INTERCETTAZIONI E GIUSTIZIA ALL’ITALIANA

 

 

Il mondo dei mezzi d’informazione è indignato e mobilitato contro le misure che sta adottando la maggioranza per impedire la pubblicazione delle intercettazione e di altri atti giudiziari prima del processo. La battaglia – come tutte le battaglie – viene condotta con parole d’ordine tanto nobili quanto roboanti: non vogliamo bavagli alla libertà d’informazione! Va tutelato il diritto dei cittadini ad essere informati sui procedimenti penali!

Per carità: giustissimo! Siamo tutti democratici e antifascisti! Se posso aggiungere, sommessamente, mi pare però che andrebbe tutelato anche il diritto degli estranei a non finire nel tritacarne mediatico-giudiziario, come accaduto al povero Pupi Avati solo perchè era nella lista di Anemone. E quindi andrebbe trovato quell’equilibrio, finora mancato, tra libertà d’informazione e divieto di sputtanamento.

Ma il problema vero e serio mi pare un altro. I cittadini, prima ancora del diritto di essere informati, dovrebbero avere il diritto ben più sostanziale ad una giustizia che funzioni, cioè che arrivi a comminare pesanti sentenze definitive ai rei che se le meritano. Invece abbiamo, ahimè, una giustizia all’italiana (o all’amatriciana) che funziona solo con futili sentenze preventive (comminate dai pm e non dai giudici…) che consistono, appunto, nel finire nel tritacarne mediatico – cosa che spaventa ben poco corrotti e corruttori veri, col pelo di ordinanza sullo stomaco – e nel finire, quando proprio va male, in carcere preventivo per tre mesi. Come Anemone. Cosa anche questa che i delinquenti veri possono mettere in preventivo e affrontare senza angosce particolari.

Mentre alla sentenza definitiva, agli anni di carcere senza sconti, non si arriva mai. Ve ne ricordate uno che sia stato condannato in terzo grado a una pena pesante? E’ realistico pensare che Tanzi piuttosto che Balducci o Anemone o Scajola subiranno una seria condanna definiva? Non direi.

Marco Travaglio sostiene che è tutta colpa di Berlusconi, che il Cavaliere, tra processi brevi e prescrizione corta, ha fatto di tutto per bloccare la macchina della giustizia. Accusa che sarebbe vera se la macchina avesse funzionato in modo accettabile prima della sua discesa in campo. Ma ricordate Tangentopoli, consumata quando Berlusconi non aveva alcun potere legislativo? Quante delle migliaia di persone finite sui giornale e in carcerazione preventiva hanno poi subito la condanna definitiva ad anni di galera? Esageriamo e diciamo cinque in tutta Italia?…

Viene così a mancare un elemento fondamentale per combattere la corruzione e il malcostume politico-affaristico: la deterrenza della pena certa. Dal momento che è l’occasione che rende l’uomo ladro, guardiamoci allo specchio e domandiamoci: se avessi il ruolo e l’opportunità di intascare milioni di euro pilotando i mega appalti pubblici, sarei forse dissuaso dall’idea di dovermi fare massimo 90 giorni in cella? O riterrei che il rischio valga ampiamente il malloppo?

Questa comunque è la vera anomalia italiana, ben più del divieto alla pubblicazione. Questo succede solo da noi e in nessun altro Paese che abbia una giustizia efficiente. Su questo dovrebbero ingaggiare una battaglia senza quartiere tutti i mezzi d’informazione. Invece è più comodo ergersi a paladini della libertà di stampa per…garantirsi di poter continuare a fare i travet che pubblicano le veline uscite dal Palazzo di Giustizia.

 

GLI STADI, LE NOSTRE BANLIEUE

 

Gli Stadi sono le nostre banlieue. Bisogna partire da qui per comprendere come mai Mourinho lascia senza alcun rimpianto il calcio italiano. Cioè fa come Ancelotti e Capello che in Inghilterra si trovano benissimo, e non hanno nessuna intenzione di tornare a casa.

Il ribellismo straccione, mediterraneo, da camicie rosse tahilandesi, che è endemico e connaturato al nostro Paese, fino a qualche decennio fa permeava la politica. Oggi – e potremmo dire per fortuna – si è spostato dalla politica al calcio. La spranga al posto della P38.

Qualche volta ho accompagnato mio figlio a San Siro. Lui, come tanti tifosi, vuole sentire il calore della curva. Basta andarci, vedere che fauna gira, e capisci subito perchè Mourinho se ne va. E stiamo parlando di Milano. Immaginate la curva del San Paolo, dell’Olimpico di Roma; non che l’Olimpico di Torino sia così diverso. La stessa fauna che trovi ancora alla Sapienza; che c’era nel Sessantotto nelle nostre università, a Padova dove frequentavo io.

Allora ci si pestava alle manifestazioni e si aggrediva la polizia. Oggi ci si pesta a fine partita e si aggredisce la polizia. Le curve sono diventate, anche nel nome, le sedi dell’estremismo calcistico. Il tifo organizzato ricorda molto da vicino le associazioni a delinquere.

Gli stadi sono le nostre banlieue, il luogo catalizzatore del degrado urbano. Hanno lo stesso appeal delle carceri. Cioè sono perfetti per la fauna che li frequenta. Si potrà pensare di costruire stadi nuovi, più accoglienti e civili, solo se e quando saranno diventati più civili i cosiddetti tifosi. Farlo oggi sarebbe una pura istigazione a delinquere: nuovi manufatti da offrire alla devastazione dei vandali del calcio.

Il nostro sport nazionale è sempre più degradato. Le persone normali, le famiglie lo seguono da casa in televisione, e gli stadi-banlieue sono sempre più deserti. E’ sconsolante il raffronto con gli stadi inglesi, tedeschi, spagnoli.

E a questo degrado hanno contribuito non poco i mecenati. Parlo da vecchio tifoso dell’Inter e osservo come il “compagno” Massimo Moratti non si rende conto che il mecenatismo appartiene alla destra più becera e retriva: è un calcio da satrapi orientali, da sceicchi, quello che vive di elargizioni (in dieci anni di gestione il figlio del grande Angelo ha drogato l’Inter con mille milioni di euro).

Il calcio moderno deve essere azienda capace di mantenersi con i propri introiti – biglietti, diritti televisivi, sponsorizzazioni, merchandising – capace di programmare e investire. Solo in questo modo anche il tifo ritrova la sua dimensione  civile. Altrimenti il calcio diventa come il nostro Meridione…Che è degradato così grazie a Pantalone che paga sempre il conto…

Un Berlusconi che oggi vuole un Milan sano, che si regga sulle proprie gambe e non sui suoi soldi, scavalca a sinistra quel destrorso di Moratti…Ed ovviamente viene contestato dal becerume reazionario della curva rossonera cresciuta a panem et circenses.

In questo calcio italiano finanziariamente malato, degradato dalla violenza dei tifosi teppisti, con gli stadi ridotti a banlieue, che ci resta a fare Mourinho? Non può che seguire l’esempio dei due grandi allenatori italiani, Capello e Ancelotti: andarsene.

DALLA PARTE DELLA POLIZIA

 

 

Nella vicenda di Stefano Gugliotta qualunque persona di buon senso dovrebbe schierarsi, senza tentennamenti, dalla parte della polizia. A cominciare dal capo politico della polizia stessa, il ministro degli Interni Roberto Maroni che, sorprendentemente, sembra invece propenso ad indossare i panni di Che Guevara.

I fatti sono noti e visti: Gugliotta non c’entrava nulla con gli incidenti scoppiati al termine di Roma-Inter, passava di là per caso e un poliziotto ha cominciato a pestarlo, con altri colleghi lo hanno caricato su un cellulare e portato in carcere. Chiaro che quel poliziotto va punito: si fa una bella indagine interna e si procede con la giusta fermezza.

Ma non si può accettare che questo episodio riprovevole diventi un clamoroso caso politico, da prima pagina dei quotidiani nazionali, da servizio d’apertura dei telegiornali. Non si può rovesciare i termini del problema: come se fosse la polizia che pesta, la polizia fascista, e non invece le orde di barbari violenti, chiamati impropriamente tifosi, che regolarmente devastano le nostre città.

E’ “naturale” che questa inversione dei termini la faccia Liberazione o il Manifesto. E’ allucinante che tutti li seguano: dal Corriere a Il Giornale, dal Tg 5 al Tg2. E’ allucinante che il ministro Maroni li segua e vada a costituirsi parte civile contro un “suo” poliziotto; contribuendo così a delegittimare l’intera polizia, ad avvalorare la tesi che il problema siano gli eccessi dei poliziotti e non le città devastate dalla teppaglia degli stadi.

Nel caso Gugliotta minimo va tenuto presente il contesto: lui non c’entrava ma, puntualmente, i vandali del tifo avevano già scatenato la guerriglia. Ed è in questo clima di grande tensione che operavano i poliziotti. C’è poi una questione cruciale che non si può dire pubblicamente, ma che ogni persona di buon senso (come Maroni) dovrebbe sapere: se non sei pronto ad usare anche la violenza è inutile che tu vada a fare il poliziotto, specie in servizio di ordine pubblico.

Non è che possiamo mandarci le pie dame della San Vincenzo, e nemmeno quei fighetti dei colleghi tanto scandalizzati dai due pugni dati a Gugliotta, perchè devi fronteggiare delle belve, un’orda scatenata. E, da cittadino, non posso che sperare che i poliziotti li fermino a randellate; che altrimenti diventano loro i padroni delle nostre città.

Non si può ignorare una differenza fondamentale: i poliziotti esercitano la violenza in nome e per conto dello Stato, quindi mai possono essere messi sullo stesso piano della violenza esercitata per proprio conto dai no global della politica o del calcio. Esattamente come un soldato che spara, a difesa del proprio Paese, non può essere equiparato alla persona che spara per eliminare il rivale. Chiaro o no?

Siamo arrivati al punto che bisogna anticipare al sabato Lazio e Milan perchè altrimenti, domenica, se si incrociano romanisti e laziali devastano al Capitale; se si incrociano milanisti e interisti mettono Milano a ferro e fuoco. Dei due arrestati dopo Hellas-Portogruaro, uno è fiorentino: e non era venuto a Verona per vedere la partita, ma per cercare lo scontro. A questo siamo ridotti. E per questo non possiamo che schierarci dalla parte della polizia.


 

DOGE & BORDELLO

 

 

Doge e Bordello, così l’Economist sintetizza l’unità d’Italia che noi abbiamo appena cominciato a celebrare. Il settimanale inglese auspica per il Centro-Nord una nuova alleanza regionale, una confederazione e aggiunge che l’ideale sarebbe che fosse guidata “da un Doge di Venezia”. “Il resto d’Italia da Roma in giù – scrive – sarebbe separato dalla penisola e andrebbe riunito alla Sicilia, così da formare un nuovo Paese, chiamato ufficialmente Regno delle Due Sicilie, ma soprannominato Bordello”. Bordello? Si proprio così.

E’ ormai diventato un cult la nuova piantina dell’Europa ridisegnata dall’Economist in base alle affinità tra nazioni e alla loro situazione economica. Non manca, ovviamente, la dose di humor inglese per cui la Gran Bretagna per prima, coi suoi conti pubblici sconquassati, viene ricollocata giù a livello del Mediterraneo, mentre la Svizzera schizza all’insù nella penisola scandinava.

Ma l’umorismo serve ad evidenziare l’amara realtà emersa con la crisi dell’euro: cioè la pretesa assurda e insostenibile di tenere uniti sotto un’unica moneta Paesi con conti pubblici, produttività, welfare e serietà assolutamente diversi. Il Bordello, cioè il nostro Sud – sempre secondo il settimanale inglese – “potrebbe formare una unione monetaria solo con la Grecia e con nessun altro”.

Meridione e Grecia sono proprio un Bordello, se non identico, molto simile: posti pubblici a profusione, produttività in declino costante,

economia in nero che dilaga, pareggio di bilancio questo sconosciuto. Altrettanto innegabile è che il Pil pro capite del Centro-Nord è superiore a quello della Francia e appena inferiore a quello tedesco.

Tra Nord e Centro c’è una differenza minima: oltre i 30 mila e sopra i 28 mila, mentre al Sud e isole precipita a 17 mila euro.( Al punto che diventa arduo perfino pensare ad una unione monetaria del Bordello con la Grecia il cui Pil pro capite è a 23.100 euro). Mentre l’unità tra Doge e Bordello può continuare solo a patto che il primo continui (e riesca, e voglia) finanziare il secondo…

Avendo chiaro ciò che sta confermando la stessa crisi dell’euro degli ultimi giorni: l’intervento finanziario, il prestito, è solo una misura tampone, magari necessaria di fronte all’emergenza, ma che non ha mai risolto né mai risolverà problemi che restano strutturali; cioè legati alla produttività, al controllo della spesa, al rigore di un Paese.

Se io spendo più di quello che guadagno, posso anche ricorrere ad un prestito per evitare nell’immediato il fallimento. Ma non serve a nulla se continuo come prima. Bisogna che riesca a guadagnare di più oppure a spendere meno; altrimenti il crack è solo rimandato. Non sarà una valutazione macro economica, sarà solo il conto della serva: però vale per gli individui, per gli Stati e…perfino per i Bordelli.

 

CALCIO E POLITICA, NON SIAMO INGLESI

 

Indecente domenica sera lo spettacolo dei tifosi della Lazio che tifavano contro la loro squadra; che fischiavano il loro portiere, Muslera, colpevole di…parare, cioè di non spalancare la porta agli attaccanti dell’Inter; che fischiavano Zarate colpevole di…cercare il gol. La Lazio doveva perdere e l’Inter doveva vincere per impedire all’odiata Roma di conquistare lo scudetto. Indecente? Diciamo meglio: tipicamente italiano

Restando fedeli all’assunto che il calcio è specchio fedele dell’intera società italiana, i tifosi della Lazio mi hanno ricordato quegli elettori di sinistra ai quali poco importa il risultato della loro squadra: l’importante è che perda l’avversario, che vada a casa l’odiato Berlusconi. E quindi non importa avere un progetto vincente, che convinca la maggioranza del corpo elettorale. Si tifa per il furore (autolesionista) dei Di Pietro e dei Travaglio; invece di lottare sul campo, si spera che il giudice ( non di gara, ma di tribunale) estragga il cartellino rosso…

Non siamo inglesi né con il calcio né con la politica. Nel calcio si sprecano gli esempi di tifosi inglesi che sostengono sempre e comunque e solo la propria squadra, anche quanto è sotto di tre gol, anche quando non ha speranze né obiettivi. Non esiste di tifare contro. L’ultimo esempio lo stesso pomeriggio di domenica con il Sunderland, squadra tranquilla e senza più obiettivi, che ha fatto sputare sangue al Manchester, che non ha regalato nulla.

Non parliamo della politica. Basti ricordare, per il confronto con la stretta attualità italiana, Peter Mandelson, ministro di Tony Blair che nel ’98 si dimise per non aver dichiarato un prestito ricevuto per acquistare la casa…Claudio Scajola invece si sdegna per le ombre e i sospetti che ricadrebbero perfino su suoi famigliari.

E dire che ci metterebbe un attimo a fugarli: basterebbe che spiegasse come si fa ad acquistare un appartamento di 180 metri quadri, con vista sul Colosseo, solo con un mutuo di 610 mila euro. Un prezzo da vista sul Bentegodi o sull’Euganeo, cioè da periferia veneta e non da cuore antico della Capitale…

Invece Scajola è convinto di essere…Oscar Luigi Scalfaro. Lo ricordate l’allora presidente della Repubblica che si limitò a tuonare il suo sdegnato “non ci sto’!”, invece di spiegare cosa avesse fatto con quei cento milioni in nero che riceveva ogni mese finché era stato ministro degli Interni?

Accosto volutamente Scajola a Scalfaro per chiarire che il problema non è destra o sinistra, ma italiani o inglesi. Un po’ tutti noi italiani, compresi quei 4 milioni e 600 mila che in larga misura rubacchiano l’assegno di invalidità o inabilità. Compresi i milioni di evasori fiscali e i milioni di evasori dal lavoro. Insomma dal calcio alla politica e oltre, è una questione di (mal)costume nazionale che ci rende molto diversi dagli inglesi (e dai nord europei in genere).

Festeggiamo l’unità di Italia che un obiettivo lo ha raggiunto. Quello che indicava Leonardo Sciascia quando diceva: “Il problema non è più la Sicilia, il problema è il resto del Paese che assomiglia sempre più alla Sicilia”…



DIETRO GLI APPLAUSI AL BOSS

 

Gli applausi al boss della ‘ngrangheta Giovanni Tegano, la protesta popolare contro il suo arresto: immagini che hanno sdegnato la nostra opinione pubblica. Cosa dobbiamo pensare, cosa c’è dietro questi applausi? O riteniamo che ci sia una particolare, quasi genetica, propensione al crimine tra gli abitanti del Meridione, che li porta a solidarizzare con i criminali. Oppure capiamo che le mafie non sono solo organizzazioni criminali. Sono anche questo. Ma la loro funzione primaria, originale ed ancora attuale, è quella di antistato.

Lo ha compreso Massimo Gramellini il quale su La Stampa ha spiegato che la popolarità di un boss come Tegano deriva dal fatto che è lui, non lo Stato, a risolvere i problemi quotidiani di tanti calabresi: trovare un posto di lavoro al figlio, un posto letto in ospedale, ottenere riparazione ad un’offesa subita. Il risultato lo hai se vai dal boss, non all’ufficio di collocamento o al centro prenotazioni delle Asl o in tribunale.

L’origine dell’antistato è antica almeno quanto la conquista militare del Meridione da parte dei garibaldini per conto dei Savoia. Da quel momento in poi il nuovo Stato ha espresso personaggi e prassi che erano completamente estranei alla cultura, alle tradizioni, alla storia del Regno delle due Sicilie. Un autentico “scontro di civiltà” rappresentato alla perfezione da Chevalley, il messo dei Savoia che va ad offrire al Gattopardo un seggio nel nuovo senato del Regno.

Avete presente il romanzo o il film di Visconti? Questo funzionario piemontese si aggira a bocca aperta per la Sicilia, di fronte a usi, costumi e stili di vita che gli sono totalmente estranei. Sembra un marziano, arrivato da un altro pianeta. Lo stesso pianeta lontano da cui giunse tutta la nuova classe dirigente, imponendo prassi di governo che rimasero estranee al meridione anche quando furono poi date in gestione a funzionari meridionali.

I siciliani non potevano nemmeno dialogare con i Chevalley. E così nacque il loro governo alternativo, l’antistato che noi chiamiamo mafia, con la sua classe dirigente che noi chiamiamo i boss.

Non dimentichiamo che il modello di Stato centralista piemontese non fu e non è un corpo estraneo solo al Sud, lo è stato anche per il nostro Veneto che per tanto tempo ha avuto il proprio antistato nelle parrocchie e nelle segreterie Dc: quando avevamo bisogno di un posto di lavoro per il figlio, di un posto in ospedale, di ottenere riparazione ad un torto, andavamo o dal parroco o dal capo corrente dello scudocrociato…

L’esigenza del federalismo nasce da motivi culturali prima ancora che economici: nel senso che accetti di delegare la tua sovranità di cittadino non ad un marziano, ma solo a chi condivide la stessa cultura, le stesse tradizioni; a chi ha una storia comune. In caso contrario li consideri degli invasori: cerchi di mungerli il più possibile, ma non gli riconosci il diritto di governarti. Esattamente quello che capita agli americani dovunque vadano; proprio quello che è successo ai nordisti nel Meridione.

A questo punto o fai come Obama in Afganistan, cioè raddoppi le truppe sperando di stabilizzare la conquista, oppure capisci che è più saggio ritirarsi…

Al di là delle battute, non possiamo pensare che le mafie siano solo un fenomeno criminale da combattere – se così fosse – con arresti, processi e carcere duro. Tutto questo non basta perchè sono anche l’antistato riconosciuto da ampi settori della popolazione meridionale. Quindi sono un problema politico che necessita di soluzioni politiche.

La più praticabile mi sembra sia concedere (imporre?) al Sud l’autogoverno pieno, totale e totalmente responsabile. Cioè fondato sulle risorse economiche prodotte dal proprio territorio, e non più su quelle munte ai nordisti come contropartita alla “invasione”…




 

UNA MERKEL PER I NOSTRI INVALIDI

 Auguriamoci che Angela Merkel, dopo essersi occupata della Grecia, venga a dare un’occhiata a come vanno le cose con i nostri invalidi. Perchè con loro siamo alla magna, Magna Grecia.

Come noto il cancelliere tedesco si rifiuta di concedere il prestito di 9 miliardi alla Grecia senza precise garanzie sui tagli alla spesa e il piano di rientro. Sacrosanto: se domando dei soldi a qualcuno questi ha tutto l’interesse a controllarmi, non solo per riavere indietro il prestito, ma anche per aiutarmi a mettere la testa a posto; cioè a non fare più debiti sconsideratamente.

Invece il nostro ministro degli esteri Frattini accusa la Merkel di essere troppo rigorosa, di pretendere troppe garanzie. Coerente: lui fa parte di un governo che regala pacchi di milioni, a Catania piuttosto che a Palermo, compiendo così una chiara istigazione a delinquere; cioè ad accumulare deficit ulteriori con la certezza che qualche santo provvederà…

Ma veniamo ai nostri invalidi. Il presidente dell’Inps, Antonio Mastropasqua, ha fornito l’ultima cifra aggiornata: percepiscono una pensione o un assegno in 2 milioni e 600 mila, con un aumento del 4,5% nell’ultimo anno, e un costo di 17 miliardi di euro. Caspita: il 5% circa della popolazione italiana è invalida! Errore. Il numero infatti non va rapportato al dato complessivo della popolazione, ma a quelli che lavorano che sono un po’ meno di 23 milioni. Quindi gli invalidi sono il 10% abbondante dei lavoratori!!

Non ci siamo ancora. Mastropasqua infatti aggiunge che ci sono “altri due milioni di soggetti di invalidità professionale, la cosiddetta inabilità, che porta a quasi 30 miliardi il volume delle risorse impegnate nel sostegno della non autosufficienza”. Quindi alla fine ne sosteniamo 4 milioni e 600 mila, il 20% di quelli che lavorano!!!

Ultima considerazione. Stiamo per celebrare il 150° dell’unità d’Italia, e il presidente dell’Inps non vuole fomentare divisioni…Quindi non ci dice com’è distribuito tra le varie regioni italiane questo esercito sterminato di “non autosufficienti”…Ma basta guardarsi intorno per vedere che non sono concentrati né in Veneto né in Lombardia né in Emilia…

Quindi in alcune regioni del Sud la percentuale di invalidi ed inabili sarà superiore al 30%. Proprio la dove si aggiungono anche i posti pubblici distribuiti con grande “liberalità” (diciamo così) per venire incontro al dramma della disoccupazione…

Ci vorrebbe o no una Angela Merkel che venisse ad imporre controlli rigorosi e a tappeto? Di certo non li effettua l’Inps che ha controllato 200 mila posizioni, scoprendone il 15% di fasulle, cioè 30 mila. Ma nello stesso periodo ha accolto altri 115 mila nuovi pensionati invalidi, dilatando così il numero degli assegni invece di restringerlo.

In conclusione potremmo dire che la storia si ripete: già nell’antichità la Grecia si trovò a imparare qualcosa dalla Magna Grecia…

IL “TRADIMENTO” DI FINI-BALOTELLI

 Il parallelo che fa Luigi Primon nel suo blog è perfetto: Fini è proprio il Balotelli del Pdl. Come Balotelli tanti lo vogliono e molti lo apprezzano, ma non più quelli della sua squadra. Si parla di SuperMario alla Fiorentina o al Milan oppure al Manchester city; la cosa certa è che non resterà all’Inter perchè è diventato incompatibile con il popolo neroazzurro.

Così Gianfranco Fini oggi risulta incompatibile agli elettori del Pdl. E, più ancora, a quelli di An-ex Msi; cioè agli elettori di quello che fu il suo partito. Non si tratta di discutere, e tanto meno di criticare, le posizioni di Fini in materia di bioetica, immigrazione e sicurezza, laicità dello Stato. Ma non si può non rilevare che sono posizioni tipiche della sinistra, ed estranee alla destra. A tutta la destra, sia italiana che europea.

Inutile raccontare che Fini vuole superare il becerume della destra italiana per posizionarsi su una destra europea più “moderna e civile”.

Prendiamo il tema che più di tutti ha sancito la rottura tra Fini e i suoi elettori: l’immigrazione. Dov’è la destra che insiste sulla necessità di garantire loro i diritti, di dargli il voto e la cittadinanza, di integrarli perchè sono una risorsa? La troviamo forse in Olanda o in Francia o in Germania? Non c’è, questa destra non esiste in nessun Paese europeo. Perchè ovunque la destra dice che bisogna anzitutto insegnare loro i doveri, che basta così, che vanno chiuse le frontiere, che bisogna rimandarne a casa il più possibile.

Lo dice, e magari non riesce ad attuarlo dove governa. Ma questo dice la destra. Così come la sinistra dice che più integri gli stranieri e meglio è; più dai loro diritti più favorisci la trasformazione in cittadini inseriti e tranquilli; la sinistra aggiunge che comunque non riesci a fermare gli ingressi e che tanto vale impegnarsi a costruire la società multietnica. Dopo magari, dove governa, non riesce a costruirla la società multietnica; magari l’integrazione, degli islamici in particolare, resta una chimera. Ma questo dice la sinistra.

Quindi prendiamo atto che Fini oggi parla il linguaggio della sinistra. Scelta ovviamente lecita, ogni posizione politica va rispettata, ma non è questo il linguaggio della destra.

C’è poi un passaggio davvero fuorviante nell’intervento di Fini alla direzione del Pdl; quello in cui ha voluto spiegare a Berlusconi che lui, Fini, non lo ha mai tradito perchè le cose gliele ha sempre dette in faccia e non ha mai tramato alle sue spalle. Mi è parso un tentativo un po’ puerile di spacciare la lotta politica per un capitolo del libro Cuore.

In politica il tradimento esiste solo nei confronti dei propri elettori. Ed è un reato, nel senso che gli elettori sempre ti puniscono. Ma non ha senso parlare di tradimento tra chi compete per un posto o un ruolo. E cioè fuorviante infiorettare o demonizzare quella battaglia per il potere che è l’essenza stessa della politica e che si sviluppa in ogni partito.

Due esempi veneti: Bisaglia a suo tempo “tradì” Roumor? No, semplicemente riuscì a farlo fuori. E Comencini voleva “tradire” Bossi? Diciamo che tentò di sottrargli la Lega in Veneto e che non ci riuscì. Esempi nazionali: Diliberto ha “tradito” Cossutta, Ferrero lo ha fatto con Bertinotti? Semplicemente sono riusciti a mandare a casa i leader dei loro partiti e a prenderne il posto. De Magistris invece ci ha provato con Di Pietro senza riuscirci.

Tra chi battaglia in politica non ci sono né fedeltà né tradimenti, solo vittorie o sconfitte. E non mi sembra che Fini abbia vinto. Tutto qui.

 

 


ASINI IN CATTEDRA A SCUOLA

 

 

Roberto Formigoni: “Sono stufo di vedere l’istruzione italiana agli ultimi posti di tutte le classifiche europee”. Dire stufo è poco. E’ una sciagura, soprattutto per i nostri figli che la frequentano e che sulla scuola costruiscono il loro futuro economico-lavorativo. Ma, se la nostra scuola è agli ultimi posti, dipende (anche) dal fatto che abbiano in cattedra troppi asini; non che abbiamo in cattedra troppi meridionali.

Non mi sembra dunque fondamentale introdurre il reclutamento degli insegnanti su base regionale, come ha prospettato la Gelmini accogliendo una precisa richiesta della Lega. Fondamentale è invece riuscire a mettere in cattedra docenti migliori, più preparati e più motivati. Quindi bisogna pagarli meglio e selezionarli in base ai loro meriti.

Oggi abbiamo troppi asini perchè l’insegnamento è diventata l’ultima spiaggia occupazionale per i laureati senza arte né parte. Ultima spiaggia anche sotto il profilo retributivo. Quindi chi si laurea in legge e non riesce a fare l’avvocato, chi in economia e non esercita come commercialista, chi in farmacia senza avercela di proprietà, si accontenta dello stipendiuccio da sopravvivenza economica che la scuola pubblica garantisce ad un esercito di disoccupati mancati. Svolgendo così più una funzione di assistenza sociale che di alfabetizzazione.

Queste sono le linea generali di una tendenza che poi, per fortuna, vede ancora una quota di insegnati veri: persone cioè che hanno scelto questa professione per vocazione, non ostante gli stipendi miseri e il degrado ambientale crescente.

C’è un’esigenza di giustizia territoriale. In base alla quale ogni regione (ogni entità federale) ha diritto di garantire ai propri residenti la quota di posti pubblici, senza vederli regolarmente occupati dai residenti in altri territori. Ma questa regola deve fare eccezione proprio nella pubblica istruzione che, avendo una funzione strategica fondamentale per il futuro dei nostri figli, non può accontentarsi di sostituire gli asini meridionali con gli asini veneti.

Bisogna avere insegnanti più validi e qualificati, sull’esempio delle grandi università anglosassoni (e non solo) che non guardano alla nazionalità dei docenti (possono perfino essere italiani…) ma al loro curriculum. Un tempo si esigevano le referenze anche per assumere una cameriera. Dopo invece abbiamo immesso nella scuola un fiume di docenti a scatola chiusa, cioè sulla base di astratte graduatorie burocratiche.

L’alternativa è il merito. Un criterio adottabile solo se si può agire sia in entrata che in uscita: cioè assumendo i più idonei (e pagandoli adeguatamente), ma anche lasciando a casa chi, dopo un periodo di prova, si è dimostrato inadatto all’insegnamento. Decisione che dovrebbe assumere il consiglio di amministrazione dei vari istituti scolastici (sia pubblici che privati ) dove possono sedere i rappresentati delle singole comunità che abbiano compreso e sottoscritto un principio basilare: la scuola migliore, quella che serve, è la scuola che fa studiare di più e boccia di più; mentre al scuola che promuove tutti e non da compiti per casa è inutile frequentarla.

Temo che non ci arriveremo mai. Di certo non ci muoviamo in questa direzione sostituendo in cattedra agli asini del Sud quelli del Nord.

FINI E DEMOCRAZIA NAZIONALE

 

 

Dopo il mezzogiorno di fuoco tra Fini e Berlusconi, e lo strappo del presidente della Camera che minaccia di costituire gruppi parlamentari autonomi, tutti hanno cominciato a dare i numeri, cioè a calcolare quanti sarebbero i deputati – 50, 40 o 25? – e i senatori – 8, 10 o 13? – disposti a seguire il cofondatore.

Tutti conteggi inutili. Perché non sono decisivi i parlamentari, bensì gli elettori. E nessuno lo sa meglio di Gianfranco Fini che, pur avendo ripudiato i propri trascorsi politici, non può aver dimenticato la storia del suo vecchio partito, il Msi. Ed in particolare quel che accade nel febbraio del 1977 con la nascita di Democrazia nazionale.

L’ostetrica dell’operazione politica fu la Dc, che allora temeva il sorpasso da parte del Pci. E quindi, alla ricerca di consensi aggiuntivi, penso di togliere dal “frigorifero” i voti della destra. Per questo favorì appunto la nascita, con scissione dal Msi, Democrazia nazionale che trovò in De Marzio il segretario e nell’ammiraglio Birindelli la figura più prestigiosa. Riuscì anche a portar via ad Almirante la maggioranza dei parlamentari del Msi: 21 deputati su 35, 9 senatori su 15.

C’erano dunque i numeri parlamentari e c’era un progetto politico che sembrava sensato. Ma fu tutto inutile per un semplice motivo: gli elettori del Msi non erano d’accordo. E così alle politiche del 1979 Almirante si riprese tutti i suoi voti e i suoi parlamentari; mentre quelli di Democrazia nazionale si ritrovarono generali (e ammiragli) senza truppa ridotti a chiedere asilo alla Balena Bianca.

Oggi anche il progetto politico di Gianfranco Fini può sembrare sensato e fondato: difesa dell’unità nazionale, stop alla Lega, laicità sui temi bioetici, apertura sui diritti degli immigrati. Non sto neanche a discutere se siano oppure no posizioni da destra europea. Prendo però atto che non sono condivise dagli elettori della destra italiana. In tutti questi mesi, con le dispute tra lui e Berlusconi che continuavano ad affiorare, non ho sentito un solo telespettatore di centrodestra che fosse d’accordo con le posizioni di Fini; non che il presidente della Camera non ricevesse apprezzamenti, ma…tutti da elettori del centrosinistra.

Da qui la sensazione che, se dovesse seguire l’esempio di De Marzio, otterrebbe anche un risultato simile. Tuttavia, come dicevo, credo che nessuno lo sappia meglio di Fini, il quale continua a tirare la corda però senza mai romperla. Può essere che ora Berlusconi decida di metterlo fuori dal Pdl, mentre dubito che il cofondatore sia così autolesionista da andarsene con le proprie gambe.