FORZA EUROPA E NIENTE ALIBI

 

Difficile non essere d’accordo con il Riformista che oggi titola “Forza Europa” e spiega “finalmente una riforma imposta da Bruxelles”. Sì: senza il perentorio intervento dell’Ue, noi le statali avremmo cominciato a mandarle in pensione a 65 a partire dal 2018, salvo proroghe, esclusi i lavori usuranti, salvo “finestre” che si aprono e si chiudono, inerpicandoci su “scaloni” o “scalini”. Insomma avremmo fatto il solito pastrocchio di riforma all’italiana; avremmo cercato le convergenze parallele tra tagli di spesa e impatto sociale (ed elettorale) a costo zero…

C’è chi ringrazia l’Europa e chi invece – ho l’impressione – cerca un alibi nell’Europa e nell’euro. Nel senso che la manovra di Tremonti con i sacrifici che comporta (anche se i risultati restano dubbi) vengono ora imputati alla fragilità di una moneta unica che non ha alle spalle un’unione politica ma, appunto, solo monetaria. Oppure altri tirano in ballo le banche con i titoli spazzatura, la chiusura del credito non ostante gli utili in ascesa; oppure si punta il dito sulla speculazione finanziaria mondiale.

Non voglio negare l’incidenza di questi fattori, che però non possono diventare il grande alibi che nasconde le responsabilità nostre, di noi cittadini e della nostra classe politica.

Partendo dall’ultima questione: se siamo rimasti l’unico Paese europeo a pensare di poter mandare in pensione le donne cinque anni prima degli uomini è forse colpa dell’euro, di Passera o di Soros? Mi pare arduo sostenerlo, anche se pensiamo allo strame che è stato fatto a suo tempo con le pensioni baby e che si continua a fare con quelle di invalidità fasulle.

Se diplomi e lauree sono divenuti carta straccia, mediamente insignificante per ottenere un lavoro, dipende da qualche oscura congiura masson-pluto-nordeuropea oppure dal fatto che abbiamo trasformato la scuola in una agenzia per l’impiego di aspiranti insegnanti a tutto scapito della funzione didattica qualificata?

E’ stata l’Europa, sono stati gli speculatori finanziari ad imporci l’assunzione di un numero spropositato di pubblici dipendenti che al Sud arrivano a coprire l’80% dei posti di lavoro?! Quale entità straniera accusiamo per il crollo di produttività che non si registra in quei Paese che hanno legato seriamente, cioè con controlli puntuali, le retribuzioni alla produttività stessa?

Mi dicevano dei giovani operai moldavi: “Qui da voi vediamo lavorare, come muratori, come pittori, come idraulici, solo le persone di una certa età. Di giovani praticamente nemmeno uno”. Che sia stato l’ingresso nell’euro, che sia colpa dell’unione solo monetaria e non politica, il fatto che i nostri ragazzi oggi aspirino tutti a diventare colletti bianchi, che disdegnino il lavoro manuale? Lavoro manuale che invece a questi operai moldavi garantisce buone retribuzioni, superiori a quelle di tanti laureati.

Prima di buttarci sulle oscure congiure internazionali, prima di dare la colpa alle speculazioni finanziarie, forse conviene guardarci allo specchio e chiederci quanto noi siamo responsabili della nostra decadenza.



 

GLI HOOLIGANS CHE TIFANO OLOCAUSTO

 

 

Solo l’antisemitismo, radicato e diffuso, può spiegare la condanna corale di Israele dopo gli incidenti e i morti seguiti al controllo della flottiglia di “pacifisti” partiti dalla Turchia per forzare il blocco navale attorno a Gaza.

Di certo solo l’antisemitismo spiega l’assalto al ghetto di Roma, gli insulti lanciati contro gli ebrei romani che nessuna responsabilità hanno per le scelte del governo di Tel Aviv.

L’entisemitismo consente di ignorare i fatti, di chiudere gli occhi davanti alle immagini che mostravano come sono stati accolti i primi uomini dei reparti speciali calatesi sulla Marnara: presi a sprangate dagli hooligans del pacifismo, con la stessa libido che trasuda dagli hooligans del calcio quando vanno allo scontro con la polizia.

Il premier israeliano Netanyahu osserva che quella non era una Love boat ma una “flottiglia di terroristi”. Ed è un fatto che a bordo c’erano complici conclamati dei terroristi; come il “pacifista” mons Capucci, il nunzio apostolico che fu arrestato già una ventina d’anni fa perchè nascondeva sotto la tonaca e l’immunità diplomatica le bombe per i terroristi palestinesi.

L’antisemitismo consente di far credere che il blocco voglia impedire l’afflusso di cibo e medicinali, che invece entrano regolarmente nella Striscia di Gaza. Mentre Tel Aviv vuole solo controllare che non entrino armi ed esplosivi perchè, da quando Hamas ha preso il potere, sono stati lanciati 6.500 missili contro i civili israeliani.

L’antisemitismo permette di ignorare che Israele ha battuto ogni strada diplomatica, ha sottoscritto l’accordo di Camp David che sanciva la nascita dello Stato palestinese; accordo che fu poi rinnegato da Arafat. Mentre sull’altro fronte non si cerca nessun accordo di pace: Hamas, l’Iran, la Siria, la Turchia hanno come unico obbiettivo lo “sterminio dell’entità sionista”; tipico obbiettivo “pacifista”, non vi pare?

Le anime belle del pacifismo fingono di credere che la “flottiglia della libertà” avesse l’unico scopo di portare cemento a Gaza per la ricostruzione…Quando è evidente che lo scopo vero era creare l’incidente internazionale. Basta sentire quanto tronfi e soddisfatti dell’accaduto sono i reduci intervistati oggi dai nostri quotidiani (“abbiamo vinto noi”: uno dei pacifisti italiani pronuncia queste parole appena atterrato a Malpensa. Corriere pag.9).

Creare l’incidente internazionale, contando poi sulle reazioni delle Nazioni Unite dove – come ha scritto Panebianco – “si spassa spesso sopra ai delitti di qualunque sanguinario regime ma mai a quelli, veri o presunti, della democrazia israeliana”.

Questo è stato il tragico errore di Israele, dei reparti speciali, del Mossad: essere caduti nella trappola dei pacifisti amici di Hamas, aver fatto il loro gioco; quando andava preparata con molta più cura e prudenza l’azione di controllo militare. Nessuno meglio di loro dovrebbe infatti sapere che l’antisemitismo fa pesare ogni morto provocato da Israele, mentre le stragi di civili provocate dai terroristi palestinesi vengono dimenticate quando non addirittura giustificate.

Alessandro Piperno ha scritto sul Corriere che oggi i cittadini di Israele si sentono spacciati, non credono più nella sopravvivenza del loro Paese perchè hanno visto fallire sia la via diplomatica che quella militare. Ed è questa la suprema ipocrisia dei nostri antisemiti: celebrano la giornata della memoria, in attesa di godersi il nuovo, definitivo, olocausto.


 

UNIVERSITA’: DATECI UN MAO

 

 

L’università ti fa maoista, non nel senso che frequentandola diventi maoista (già sarebbe qualcosa…) ma nel senso che ti fa capire che anche i regimi più abietti hanno qualcosa di buono, qualcosa da rimpiangere: nella fattispecie la dura “rieducazione” che il Grande Timoniere impose ai docenti universitari del suo Paese.

Ci arriviamo partendo dai titoli di alcuni dei cinquecento corsi di laurea cancellati negli ultimi due anni (ne restano comunque cinquemila!): “Scienza del fiore e del verde”, “Benessere del cane e del gatto”, “Beni enogastronomici”, “Tecniche erboristiche”.

Pare evidente che ai nostri figli non è servito assolutamente a nulla frequentarli né laurearsi in queste discipline: se devi fare il commesso in un negozio di animali, puoi farlo anche senza laurearti in gattologia…

Altrettanto inutile, per i nostri ragazzi, è stato lo sdoppiamento, il famigerato 3+2. Perchè la laurea breve è la serie B di atenei che già fanno parte del campionato dilettanti; e la laurea lunga ha solo allungato il brodo con l’acqua di qualche esametto in più. Esametti del tutto inutili per gli studenti, ma utilissimi a garantire cattedre e assunzioni.

Negli ultimi dieci-quindici anni il numero dei docenti universitari è aumentato a dismisura, è esploso ulteriormente. Ci hanno marciato rettori e presidi di facoltà che, sulla moltiplicazione delle assunzioni, hanno costruito la propria campagna elettorale per il rinnovo dei mandati.

Abbiamo ottenuto il nobile risultato sociale di “creare nuovi posti (fissi e inamovibili) di lavoro”, ma peggiorando ulteriormente la qualità degli studi. Poi quando è arrivato il ministro Gelmini con i primi tagli, c’è stata l’insurrezione con le parole d’ordine più nobili e sdegnate: “Non si può tagliare la cultura! Non si può tagliare la ricerca!”. Come se non sapessimo che l’unica ricerca in vigore nelle nostre università è quella…della cattedra.

Ed è qui, di fronte a questa ipocrisia pelosa, che ti viene in mente Mao quando disse basta! E li mandò tutti a rieducarsi in campagna, a coltivare riso e barbabietole. Dateci la Rivoluzione Culturale e le Camice Rosse che misero all’aratro i docenti universitari cinesi!

Un tempo, quando gli atenei erano seri, gli esami erano quasi tutti orali; anche con lo scritto, la prova orale non mancava mai. Adesso sono praticamente tutti scritti. Ennesima innovazione in nome e a beneficio del docente: perchè l’esame scritto consiste in una serie di test che poi vengono corretti a computer; e quindi il caro docente si risparmia anche questa fatica. Mentre i nostri ragazzi non hanno nemmeno la soddisfazione di vederlo in faccia, di essere valutati per quello che sono – svegli o addormentati, intelligenti o tonti – si può comunque capirlo solo nel vis-à-vis.

Insomma gli studenti sono ridotti ad un gregge che ha una sola funzione precisa: garantire lo stipendio alle folte schiere dei pastori.

Ed è così che mi vien da pensare, oltre a Mao, anche ai preti pedofili. Che sono certamente una vergogna e una sciagura. Però loro, ai ragazzini, magari davano qualcosa: Magari insegnavano a cantare a quelli del coro di Ratisbona, o a parlare ai sordomuti del Provolo.

Quindi c’è di peggio: è quando ti inchiappettano senza darti nulla in cambio. Come succede ai nostri ragazzi che vanno all’università. Viva il compagno Mao Tse Tung!



SPUTTANOPOLI LA CASTA E LE CREPE

 

Si apre qualche crepa nella muraglia della casta giornalistica che – Da Ezio Mauro a Feltri, passando per De Bortoli – è insorta a “difesa della libertà di stampa”, cioè contro il divieto (che, per altro, il governo Berlusconi già sta rimangiandosi) di pubblicare le intercettazioni.

Una prima crepa l’ha aperta il vicedirettore del Corriere, Pierluigi Battista, ricordando che, accanto all’art 21 della costituzione sulla libertà di stampa, c’è anche l’art 15 che recita: “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.

Articolo che il resto della casta giornalistica ha completamente rimosso. Quando invece andrebbe trovato un punto di equilibrio tra le due esigenze. E non vale ripetere, come pappagalli “intercettateci tutti, non abbiamo nulla da nascondere”. Perchè non ci sono solo i segreti criminali da nascondere, ma anche un diritto alla vita privata che la costituzione tutela per ricordarci che non siamo in un regime dittatoriale, dove tutto è pubblico e tutti devono vivere da perfetti fascisti o perfetti comunisti…

l’altra crepa l’ha aperta Giuliano Ferrara che denuncia Sputtanopoli, cioè le inchieste-portineria fatte da giornalismi-origliatori.

Ferrara sgombra l’equivoco tra divieto di fare e di pubblicare intercettazioni; ricorda come in nessun Paese dove pure le inchieste procedono spedite e i media ne informano puntualmente i cittadini “si usa pubblicare lenzuolate di intercettazione come materiale per l’intorbidimento delle acque, per la grande sputtanopoli che tutto confonde in un generico e demagogico disprezzo per la vita privata delle persone pubbliche.”

E questo disprezzo per la vita privata ha investito anche Angelo Balducci. Che c’entra con gli appalti e i favori della cricca, pubblicare le intercettazioni dove si parla di un suo rapporto gay con un corista del Vaticano? E il bello è che hanno pubblicato gli stessi media che parlano tanto di diritto dei gay, di contrasto dell’omofobia! Salvo poi confondere, trasformare in odore di reato anche l’inchiappettamento tra adulti consenzienti, pur di fare da megafoni compiacenti alle procure…

Gli stessi media, gli stessi giornalisti che si sdegnano con Minzolini, accusato di essere il megafono di Berlusconi. Sono i maestri che ci spiegano come la libera stampa debba fare sempre da contraltare al potere, mai prendere per oro colato le notizie che filtrano dal Palazzo…

Ma tutto ciò che trasuda dal Palazzo di Giustizia lo prendono invece proprio per oro colato. Mai un distinguo, mai una verifica della consistenza delle prove prima di esporre un accusato al pubblico ludibrio. Mai il sospetto che certi pm, proprio perchè non hanno in mano elementi tali da garantire la condanna degli imputati, comminano lo sputtanamento preventivo a mezzo stampa. Questo grazie al giornalismo compiacente, ai loro megafoni che si autodefiniscono paladini della libertà di stampa.

Ovviamente le crepe non bastano a far crollare il muro della casta. Anzi, la stessa maggioranza, intimorita dalla santa alleanza – Mauro-Feltri-De Bortoli – fa marcia indietro. E il risultato è ormai scontato. Resteremo ciò che siamo e che ci meritiamo: il Paese di Sputtanopoli.

INTERCETTAZIONI E GIUSTIZIA ALL’ITALIANA

 

 

Il mondo dei mezzi d’informazione è indignato e mobilitato contro le misure che sta adottando la maggioranza per impedire la pubblicazione delle intercettazione e di altri atti giudiziari prima del processo. La battaglia – come tutte le battaglie – viene condotta con parole d’ordine tanto nobili quanto roboanti: non vogliamo bavagli alla libertà d’informazione! Va tutelato il diritto dei cittadini ad essere informati sui procedimenti penali!

Per carità: giustissimo! Siamo tutti democratici e antifascisti! Se posso aggiungere, sommessamente, mi pare però che andrebbe tutelato anche il diritto degli estranei a non finire nel tritacarne mediatico-giudiziario, come accaduto al povero Pupi Avati solo perchè era nella lista di Anemone. E quindi andrebbe trovato quell’equilibrio, finora mancato, tra libertà d’informazione e divieto di sputtanamento.

Ma il problema vero e serio mi pare un altro. I cittadini, prima ancora del diritto di essere informati, dovrebbero avere il diritto ben più sostanziale ad una giustizia che funzioni, cioè che arrivi a comminare pesanti sentenze definitive ai rei che se le meritano. Invece abbiamo, ahimè, una giustizia all’italiana (o all’amatriciana) che funziona solo con futili sentenze preventive (comminate dai pm e non dai giudici…) che consistono, appunto, nel finire nel tritacarne mediatico – cosa che spaventa ben poco corrotti e corruttori veri, col pelo di ordinanza sullo stomaco – e nel finire, quando proprio va male, in carcere preventivo per tre mesi. Come Anemone. Cosa anche questa che i delinquenti veri possono mettere in preventivo e affrontare senza angosce particolari.

Mentre alla sentenza definitiva, agli anni di carcere senza sconti, non si arriva mai. Ve ne ricordate uno che sia stato condannato in terzo grado a una pena pesante? E’ realistico pensare che Tanzi piuttosto che Balducci o Anemone o Scajola subiranno una seria condanna definiva? Non direi.

Marco Travaglio sostiene che è tutta colpa di Berlusconi, che il Cavaliere, tra processi brevi e prescrizione corta, ha fatto di tutto per bloccare la macchina della giustizia. Accusa che sarebbe vera se la macchina avesse funzionato in modo accettabile prima della sua discesa in campo. Ma ricordate Tangentopoli, consumata quando Berlusconi non aveva alcun potere legislativo? Quante delle migliaia di persone finite sui giornale e in carcerazione preventiva hanno poi subito la condanna definitiva ad anni di galera? Esageriamo e diciamo cinque in tutta Italia?…

Viene così a mancare un elemento fondamentale per combattere la corruzione e il malcostume politico-affaristico: la deterrenza della pena certa. Dal momento che è l’occasione che rende l’uomo ladro, guardiamoci allo specchio e domandiamoci: se avessi il ruolo e l’opportunità di intascare milioni di euro pilotando i mega appalti pubblici, sarei forse dissuaso dall’idea di dovermi fare massimo 90 giorni in cella? O riterrei che il rischio valga ampiamente il malloppo?

Questa comunque è la vera anomalia italiana, ben più del divieto alla pubblicazione. Questo succede solo da noi e in nessun altro Paese che abbia una giustizia efficiente. Su questo dovrebbero ingaggiare una battaglia senza quartiere tutti i mezzi d’informazione. Invece è più comodo ergersi a paladini della libertà di stampa per…garantirsi di poter continuare a fare i travet che pubblicano le veline uscite dal Palazzo di Giustizia.

 

GLI STADI, LE NOSTRE BANLIEUE

 

Gli Stadi sono le nostre banlieue. Bisogna partire da qui per comprendere come mai Mourinho lascia senza alcun rimpianto il calcio italiano. Cioè fa come Ancelotti e Capello che in Inghilterra si trovano benissimo, e non hanno nessuna intenzione di tornare a casa.

Il ribellismo straccione, mediterraneo, da camicie rosse tahilandesi, che è endemico e connaturato al nostro Paese, fino a qualche decennio fa permeava la politica. Oggi – e potremmo dire per fortuna – si è spostato dalla politica al calcio. La spranga al posto della P38.

Qualche volta ho accompagnato mio figlio a San Siro. Lui, come tanti tifosi, vuole sentire il calore della curva. Basta andarci, vedere che fauna gira, e capisci subito perchè Mourinho se ne va. E stiamo parlando di Milano. Immaginate la curva del San Paolo, dell’Olimpico di Roma; non che l’Olimpico di Torino sia così diverso. La stessa fauna che trovi ancora alla Sapienza; che c’era nel Sessantotto nelle nostre università, a Padova dove frequentavo io.

Allora ci si pestava alle manifestazioni e si aggrediva la polizia. Oggi ci si pesta a fine partita e si aggredisce la polizia. Le curve sono diventate, anche nel nome, le sedi dell’estremismo calcistico. Il tifo organizzato ricorda molto da vicino le associazioni a delinquere.

Gli stadi sono le nostre banlieue, il luogo catalizzatore del degrado urbano. Hanno lo stesso appeal delle carceri. Cioè sono perfetti per la fauna che li frequenta. Si potrà pensare di costruire stadi nuovi, più accoglienti e civili, solo se e quando saranno diventati più civili i cosiddetti tifosi. Farlo oggi sarebbe una pura istigazione a delinquere: nuovi manufatti da offrire alla devastazione dei vandali del calcio.

Il nostro sport nazionale è sempre più degradato. Le persone normali, le famiglie lo seguono da casa in televisione, e gli stadi-banlieue sono sempre più deserti. E’ sconsolante il raffronto con gli stadi inglesi, tedeschi, spagnoli.

E a questo degrado hanno contribuito non poco i mecenati. Parlo da vecchio tifoso dell’Inter e osservo come il “compagno” Massimo Moratti non si rende conto che il mecenatismo appartiene alla destra più becera e retriva: è un calcio da satrapi orientali, da sceicchi, quello che vive di elargizioni (in dieci anni di gestione il figlio del grande Angelo ha drogato l’Inter con mille milioni di euro).

Il calcio moderno deve essere azienda capace di mantenersi con i propri introiti – biglietti, diritti televisivi, sponsorizzazioni, merchandising – capace di programmare e investire. Solo in questo modo anche il tifo ritrova la sua dimensione  civile. Altrimenti il calcio diventa come il nostro Meridione…Che è degradato così grazie a Pantalone che paga sempre il conto…

Un Berlusconi che oggi vuole un Milan sano, che si regga sulle proprie gambe e non sui suoi soldi, scavalca a sinistra quel destrorso di Moratti…Ed ovviamente viene contestato dal becerume reazionario della curva rossonera cresciuta a panem et circenses.

In questo calcio italiano finanziariamente malato, degradato dalla violenza dei tifosi teppisti, con gli stadi ridotti a banlieue, che ci resta a fare Mourinho? Non può che seguire l’esempio dei due grandi allenatori italiani, Capello e Ancelotti: andarsene.

DALLA PARTE DELLA POLIZIA

 

 

Nella vicenda di Stefano Gugliotta qualunque persona di buon senso dovrebbe schierarsi, senza tentennamenti, dalla parte della polizia. A cominciare dal capo politico della polizia stessa, il ministro degli Interni Roberto Maroni che, sorprendentemente, sembra invece propenso ad indossare i panni di Che Guevara.

I fatti sono noti e visti: Gugliotta non c’entrava nulla con gli incidenti scoppiati al termine di Roma-Inter, passava di là per caso e un poliziotto ha cominciato a pestarlo, con altri colleghi lo hanno caricato su un cellulare e portato in carcere. Chiaro che quel poliziotto va punito: si fa una bella indagine interna e si procede con la giusta fermezza.

Ma non si può accettare che questo episodio riprovevole diventi un clamoroso caso politico, da prima pagina dei quotidiani nazionali, da servizio d’apertura dei telegiornali. Non si può rovesciare i termini del problema: come se fosse la polizia che pesta, la polizia fascista, e non invece le orde di barbari violenti, chiamati impropriamente tifosi, che regolarmente devastano le nostre città.

E’ “naturale” che questa inversione dei termini la faccia Liberazione o il Manifesto. E’ allucinante che tutti li seguano: dal Corriere a Il Giornale, dal Tg 5 al Tg2. E’ allucinante che il ministro Maroni li segua e vada a costituirsi parte civile contro un “suo” poliziotto; contribuendo così a delegittimare l’intera polizia, ad avvalorare la tesi che il problema siano gli eccessi dei poliziotti e non le città devastate dalla teppaglia degli stadi.

Nel caso Gugliotta minimo va tenuto presente il contesto: lui non c’entrava ma, puntualmente, i vandali del tifo avevano già scatenato la guerriglia. Ed è in questo clima di grande tensione che operavano i poliziotti. C’è poi una questione cruciale che non si può dire pubblicamente, ma che ogni persona di buon senso (come Maroni) dovrebbe sapere: se non sei pronto ad usare anche la violenza è inutile che tu vada a fare il poliziotto, specie in servizio di ordine pubblico.

Non è che possiamo mandarci le pie dame della San Vincenzo, e nemmeno quei fighetti dei colleghi tanto scandalizzati dai due pugni dati a Gugliotta, perchè devi fronteggiare delle belve, un’orda scatenata. E, da cittadino, non posso che sperare che i poliziotti li fermino a randellate; che altrimenti diventano loro i padroni delle nostre città.

Non si può ignorare una differenza fondamentale: i poliziotti esercitano la violenza in nome e per conto dello Stato, quindi mai possono essere messi sullo stesso piano della violenza esercitata per proprio conto dai no global della politica o del calcio. Esattamente come un soldato che spara, a difesa del proprio Paese, non può essere equiparato alla persona che spara per eliminare il rivale. Chiaro o no?

Siamo arrivati al punto che bisogna anticipare al sabato Lazio e Milan perchè altrimenti, domenica, se si incrociano romanisti e laziali devastano al Capitale; se si incrociano milanisti e interisti mettono Milano a ferro e fuoco. Dei due arrestati dopo Hellas-Portogruaro, uno è fiorentino: e non era venuto a Verona per vedere la partita, ma per cercare lo scontro. A questo siamo ridotti. E per questo non possiamo che schierarci dalla parte della polizia.


 

DOGE & BORDELLO

 

 

Doge e Bordello, così l’Economist sintetizza l’unità d’Italia che noi abbiamo appena cominciato a celebrare. Il settimanale inglese auspica per il Centro-Nord una nuova alleanza regionale, una confederazione e aggiunge che l’ideale sarebbe che fosse guidata “da un Doge di Venezia”. “Il resto d’Italia da Roma in giù – scrive – sarebbe separato dalla penisola e andrebbe riunito alla Sicilia, così da formare un nuovo Paese, chiamato ufficialmente Regno delle Due Sicilie, ma soprannominato Bordello”. Bordello? Si proprio così.

E’ ormai diventato un cult la nuova piantina dell’Europa ridisegnata dall’Economist in base alle affinità tra nazioni e alla loro situazione economica. Non manca, ovviamente, la dose di humor inglese per cui la Gran Bretagna per prima, coi suoi conti pubblici sconquassati, viene ricollocata giù a livello del Mediterraneo, mentre la Svizzera schizza all’insù nella penisola scandinava.

Ma l’umorismo serve ad evidenziare l’amara realtà emersa con la crisi dell’euro: cioè la pretesa assurda e insostenibile di tenere uniti sotto un’unica moneta Paesi con conti pubblici, produttività, welfare e serietà assolutamente diversi. Il Bordello, cioè il nostro Sud – sempre secondo il settimanale inglese – “potrebbe formare una unione monetaria solo con la Grecia e con nessun altro”.

Meridione e Grecia sono proprio un Bordello, se non identico, molto simile: posti pubblici a profusione, produttività in declino costante,

economia in nero che dilaga, pareggio di bilancio questo sconosciuto. Altrettanto innegabile è che il Pil pro capite del Centro-Nord è superiore a quello della Francia e appena inferiore a quello tedesco.

Tra Nord e Centro c’è una differenza minima: oltre i 30 mila e sopra i 28 mila, mentre al Sud e isole precipita a 17 mila euro.( Al punto che diventa arduo perfino pensare ad una unione monetaria del Bordello con la Grecia il cui Pil pro capite è a 23.100 euro). Mentre l’unità tra Doge e Bordello può continuare solo a patto che il primo continui (e riesca, e voglia) finanziare il secondo…

Avendo chiaro ciò che sta confermando la stessa crisi dell’euro degli ultimi giorni: l’intervento finanziario, il prestito, è solo una misura tampone, magari necessaria di fronte all’emergenza, ma che non ha mai risolto né mai risolverà problemi che restano strutturali; cioè legati alla produttività, al controllo della spesa, al rigore di un Paese.

Se io spendo più di quello che guadagno, posso anche ricorrere ad un prestito per evitare nell’immediato il fallimento. Ma non serve a nulla se continuo come prima. Bisogna che riesca a guadagnare di più oppure a spendere meno; altrimenti il crack è solo rimandato. Non sarà una valutazione macro economica, sarà solo il conto della serva: però vale per gli individui, per gli Stati e…perfino per i Bordelli.

 

CALCIO E POLITICA, NON SIAMO INGLESI

 

Indecente domenica sera lo spettacolo dei tifosi della Lazio che tifavano contro la loro squadra; che fischiavano il loro portiere, Muslera, colpevole di…parare, cioè di non spalancare la porta agli attaccanti dell’Inter; che fischiavano Zarate colpevole di…cercare il gol. La Lazio doveva perdere e l’Inter doveva vincere per impedire all’odiata Roma di conquistare lo scudetto. Indecente? Diciamo meglio: tipicamente italiano

Restando fedeli all’assunto che il calcio è specchio fedele dell’intera società italiana, i tifosi della Lazio mi hanno ricordato quegli elettori di sinistra ai quali poco importa il risultato della loro squadra: l’importante è che perda l’avversario, che vada a casa l’odiato Berlusconi. E quindi non importa avere un progetto vincente, che convinca la maggioranza del corpo elettorale. Si tifa per il furore (autolesionista) dei Di Pietro e dei Travaglio; invece di lottare sul campo, si spera che il giudice ( non di gara, ma di tribunale) estragga il cartellino rosso…

Non siamo inglesi né con il calcio né con la politica. Nel calcio si sprecano gli esempi di tifosi inglesi che sostengono sempre e comunque e solo la propria squadra, anche quanto è sotto di tre gol, anche quando non ha speranze né obiettivi. Non esiste di tifare contro. L’ultimo esempio lo stesso pomeriggio di domenica con il Sunderland, squadra tranquilla e senza più obiettivi, che ha fatto sputare sangue al Manchester, che non ha regalato nulla.

Non parliamo della politica. Basti ricordare, per il confronto con la stretta attualità italiana, Peter Mandelson, ministro di Tony Blair che nel ’98 si dimise per non aver dichiarato un prestito ricevuto per acquistare la casa…Claudio Scajola invece si sdegna per le ombre e i sospetti che ricadrebbero perfino su suoi famigliari.

E dire che ci metterebbe un attimo a fugarli: basterebbe che spiegasse come si fa ad acquistare un appartamento di 180 metri quadri, con vista sul Colosseo, solo con un mutuo di 610 mila euro. Un prezzo da vista sul Bentegodi o sull’Euganeo, cioè da periferia veneta e non da cuore antico della Capitale…

Invece Scajola è convinto di essere…Oscar Luigi Scalfaro. Lo ricordate l’allora presidente della Repubblica che si limitò a tuonare il suo sdegnato “non ci sto’!”, invece di spiegare cosa avesse fatto con quei cento milioni in nero che riceveva ogni mese finché era stato ministro degli Interni?

Accosto volutamente Scajola a Scalfaro per chiarire che il problema non è destra o sinistra, ma italiani o inglesi. Un po’ tutti noi italiani, compresi quei 4 milioni e 600 mila che in larga misura rubacchiano l’assegno di invalidità o inabilità. Compresi i milioni di evasori fiscali e i milioni di evasori dal lavoro. Insomma dal calcio alla politica e oltre, è una questione di (mal)costume nazionale che ci rende molto diversi dagli inglesi (e dai nord europei in genere).

Festeggiamo l’unità di Italia che un obiettivo lo ha raggiunto. Quello che indicava Leonardo Sciascia quando diceva: “Il problema non è più la Sicilia, il problema è il resto del Paese che assomiglia sempre più alla Sicilia”…



DIETRO GLI APPLAUSI AL BOSS

 

Gli applausi al boss della ‘ngrangheta Giovanni Tegano, la protesta popolare contro il suo arresto: immagini che hanno sdegnato la nostra opinione pubblica. Cosa dobbiamo pensare, cosa c’è dietro questi applausi? O riteniamo che ci sia una particolare, quasi genetica, propensione al crimine tra gli abitanti del Meridione, che li porta a solidarizzare con i criminali. Oppure capiamo che le mafie non sono solo organizzazioni criminali. Sono anche questo. Ma la loro funzione primaria, originale ed ancora attuale, è quella di antistato.

Lo ha compreso Massimo Gramellini il quale su La Stampa ha spiegato che la popolarità di un boss come Tegano deriva dal fatto che è lui, non lo Stato, a risolvere i problemi quotidiani di tanti calabresi: trovare un posto di lavoro al figlio, un posto letto in ospedale, ottenere riparazione ad un’offesa subita. Il risultato lo hai se vai dal boss, non all’ufficio di collocamento o al centro prenotazioni delle Asl o in tribunale.

L’origine dell’antistato è antica almeno quanto la conquista militare del Meridione da parte dei garibaldini per conto dei Savoia. Da quel momento in poi il nuovo Stato ha espresso personaggi e prassi che erano completamente estranei alla cultura, alle tradizioni, alla storia del Regno delle due Sicilie. Un autentico “scontro di civiltà” rappresentato alla perfezione da Chevalley, il messo dei Savoia che va ad offrire al Gattopardo un seggio nel nuovo senato del Regno.

Avete presente il romanzo o il film di Visconti? Questo funzionario piemontese si aggira a bocca aperta per la Sicilia, di fronte a usi, costumi e stili di vita che gli sono totalmente estranei. Sembra un marziano, arrivato da un altro pianeta. Lo stesso pianeta lontano da cui giunse tutta la nuova classe dirigente, imponendo prassi di governo che rimasero estranee al meridione anche quando furono poi date in gestione a funzionari meridionali.

I siciliani non potevano nemmeno dialogare con i Chevalley. E così nacque il loro governo alternativo, l’antistato che noi chiamiamo mafia, con la sua classe dirigente che noi chiamiamo i boss.

Non dimentichiamo che il modello di Stato centralista piemontese non fu e non è un corpo estraneo solo al Sud, lo è stato anche per il nostro Veneto che per tanto tempo ha avuto il proprio antistato nelle parrocchie e nelle segreterie Dc: quando avevamo bisogno di un posto di lavoro per il figlio, di un posto in ospedale, di ottenere riparazione ad un torto, andavamo o dal parroco o dal capo corrente dello scudocrociato…

L’esigenza del federalismo nasce da motivi culturali prima ancora che economici: nel senso che accetti di delegare la tua sovranità di cittadino non ad un marziano, ma solo a chi condivide la stessa cultura, le stesse tradizioni; a chi ha una storia comune. In caso contrario li consideri degli invasori: cerchi di mungerli il più possibile, ma non gli riconosci il diritto di governarti. Esattamente quello che capita agli americani dovunque vadano; proprio quello che è successo ai nordisti nel Meridione.

A questo punto o fai come Obama in Afganistan, cioè raddoppi le truppe sperando di stabilizzare la conquista, oppure capisci che è più saggio ritirarsi…

Al di là delle battute, non possiamo pensare che le mafie siano solo un fenomeno criminale da combattere – se così fosse – con arresti, processi e carcere duro. Tutto questo non basta perchè sono anche l’antistato riconosciuto da ampi settori della popolazione meridionale. Quindi sono un problema politico che necessita di soluzioni politiche.

La più praticabile mi sembra sia concedere (imporre?) al Sud l’autogoverno pieno, totale e totalmente responsabile. Cioè fondato sulle risorse economiche prodotte dal proprio territorio, e non più su quelle munte ai nordisti come contropartita alla “invasione”…