raggiungeva in bicicletta, 30 chilometri andare e 30 tornare, risparmiando così sui biglietti dell’autobus urbano ed extraurbano che avrebbe dovuto prendere. La domenica, sempre in bicicletta, andava a fare il giardiniere in una villa dove la sorella e il marito erano custodi.

Così si è sistemato, ha aperto una sua azienda artigiana, si è sposato ed ha cominciato ad avere figli solo quando poteva mantenerli e garantire loro una vita decente. Altroché baracche e bracieri…

Sono questi gli esempi da additare alla nazione (anche con visite presidenziali) o dobbiamo sentirci il colpa perché non garantiamo abitazioni civili ai rom?

CROLLA MUBARAK, MURO MEDITERRANEO

 

 

Nei servizi dei nostri inviati al Cairo traspare una simpatia palpabile per la folla scesa in piazza ad invocare la cacciata di Mubarak. Esattamente come qualche settimana fa a Tunisi. E non c’è dubbio che venga interpretato il comune sentire della nostra opinione pubblica: perché non si può che gioire vedendo popolazioni che si liberano dei tiranni, dei dittatori.

Tutti (o quasi) gioimmo anche nel 1989 quando crollò il Muro di Berlino e tutta l’Europa dell’Est si liberò della dittatura comunista. Oggi però, vent’anni dopo, si aggiunge una riflessione anche diversa: se per i cittadini di quei Paesi resta un affare essersi liberali del comunismo, possiamo dire che la caduta del Muro lo sia stato anche per noi?

Ci furono due effetti: un’ondata di criminali, liberati dalle galere, si riverso sull’Europa Occidentale e sul nostro Paese, perchè quei dittatori svolgevano una funzione di cani da guardia che cessò con la loro caduta. Dopo di che arrivarono le persone per bene, i lavoratori in cerca di occupazione, di migliori retribuzioni.

L’effetto di questo allargamento del mercato, di questa globalizzazione, fu positivo per le loro retribuzioni ma penalizzante per le nostre. Valga l’esempio dell’autista, mansione pagata molto bene prima che arrivasse la concorrenza dei camionisti slavi…Noi italiani non abbiamo più goduto del benessere che avevamo negli anni Ottanta. Anche perché il sistema comunista teneva bloccato il mondo intero, anche l’Asia anche l’Africa. E l’intero fenomeno epocale dell’immigrazione iniziò proprio alla fine di quel decennio con il crollo del Muro.

Oggi Mubarak in particolare (ma anche Bel Alì’, anche Gheddafi) rappresentano il Muro sull’altra sponda del Mediterraneo. Ed oggi che il raìs egiziano sta crollando vediamo cosa succede. Ce lo racconta La Stampa che a pag.7 titola “Rivoluzioni & barconi Lampedusa ora trema. Riprendono gli sbarchi: senza il pugno dei raiss chi li fermerà?” e spiega che i primi arrivati sull’isola sono proprio i galeotti usciti dal carcere tunisino di Monastir.

Quanto a fermarli, difficile pensare che provvedano quei nostri magistrati per i quali l’obbligatorietà dell’azione penale scatta di fronte ai reati sessuali di cui è accusato il premier, ma non scatta invece di fronte al reato di clandestinità…Clandestini che loro si rifiutano di arrestare invocando una “direttiva europea”. (Ma non dovrebbero applicare le leggi italiane, come recita la Costituzione?)

Dopo di che è chiaro che, oltre ai clandestini, non si ferma neppure la storia. Nessuno sarebbe riuscito allora a puntellare il Muro di Berlino. Nessuno riesce oggi a mantenere al potere i raìss. Ma un conto è prenderne atto; altro conto è gioirne quasi che le sorti fossero sempre “magnifiche e progressive”, e non ci fossero invece cambiamenti dello scenario internazionale destinati a peggiorare la nostra vita.