ECCO PERCHE’ STO CON FINI

 L’estate porta consiglio, le ferie sono l’occasione per riflettere. E dopo averci riflettuto, appunto, ho concluso di essere anch’io un finiano; un finiano di ferro, più che mai convinto. Di cosa? Che il presidente della Camera sia l’uomo giusto, forse quello decisivo, per spaccare in due il Paese. Per farla finita con quella unità nazionale che è stata più disastrosa ancora per il Sud che per il Nord (Qui concordo con Pino Aprile: leggetevi il suo “Terroni”, edizioni Piemme, è l’autentico best seller politico del 2010).

Smettiamola una buona volta con la retorica unitaria. Lasciamo perdere l’estrema, pasticciata e velleitaria, riforma federalista che vorrebbe – e francamente non si capisce come – riempire un po’ di più la botte padana (che ne ha tutti i diritti come produttrice della ricchezza nazionale) continuando però anche ad ubriacare la moglie meridionale. Prendiamo atto che quello realizzato nel 1860 è un matrimonio coatto, imposto dai cosiddetti Padri della Patria, Cavour-Garibaldi-Vittorio Emanuele II, contro la volontà degli sposi. Una di quelle unioni impossibili, che fanno unicamente soffrire entrambi i coniugi, e che giustificano la legge sul divorzio come strumento di civiltà e libertà.

Tornando a Fini spiego perchè lo ritengo il “giudice” che potrebbe decretare la separazione tra Nord e Sud. Tutto dipende dal suo diverso appeal elettorale. Da noi in Settentrione il suo seguito tra gli elettori del Pdl è modesto, per non dire inesistente. Riscuote molta simpatia ma tra gli elettori di centrosinistra, che apprezzano la sua capacità di mettere in crisi Berlusconi, che lo ritengono magari più efficace di Bersani…

Qui al Nord però Fini non modifica gli equilibri elettorali, non sposta voti: è solo un commensale in più che si siede al tavolo dell’opposizione, e che minaccia di mangiarsi un pezzo della già modesta torta elettorale senza contribuire a farla lievitare. (E da questo punto di vista Casini, Bersani e Di Pietro gli riservano più la diffidenza del concorrente che l’entusiasmo dell’alleato capace di portare nuove truppe…).

Mentre il discorso al Sud è radicalmente diverso. Fini infatti qua si presenta come il paladino dell’antileghismo, contrapposto ad un Berlusconi che è invece legato a doppio filo con Bossi. Per l’elettorato meridionale il presidente della Camera è il primo ostacolo alla riforma federalista, il politico che – in nome della solidarietà e dell’unità nazionale – potrebbe garantire che continui l’elargizione di denaro pubblico. E quindi al Sud potrebbe raccogliere parecchi consensi.

Si profila così uno scenario verosimile: Lega e Pdl che hanno una solida maggioranza al Nord; mentre al Sud il Pdl si ritroverebbe in minoranza, con una maggioranza magari solo teorica ma comunque ampia che va da Vendola al Pd a Casini a Di Pietro e ai finiani.

Credo che questo scenario sarebbe la premessa per festeggiare i 150 anni dell’unità…iniziando le pratiche per il divorzio.

In conclusione sottolineiamo un paio di contraddizioni tipiche della politica (che solo nelle attese degli ingenui non è contraddittoria): Fini, l’alfiere dell’unità nazionale, da vita ad un partito nei fatti territoriale-sudista che contribuisce a spaccare ancora di più il Paese. Bossi, l’alfiere della secessione, che ha fondato un partito dichiaratamente territoriale-nordista, è il protagonista dell’ultimo stoico tentativo di salvare l’unità nazionale con la riforma federalista (che oggi pare abortita sul nascere).

Personalmente comunque non ho dubbi: sto con Fini perchè sarà lui, più di Bossi, a dare la spallata definitiva…

 

MANI PULITE, SOLDI SPORCHI

 

 

Al centro della rottura definitiva tra Fini e Berlusconi c’è la legalità, la questione morale. Questione fondamentale, cui l’opinione pubblica è, a ragione, molto sensibile. Ma che, proprio per questo, si presta ad essere strumentalizzata nella battaglia politica.

E’ successo fin dagli albori, con l’antesignano della questione morale. Enrico Berlinguer, leader del Pci, che la lanciò già negli anni Ottanta e, battendo nel tempo e nella definizione gli stessi magistrati del pool di Milano, attribuì per primo al suo partito la qualifica di “mani pulite”. Definizione indubbiamente efficace che dava per scontata anche la contrapposizione con gli altri partiti, Dc e Psi, che le mani invece le avrebbero avute sporche.

Peccato però che pure le mani pulite avessero maneggiato soldi sporchi. Quei soldi delle tangenti che anche il Pci intascava, come dimostra la vicenda del “compagno G.”. (Quel Primo Greganti che i comunisti allora considerarono un eroe, con l’identico ragionamento fatto poi da Dell’Utri nei confronti di Mangano: anche il compagno G, pur sbattuto in carcere, non parlò…)

Ma per il Pci di Berlinguer c’era un aggravante e non da poco. Aveva cioè intascato per decenni anche i soldi dall’Urss, l’oro di Mosca, da un Paese nemico, fulcro del Patto di Varsavia, mentre noi eravamo schierati sul fronte opposto con la Nato.

In qualunque nazione dell’Occidente – Francia, Germania, Inghilterra- i dirigenti di un partito, che avesse ricevuto finanziamenti occulti da un Paese nemico, sarebbero stati processati per alto tradimento. Da noi invece il Parlamento mandò in prescrizione qualunque tipo di finanziamento illecito avvenuto fino al 1988.(Non è che la “prescrizione ad hoc” se la sia inventata Berlusconi, l’ha solo copiata dalla Prima Repubblica…)

E’ giusto non dimenticare questi precedenti perchè la questione morale è tanto importante da rendere inaccettabile che ieri, come oggi, vesta i panni della Vergine Vestale l’accusatore che magari ne ha combinate di più e di peggio degli accusati.

Al centro della rottura tra Fini e Berlusconi c’è oggi anche la cosiddetta P3. Siamo davvero di fronte ad una potente loggia segreta con finalità eversive o sono solo, come sostiene Ferrara, dei millantatori (in siciliano “scogli acquazzina”)? Staremo a vedere. Di certo anche la storica P2 venne strumentalizzata alla grande.

L’accusa di piduista servì infatti a sottrarre ad Angelo Rizzoli jr il Corriere della sera che poi, per “moralizzarlo” e ripulirlo dalla fosca contaminazione gelliana, fu consegnato su un piatto d’argento a Gianni Agnelli, Cuccia e ai grandi banchieri dall’allora, alcuni dei quali tutt’ora lo controllano…

Allora la domanda corretta non è se esisteva una potente loggia segreta, ma qual’era? Quella di Licio Gelli o quella di Gianni Agnelli? Chi l’ha fatto il colpaccio? Il Gran Maestro Supremo abitava a villa Wanda o a Villar Perosa?

Chiediamocelo. Non perchè non esista una questione morale o non ci siano logge più o meno segrete (quella di Agnelli era lì, alla luce del sole. Però nessuno, finch’era in vita l’Avvocato, osò aprire un’inchiesta su di lui). Ma perchè non è il caso di farci prendere in giro, cioè di farci indurre a scambiare lucciole per lanterne.

 

LO STATO PIU’ FANTASMA DELLE CASE

 

Siamo lo Stato delle case fantasma; delle abitazioni che esistono nella realtà ma non esistono legalmente, cioè non sono registrate al catasto e quindi evadono totalmente qualsiasi imposta. L’Agenzia del territorio, emanazione del ministero dell’Economia, ne ha individuate due milioni e settantasette mila.

Le case fantasma sono sparse un po’ in tutte le province italiane ma, indovinate dov’è la concentrazione più rilevante? Quasi impossibile riuscirci…Sorpresa: e’ al Centro-Sud con Roma che, tanto per dire, ne annovera sedici volte più di Milano! Uno sguardo alla scontatissima classifica: primo posto a Salerno (93.389 case fantasma), secondo a Roma, terzo a Cosenza, quarto a Napoli, quinta Avellino, sesta Lecce, settima Palermo e avanti così.

Non sto a ripetere la tiritera sull’Italia divisa in due, sulla secessione in atto nel nostro Paese; una secessione che solo chi non vuole non vede. Osservo che è inutile ricordare la pessima abitudine dei continui condoni. Abitudine senz’altro pessima e diseducativa, ma in questo caso del tutto fuorviante: perché questi due milioni e settantasette mila proprietari nemmeno si sognano di condonare, di rientrare nella legalità e cominciare a pagare le imposte. Per loro è molto più conveniente restare fantasmi a vita. (Esattamente come è più conveniente per tante attività economiche restare completamente a nero).

E possono farlo – arriviamo al dunque – perché c’è uno Stato fantasma che rinuncia ad esercitare le sue prerogative. Dico uno Stato perché la questione è trasversale, attraversa i governi di qualunque colore. Nello specifico non c’è la provincia dalla mani pulite e quella dalle mani sporche; il presidente finiano che vigila sulla legalità e quello berlusconiano che si incricca coi proprietari fuorilegge: a Salerno il presidente è del Pdl, a Roma del Pd; eppure vanno a braccetto in testa alla classifica delle case fantasma.

Aggiungo che la Lega, che denuncia la latitanza dello Stato al Sud, poi vuole uno Stato altrettanto latitante con i produttori di latte del Nord…In questo caso sono le multe a diventare fantasma.

Ha poco senso anche tirare in ballo le cosche e la lotta alla mafia. Non sarà mica il padrino che ti garantisce il non accatastamento?! E’ invece lo Stato nelle sue varie articolazioni, sono gli enti locali che rinunciano a compiere accertamenti, che chiudono gli occhi, che “scoprono” Rosarno il giorno dopo…

E poi con Roma in testa alla classifica, proprio là dove si concentra al massimo il potere dello Stato. Cosa dobbiamo concludere? Che è qui il vertice della Cupola, che è la supercosca romana dei partiti?…

Le case fantasma sono una delle varie sfaccettature: accanto ai redditi fantasma, ai lavoratori la cui presenza risulta impalpabile, ai privilegi immotivati concessi alle corporazioni. Tutte sfaccettature riconducibili ad uno Stato fantasma, che latita invece di esercitare prerogative essenziali; che sembra convinto di durare tanto più quanto meno si fa sentire dai cittadini.



DA AZNAVOUR A BORSELLINO A NICHI

 

 

Il concerto di Charles Aznavour doveva essere un evento, invece si è trasformato in un caso politico. Perchè il mitico chansonnier, dopo aver cantato per due ore (ad 86 anni), ha mandato tutti al diavolo dichiarando: “Questa è la peggiore organizzazione mai vista al mondo!”. In effetti venerdì sera in piazza San Marco non ha funzionato nulla: amplificatori, mixer, ritorno dell’audio; un disastro.

Il Corriere gli ha poi chiesto conferma di un giudizio tanto duro. Ed Aznavour ha allargato il giudizio all’intero nostro Paese citando la famosa barzelletta: “Un uomo muore e va all’inferno, gli chiedono di scegliere tra quello tedesco e quello italiano. Chiede dove sia la differenza e gli dicono che in quello italiano un giorno manca il fuoco, un giorno il diavolo…”

Insomma in Italia è tutto un casino. Che esageri Aznavour?

Scrive Rita Borsellino su L’Unità: “Sono trascorsi diciotto anni dalla strage di via d’Amelio. Diciotto anni da quella di Capaci. Diciassette dalle bombe di Milano, Firenze e Roma. E ancora oggi non conosciamo la verità su quanto accaduto in quegli anni”. Insomma anche la giustizia italiana è un inferno, ma un inferno tedesco: nel senso che non se ne esce proprio…

La Borsellino è convinta che sia colpa di oscure complicità, di depistaggi e servizi deviati. Altri pensano che certi magistrati siano troppo politicizzati, per cui partono da uno schema ideologico e poi cercano il pentito che glielo supporti. Trovo più convincente l’analisi di Aznavour: la cialtroneria pesa più dell’ideologia. Come il tecnico del suono non sa tarare il mixer, così l’addetto alla giustizia non sa impiantare un processo che stia in piedi.

Oggi scioperano medici e personale sanitario. E i loro sindacati, per mostrarci tutto il peso della corporazione esibiscono – fieri – cifre imponenti: “Cancellate 40 mila operazioni chirurgiche previste!”. Perfetto, da tipico inferno sanitario all’italiana: scioperano contro la manovra che, con i tagli, comprometterebbe la salute dei cittadini…E loro intanto la compromettono di certo saltando operazioni e visite specialistiche. Mai visto al mondo, direbbe lo chansonnier.

Per fortuna che la politica è un’altra cosa. Qui troviamo Nichi Vendola, il cavallo vincente del centrosinistra, quello che dopo aver vinto in Puglia vuole replicare sul piano nazionale e per questo si è candidato a premier antagonista di Berlusconi. Lo ha fatto dichiarando che la sua visione del mondo ha “bisogno di eroi come Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani”. Capito? Carlo Giuliani, l’eroe dell’estintore in testa al carabiniere, equiparato ai magistrati uccisi dalla mafia…

Cosa ne dite? Che il Nichi abbia più successo come antagonista del Berlusca o come organizzatore di concerti in piazza San Marco?



P3, CRICCHE E LOBBY

 

P3 avanti tutta. L’inchiesta adesso si allarga ad alcuni magistrati. Impegnati anche loro nel golpe? Anzi membri assieme a Carboni, Verdini (e “Cesare”) della nuova loggia segreta che coltiva piani eversivi a danno delle istituzioni democratiche?

Forse è il caso di non confondere piani eversivi e cricche e lobby e millantato credito e sgomitamento carrieristico

Cominciamo con le lobby. Da noi sono diffuse ma inconfessate (cioè non regolate); altrove invece alla luce del sole: negli Stati Uniti, ad esempio, si saprebbe chi e perchè, a quali condizioni e con quali sponsor politici, spinge per ottenere l’appalto dell’eolico in California. Se poi si dimostra che l’appalto è stato assegnato in maniera irregolare e a scapito dell’interesse generale, allora scatta il reato. Ma la lobby è semplicemente il modo corrente di muoversi.

Altra cosa sono le cricche, dove i risultati concreti del malaffare vanno separati dal puro millantato credito di chi al telefono afferma di avere dalla sua Cesare, il Papa o il presidente del Csm, ed essere quindi in grado di “sistemare tutto”.

Le cricche le conosciamo, a partire dalle nostre realtà locali; e possiamo immagine quale sia la loro proiezione massima nella grande cloaca romana. Anche nelle nostre città, perfino nei paesi, c’è il maneggione che conosce tutti: dall’assessore all’urbanistica al direttore della banca , dal maggiore della finanza al comandante dei vigili, passando anche per Palazzo di Giustia; e ti assicura che tutto si può fare, che l’affare andrà sicuramente in porto; che si cambia la destinazione d’uso e si ottengono i finanziamenti; che nessuno cercherà il nero e che non ci saranno né inchieste né denunce…

Quando non è millantato credito, quando l’affare va in porto, è il sistema della corruzione, spesso diffuso, talora endemico. Ma che c’azzecca tutto questo con i piani eversivi e l’attentato alle istituzioni? Perché mai i faccendieri dovrebbero attentare ad istituzioni all’interno delle quali nuotano come squaletti?

Altra questione. Oggi ci si meraviglia per pressioni, che avrebbero riguardato anche magistrati, per ottenere la nomina di Marra invece che di Rordorf a presidente della Corte d’Appello di Milano. Ci meravigliamo di cosa? Che i magistrati non siano marziani? Cioè che spingano, che trattino, che telefonino e intrallazzino anche loro – proprio come i giornalisti, i politici, i funzionari, i militari, i rettori, etc. – per far carriera, per nominare oggi l’amico che domani in cambio favorirà me?

Di cosa pensiamo che parlino ogni giorno milioni di italiani (quando non parlano di donne come fa sempre Cesare)? Parlano di soldi, di affari, di carriera, di opportunità. Riascoltati dalle intercettazioni sembrano tutti criminali, mentre nella realtà tante volte di reati veri non ce ne sono. Altre volte invece i reati ci sono. Ma è questo il punto: appurare se alla fine Marra non aveva i titoli per andare a presiedere la Corte d’Appello, se ha scavalcato un candidato più qualificato; mentre è assurdo fermarsi alla telefonata, alla raccomandazione, alla pressione che ci sono sempre e comunque per chiunque aspiri ad un incarico importante.

E’ aberrante che oggi chi ha votato per lui venga dipinto come un criminale affiliato alla P3 e chi ha votato per l’antagonista sconfitto passi per l’arcangelo che ha difeso la democrazia dai golpisti!…

Pensiamo al piano eversivo occulto, manovrato da una loggia segreta. E non ci accorgiamo che, se mai, ne abbiamo uno palese. Con tanto di comunicato stampa.

Mi riferisco alla pubblica presa di posizione del comandante generale dei carabinieri Gallitelli a favore del generale Ganzer. Il tribunale di Milano l’ha condannato a 14 anni come narcotrafficante e Gallitelli non lo sospende, anzi: gli conferma la piena fiducia e lo lascia al comando del Ros; tenendo così in alcun conto il pronunciamento dei magistrati milanesi.

A me pare uno scontro frontale tra il vertice dell’Arma dei carabinieri e l’Ordinamento giudiziario. Forse Napolitano dovrebbe spiegarci se è eversivo il comportamento di Gallitelli oppure la sentenza, il "rito ambrosiano", del Tribunale di Milano. Ma il Capo dello Stato tace, e i giornali parlano di P3.

 

SE E’ IL SINDACO A TASSARCI

 

Tutto ormai fa credere che a breve sarà il sindaco a tassarci. Si conoscono già i dettagli di questa nuova imposta municipale che accorperà varie voci: dalla cedolare secca sugli affitti alla tarsu, dall’imposta di registro a quella ipotecaria e catastale. Non vi viene però detta la cosa fondamentale. Cioè se alla fine della giostra, tra tasse locali e centrali, il cittadino che prima pagava dieci si ritroverà a pagare nove e mezzo oppure dieci e mezzo.

In teoria il rapporto fiscale più corto dovrebbe funzionare meglio perchè garantisce maggiori controlli. Il che non toglie che, se il prelievo complessivo diminuisce, il sindaco che tassa sarà un vantaggio; se invece aumenta sarà una fregatura.

Fossimo meno imbevuti di ideologia capiremmo che la scelta politica si fonda su un punto prioritario: quanto pago di tasse e che servizi, e di quale qualità, ottengo in cambio. Su questo dovrebbero confrontarsi anzitutto i programmi elettorali dei vari schieramenti. Perchè se vado a comprare un paio di pantaloni mi interessa ottenere i migliori al prezzo più conveniente, e non sapere se il negoziante vota destra o sinistra.

Mentre con l’appartenenza ideologica ci facciamo solo fregare dai bottegai della politica, che di tutto ci parlano glissando sui costi che poi paga il cittadino

Sentire oggi parlare di “autonomia impositiva” degli enti locali, come se fosse un regalo fatto ai cittadini, mette i brividi. Ed è una contraddizione totale nell’intervento del governo. Nel decretare i tagli ai bilanci di Regioni e Comuni Berlusconi stesso ha infatti dichiarato che lui e Tremonti hanno visto “cose vergognose” nei conti di questi enti; ossia sprechi, sperperi e grasso che cola. Ma, se sei convinto che sia così e lo dichiari, devi vietare in modo esplicito qualunque autonomia impositiva per costringerli alla cura dimagrante.

Se invece la concedi dai ragione a chi ti accusa di aver solo delegato ad altri il compito di attuare la cosiddetta “macelleria sociale”.

Sulla carta è sacrosanta la stessa riforma federalista. Anche perchè ripara alla follia storica di aver voluto unire con un modello rigidamente centralista un Paese che, dalla caduta delll’impero romano, non è più stato unito. Ma pure qui è decisivo il conto finale che presenteremo ai cittadini. Non possiamo infatti dire loro: paga più tasse e sii contento perchè ti abbiamo dato il federalismo. Se sarà così sarà una fregatura, esattamente come aver dato al sindaco la facoltà di diventare esattore di nuove imposte.

 

P2, P3, P…QUANTE?

 

 

Vent’anni dopo la famigerata P2 di Licio Gelli ecco che spunta la P3 di Flavio Carboni. Una continuità perfetta dato che il faccendiere per eccellenza (così battezzato allora da Eugenio Scalfari) già risultava iscritto alla Loggia di Gelli, e fu arrestato nel 1992; ed ora sarebbe al vertice della nuova congrega massonica, accusata di aver cercato di influenzare i giudici della Consulta per far passare il lodo Alfano, di tramare nuovi piani eversivi, e per questo nuovamente arrestato ieri.

Ne parlano i quotidiani usciti oggi nel giorno dello sciopero, e non occorre essere il polipo Paul per avere la certezza che l’arresto di Carboni, la P3 e i disegni eversivi campeggeranno su tutte le prime pagine di quelli in edicola domani.

Nessun dubbio che Carboni sia, appunto, il prototipo del faccendiere. Ma credo che un golpista serio (che non si limiti a guidare dei forestali come Junior Valerio Borghese) debba avere caratteristiche, poteri e relazioni ben diversi. Quando sento parlare di “piani eversivi” non so se piangere, ridere o…sperarci. Lo dico per paradosso (ricordatevelo, prima di iscrivermi d’ufficio alla P3) nel senso che un piano eversivo puoi attualo solo se esistono poteri forti che abbiano in mano le redini di un Paese. Mentre il nostro mi sembra, più che altro, un Paese alla deriva, preda degli interessi corporativi, delle cricche, del nepotismo, senza alcuna meritocrazia. Più allo sbando che in vista di un golpe.

Non posso poi dimenticare come finì tutta la vicenda P2. L’unico “piano eversivo” fu quello attuato ai danni di Angelo Rizzoli jr: infattigrazie all’accusa di piduismo – da cui fu poi completamente prosciolto! – gli venne scippato il Corriere della sera. A tutto beneficio di Gianni Agnelli e dei banchieri che tutt’ora ne detengono la proprietà. Il primo quotidiano italiano fu così sottratto ad uno dei pochissimi editori puri e finì in mano di chi aveva mille intrallazzi e mille altri interessi extra-editoriali. Viva la libertà di stampa! Chi era l’eversore e chi il garante della democrazia?

Oggi Flavio Carboni è accusato di aver cercato di condizionare i giudici della Consulta. Condizionarli come? Forse rapendo qualche famigliare e minacciando di ucciderlo se non passava il lodo Alfano? No. Pare che abbia fatto alcune telefonate “chiamando deputati ai quali domandava se avessero per caso relazioni altolocate”. Giuliano Ferrara oggi la racconta così. Ma, se è così, siamo a Totò che cerca di vendere la Fontana di Trevi o alla sovversione delle istituzioni democratiche?

Non che non ci siano pagine oscure nella storia della nostra Repubblica. Anzi ce ne sono fin troppe. Basta ricordare Aldo Moro: è credibile che quegli squinternati dei brigatisti rossi, dediti a stendere comunicati deliranti, avessero una preparazione militare così perfetta da liquidare con un sol colpo in fronte tutti gli uomini della scorta e rapire colui che era il cardine della politica italiana? Non lo è. Vien da pensare che abbiamo provveduto i servizi segreti; quelli americani o quello sovietici. O tutti e due assieme, dato che né Mosca né Washington volevano che Moro attuasse il compromesso storico.

Vien da pensarlo, ma non è mai stato provato. Tra vent’anni riapriremo per l’ennesima volta il processo Moro. Esattamente come si continua a cercare una verità definitiva per l’Italicus, per Ustica, per le stragi, per Falcone e Borsellino. Quindi avanti con la P3, la P4, la P5…in attesa che tutto vada a finire come con la P2. Cioè con Angelo Rizzoli scippato, ma assolto da ogni addebito, e Licio Gelli che invecchia serenamente a Villa Wanda.

Forse bisogna aspettare che vanga attuato un “piano eversivo” per arrivare finalmente ad avere colpevoli certi e definitivi…







MULTIETNICO SI’, MA TEDESCO

 

 

Dopo che la Germania ha “asfaltato” (Gazzetta dixit) l’Argentina di Maradona, i tedeschi sono diventati perfino “simpatici e divertenti” (La Stampa). Ma, soprattutto, si sottolinea come la nazionale di Loew stia sbaragliando il campo perchè è goiosamente multietnica: dal gahanese Boateng al tunisino Khedira al turco Ozil fino alla coppia polacca Klose-Podolski.

Quasi il contraltare ai nostri pregiudizi che ci avrebbero fatto lasciare a casa Balotelli, con la conseguente eliminazione di una nazionale tutta e solo italiana.

Prendiamo per buono l’assunto, ma cerchiamo di capire quando il multietnico funzioni e quando no. Perchè non possiamo ignorare che un’altra nazionale, più “mista” ancora di quella tedesca, la Francia di Domenech, ha fatto invece la stessa nostra miserevole fine. Proprio il raffronto tra calciatori tedeschi e francesi ce lo fa comprendere.

La premessa è che l’intreccio di etnie diverse funziona sempre, nel senso che produce un arricchimento delle facoltà sia fisiche che intellettuali. E’ l’esatto opposto delle unioni tra consanguinei. Mescolare il sangue è positivo sia per i cani che per gli uomini. Dopo di che per gli uomini diventa però decisiva la condivisione di un progetto comune, altrimenti scoppiano i conflitti. Altrimenti fai la fine dell’impero asburgico: tanto ricco di cultura, storie e intelligenze diverse, quanto dilaniato e disintegrato dall’insorgere dei singoli nazionalismi; perchè privo di una Weltanshauung condivisa.

Un po’ come la Francia di Domenech dove il nero Anelka e l’islamico (convertito) Ribery non volevano in squadra Gourcuff accusato di essere un borghese bianco della Parigi bene…Se permangono le contrapposizioni sociali o razziali o religiose, la società multietnica resta una polveriera che genera le banlieue e gli spogliatoi ingestibili come quello di Domenech.

Bisogna invece condividere il progetto, sentirsi parte di una società, apprezzare il Paese in cui vivi. Come Sami Khedira, 23 centrocampista dello Stoccarda, figlio di padre tunisino e madre tedesca che, intervistato dalla Gazzetta, spiega di non aver mai voluto imparare l’arabo per essere e sentirsi completamente tedesco!…Cioè parte integrante di un Paese che è primo in Europa, che garantisce gli stipendi più alti agli operai (doppi rispetto a quelli italiani), dove la scuola funzione al pari della giustizia, dove ha un senso perfino la burocrazia pubblica.

Significativo del livello di integrazione in Germania quanto raccontava domenica l’inviato de La Stampa da Berlino, da Neukolln il quartiere degli immigrati, dove – scriveva – “gli autonomi di sinistra tedeschi se ne vanno in giro a strappare le bandiere federali appese da arabi e turchi colpevoli, a loro dire, di risvegliare il patriottismo tedesco”.

Capito? I no global berlinesi temono che questi immigrati diventino più nazionalisti dei tedeschi! Pericolo che noi non corriamo di certo, incapaci come siamo di trasmettere l’immagine di un Paese serio, di cui valga la pena sentirsi e diventare cittadini.

In conclusione anche la nazionale di calcio finisce con l’essere lo specchio di pregi e difetti di un Paese: in Germania la società multietnica funziona, crea vantaggi e consenso, e risultati anche sportivi. Mentre basta guardarsi attorno nelle nostre città per vedere stranieri che nemmeno di sognano di voler diventare italiani. Ed è difficile dar loro torto.

 


L’UNITA’ D’ITALIA DEI CIECHI

 

 

L’unità d’Italia non esiste nemmeno con i ciechi. In Veneto infatti ce ne sono poco meno di 7.000 su una popolazione di 4.527.694 abitanti, mentre in Sicilia – 4.968.991 abitanti – ce ne sono oltre 30.000. Sarà una malattia, tipo l’anemia mediterranea; sarà colpa degli specchi ustori che Archimede inventò a difesa dei Siracusani. Fatto sta che sono il quadruplo.

Il dato lo fornisce uno che di ciechi se ne intende, Davide Cervellin imprenditore dell’alta padovana, cieco lui stesso, che produce ausili tecnologici a beneficio degli ipovedenti.

Il Corriere ha pubblicato l’inchiesta “i conti del federalismo” che certifica la totale disunità d’Italia. Regioni una diversa dall’altra su tutto: costi del personale, della sanità, degli organi istituzionali, numero di invalidi. Restiamo a quest’ultima voce che allarga il discorso dei ciechi. Il Veneto è la Regione più sana con solo il 2,4% della popolazione che intasca l’assegno d’invalidità dell’Inps; metà della Sardegna dove sono invece il 4,8%.

A dimostrazione che tutta l’Italia tende ad essere Meridione, ci sono anche regioni del Nord come la Liguria (3.7%) e del Centro come l’Umbria (4,6%) ben al di sopra della media nazionale di invalidi. Il dato di cui vergognarci è che salta perfino l’unità d’Europa, nel senso che in Italia abbiamo il doppio di invalidi della Francia e della Germania! E qui delle due l’una: o diamo una spiegazione razziale e razzista, oppure dobbiamo ammettere di essere diventati un popolo di cialtroni.

Ma la spiegazione di fondo la fornisce proprio Davide Cervellin denunciando che “le politiche assistenziali dei governi hanno privilegiato la monetizzazione dell’handicap alla costruzione di servizi o al soddisfacimento dei bisogni per realizzare le pari opportunità”. “Ne consegue – prosegue Cervellin – che chi è cieco o tetraplegico riceve dallo Stato, tra pensione sociale e indennità d’accompagnamento, una somma che corrisponde all’incirca ad uno stipendio, cosicché queste persone sono disincentivate a cercarsi un lavoro e rimangono chiusi in casa in attesa che arrivi il giorno del mese in cui andare a ritirare la pensione”.

Un analisi tanto chiara quanto terrificante: dando la pensione al disabile, invece che metterlo con le tecnologie e i servizi in condizione di lavorare e guadagnarsi uno stipendio, non solo graviamo lo Stato di costi pesanti ma, soprattutto, rinunciamo all’apporto che potrebbero dare alla comunità i diversamente abili. Li condanniamo all’emarginazione, a restare diversi. Abbiamo cancellato le classi differenziali, considerate incivili, ma diamo loro una vita differenziale, priva cioè della dignità del lavoro.

Questo è successo con i disabili veri. Ma c’è di peggio. Perchè le politiche assistenziali dei governi hanno trasformato anche gli abili in disabili. Largheggiando con i posti pubblici, le invalidità fasulle, i contributi e i forestali vari, abbiamo messo anche le persone sane nella condizione di starsene a casa (o in ufficio, o ad appiccare il fuoco sulla Sila) “in attesa che arrivi il giorno del mese in cui andare a ritirare la pensione” o lo stipendio.

Col che si comprende che c’è una differenza molto più profonda che tra abile e disabile: è la cultura del lavoro contrapposta a quella dell’assistenza. Abbiamo scelto la seconda trattando così l’intero Meridione, e via via anche il resto del Paese, nello stesso modo infame, incivile e umiliante in cui trattiamo un cieco o un tetraplegico.


NEL CASO BRANCHER UN CASO NAPOLITANO

Da dilettanti allo sbaraglio. Anzi con il terrore nel cuore e nelle gambe, come il povero Osorio (il difensore messicano che, impaurito dall’attacco argentino, ha offerto lui l’assit a Higuaìn). Così il centrodestra, Lega compresa, ha gestito il caso Brancher: facendo un assit perfetto all’opposizione, mandando in gol Di Pietro e il dipietrismo.

Non fossero dilettanti tremebondi quelli del centrodestra si ricorderebbero che la legge sul legittimo impedimento (proposta da Casini e votata anche dall’Udc) ha un’unica ragion d’essere: mettere il presidente del consiglio e tutti i ministri al riparo da attacchi indebiti dell’ordinamento giudiziario.

Se ritieni che questo pericolo non ci sia, non vari la legge. Ma, se la vari, devi riaffermare con forza l’esigenza che l’ha ispirata. E devi aggiungere che il legittimo impedimento è uno dei tanti tentativi di frenare la persecuzione giudiziaria che da decenni ormai ha messo nel mirino Berlusconi e i suoi uomini. Quindi non ti fai intimidire da nulla, nemmeno dalla tempistica, proclamando che sì, lo “scudo” a Brancher va dato anche cinque minuti dopo la nomina a ministro perchè è perseguitato da certi pm.

Se ci credi fai così. Ma se cominci a vacillare, se fai un passetto indietro, poi ammutolisci e retrocedi fino a cadere nella fossa che ti sei scavato…

Intendiamoci. L’opposizione, Di Pietro e tutti i media con loro schierati, ritengono che non ci sia alcuna persecuzione giudiziaria, che Berlusconi e i suoi siano solo dei lestofanti che cercano di utilizzare il potere legislativo per sottrarsi alla Giustizia. Perfetto che la pensino così. Sconcertante che un centrodestra, balbettante di fronte alle critiche piovute sul caso Brancher, sembri avvallare questa loro tesi…

Sconcertante che non difenda la legge dagli attacchi impropri che ha subito in questi giorni dal Colle. Perchè il legittimo impedimento è una legge dello Stato, votata dalla maggioranza del Parlamento, in vigore dal momento che il Presidente della Repubblica l’ha firmata e la Corte Costituzione non l’ha (ancora) cassata. E – arriviamo al punto – non è previsto in alcun modo che sia Napolitano a decidere quando l’impedimento è legittimo e quando no. Non c’entrano né le deleghe di Brancher né il portafoglio o meno del ministero né i tempi dopo la nomina.

La Costituzione – di cui Napolitano è custode – non contempla per il Presidente della Repubblica il potere né di interpretare né di modificare le leggi promulgate. Stabilisce che lui sia una figura puramente decorativa. Se al “custode” non va bene così com’è lo dica; e si impegni a modificarla in senso presidenzialista per ottenere i poteri che oggi non ha (proprio come vorrebbe anche Berlusconi…).

Mentre ancora una volta abbiamo capito come interpreta il proprio ruolo la grande stampa “indipendente”: un fondo puntuale e rigoroso di Ferruccio De Bortoli sulla mala gestione del caso Brancher, da giornalismo anglosassone; silenzio totale dello stesso direttore del Corriere sull’intervento a gamba tesa di Napolitano, un silenzio da giornalismo di regime sudamericano.