LO SCIOPERO DEGLI IMMIGRATI, E IL NOSTRO

 

Alla vigilia dello sciopero degli immigrati, Gilberto Oneto scriveva domenica su Il Giornale che il loro vero sciopero sarebbe “lasciare l’Italia”. Intendeva che solo così, solo se tornassero tutti nei luoghi di provenienza , potremmo verificare davvero quanto contano e quanto pesano oggi nel nostro Paese. Dal momento che le cifre – numero dei regolari e degli irregolari, incidenza sul Pil, adesione stessa allo sciopero – sono cifre del tutto aleatorie.

Provocazione tanto interessante, quanto irrealistico è attendersi una verifica concreta attraverso il rimpatrio di massa. Nemmeno lo xenofobo più scatenato può oggi illudersi di rimandarli tutti a casa loro (sarebbe già tanto riuscire a controllare il numero di nuovi ingressi e non venir semplicemente sommersi da ondate successive…). Ma anche solo pensare a come sarebbe un’Italia senza immigrati, può essere utile a capire quanto la presenza di questi “schiavi moderni” ci abbia corrotto. Corrotto – ovviamente – per colpa nostra, non certo per colpa loro; che di colpe gli immigrati magari ne hanno, ma di tutt’altro genere.

Cominciamo con le badanti, questa presenza così diffusa specie nel ricco Nordest. Immaginiamo che scompaiano domani, cosa succederebbe: ci mettiamo a costruire case di riposo a raffica, finanziate da nuove tasse rette comprese? Ci prendiamo i nostri anziani in casa rinunciando ad andare anche in vacanza per accudirli? Gettiamo la maschera e li lasciamo morire soli e abbandonati (come di fatto già avviene molto spesso)? Di certo il ricorso capillare alle badanti non ci ha aiutato a sviluppare adeguate politiche per l’assistenza alla terza età, e meno che mai a ridimensionare il nostro egoismo a beneficio dei vecchi non più autosufficienti. (E quando, tra poco, lo saremo noi?…)

Passiamo poi ai lavori che “gli italiani si rifiutano di fare”. Che si rifiutino non c’è dubbio, che altrimenti non si spiega come mai interi comparti – dell’agricoltura, della produzione, dei servizi – siano monopolio dei lavoratori stranieri. Non c’è dubbio anche che il rifiuto nasca da retribuzioni inadeguate e orari di lavoro che solo gli stranieri sono costretti ad accettare. Ma qui entrano in ballo le scelte di datori di lavoro che puntano a restare sul mercato non con l’innovazione ma con il contenimento dei costi. Questo alla fine produce un sistema economico arretrato, che non è certo imputabile agli immigrati; ma che resta una realtà, una scelta sciagurata che imprenditori imprevidenti operano grazie alla presenza massiccia degli “schiavi moderni” sul nostro mercato del lavoro. Una scelta che è l’esatto contrario di quella fatta negli anni del boom economico, quando investimenti e stipendi aumentavano di pari passo.

Facciamo un esempio concreto, partendo da quanto successo a Padova con delle donne africane impiegate a separare a mano i rifiuti d’estate dentro un capannone torrido, ad una paga regolare (per le cooperative) di tre euro circa l’ora. Immaginiamo che non ci siano più loro: o troviamo una tecnologia che li separi meccanicamente; o li gettiamo tal quali nell’inceneritore, senza sottilizzare troppo sulla qualità dei fumi; oppure paghiamo venti euro l’ora chi è disposto a fare a mano un lavoro tanto infame (e magari cominciamo anche a domandarci se c’è più bisogno di docenti universitari con tre studenti a corso o di operai che separino i rifiuti…).

Invece, finché abbiamo a disposizione le novelle schiave africane, né cerchiamo alternative né ci poniamo domande.

Concludo ripetendo che nessuna colpa va fatta a questi disperati che, comprensibilmente, cercano qui una vita migliore. Nemmeno la colpa di arrivare in massa e da clandestini, dal momento che noi dovremmo saper affrontare questa emergenza e non ne siamo capaci. Ma che non vengano a decantarci le magnifiche sorti e progressive della società multietnica, né a spiegarci che gli immigrati “sono una ricchezza”: per colpa nostra, con la loro presenza, siamo diventati più poveri e più gretti.

Oggi, lunedì, hanno scioperato gli immigrati. Il nostro “sciopero” è cominciato col loro arrivo.




 

MAFIE E STATO DI POLIZIA

 

 

Berlusconi sostiene che il nostro Paese è divenuto uno Stato di polizia: tutti intercettati, tutti controllati, tutti sotto inchiesta. Repubblica invece denuncia la corruzione dilagante e, dopo le accuse mosse al senatore del Pdl Di Girolamo, titola “La ‘ndrangheta in Parlamento”. E se fossero, più semplicemente, le due facce della stessa medaglia? Per trovare Paesi dove le mafie prosperino come da noi bisogna infatti andare proprio nel regimi totalitari; in quelli Stati di polizia dove anche la corruzione è capillare e quotidiana.

Se davvero vogliamo trovare una via d’uscita, dobbiamo partire dagli esempi e dalla storia. I regimi dittatoriali, pensiamo all’Unione sovietica, hanno sempre avuto gli apparati repressivi più poderosi – poliziotti, servizi segreti, magistrati – e le leggi più puntuali e rigorose; era superfluo perfino mettere i telefoni sotto controllo, perchè tutti erano intenti a spiare tutti, e a denunciarsi a vicenda. Risultato: l’Urss è crollata, sbriciolata dalla corruzione più diffusa e sistematica che si ricordi. Sulla carta c’erano pene severissime – anni ed anni di carcere – per chi “sabotava” la produzione, per chi rubava anche un lapis dall’ufficio. Risultato: nessuno più lavorava; tutti si portavano via anche i mobili dagli uffici, anche i rotoli di carta igienica

Quando abbiamo proposto di sbattere in carcere chi scia fuori pista e provoca slavine, ho pensato che siamo proprio ridotti alla draconiana impotenza che fu dell’Unione sovietica…Ogni volta invochiamo “inasprimento delle pene” contro gli stupratori, contro i corrotti, contro i clandestini, contro i mafiosi. Invocazione tipica degli impotenti, ciechi per giunta: dato che i deludenti risultati sono davanti agli occhi.

Ogni volta ci stracciamo le vesti perché “gli organici sono insufficienti” e bisognerebbe “aumentare gli stanziamenti”. Ci verrà mai il sospetto che il rimedio è esattamente l’opposto? Ci fossero meno poliziotti, forse, non avrebbero il tempo per diventare contigui alla malavita; ci fossero meno magistrati, forse, non potrebbero dedicarsi ai lucrosissimi incarichi extragiudiziali. Se riducessimo drasticamente il numero delle leggi avremmo la certezza matematica di ridurre il numero dei reati.

Questo non vuol dire cancellare i reati veri, ma evitare di confonderli con ciò che merita una sanzione amministrativa; evitare che sia un reato anche respirare. In Unione sovietica tutto era reato col risultato che – essendo impossibile perseguire tutto – tutto diventava di fatto lecito. E da noi oggi le cose non vanno più o meno così?

Per chi ha (come me) anche solo un’infarinatura di cultura liberale, certi esiti sono evidenti: se davvero vogliamo ridurre la corruzione – prima di pensare a nuove pene più severe, nuovi tribunali, intercettazioni estese anche agli asili nido – cominciamo a ridurre drasticamente gli apparati burocratici che sono la causa prima di corruzione. Riduciamo altrettanto drasticamente la presenza dello Stato in economia, la quota del Pil che passa attraverso la mano pubblica, e avremo ridotto la materia prima della corruzione.

Finchè metà della ricchezza prodotto ogni anno nel nostro Paese viene sequestrata e ridistribuita dall’interposizione pubblica, finchè abbiamo più burocrati che partite iva, non c’è Di Pietro né Travaglio né pm che ci salvi; né dalla corruzione né dalle mafie.


IL REUCCIO E LO SPECIAL ONE

 Il reuccio e lo special one, Emanuele Filiberto e Josè Mourinho. Due personaggi in un certo senso speculari: poichè le reazioni che suscitano compongono un’istantanea perfetta del nostro Paese.

Il consenso popolare crescente del principe di casa Savoia, che prima aveva vinto Ballando sotto le stelle e che ora minacciava di aggiudicarsi anche il Festival di Sanremo, ha suscitato un timore altrettanto crescente. Timore per la qualità della canzone italiana? No: timore per la tenuta della democrazia italiana!

Non scherzo. Se è vero, come è vero, che Giovanni Maria Bellu, condirettore dell’Unità, è arrivato a scrivere: “Lo confessiamo. Abbiamo assistito con una certa apprensione alla fase finale del Festival di Sanremo. Col timore, per dirla tutta, che un plebiscito annullasse simbolicamente il referendum istituzionale del 1946”.

Capite qual’era l’angoscia del quotidiano fondato da Antonio Gramsci? Se la giuria popolare “incoronava” Emanuele Filiberto al Festival dei fiori, si ritornava alla monarchia! Magari con Pupo Ministro della real casa…E non è che questo timore serpeggiasse solo all’Unità. Come dimostra il fatto che molti hanno applaudito alla rivolta degli orchestrali, quasi che fossero saliti sulle barricate a difendere la Repubblica col lancio degli spartiti. (Serena Dandini: “Ho adorato la ribellione degli orchestrali”). E così, per non correre rischi, pare siano arrivati a taroccare il voto popolare buttando il reuccio giù dal podio del primo posto.

Una vicenda che ci fa capire – questo sì – quanto sia fragile la nostra democrazia, in balia perfino del risultato di un festival della canzone. In un Paese che non riesce nemmeno più a distinguere la simpatia popolare che può suscitare un bel ragazzo educato (una specie di Brad Pitt col volto più scavato) dal suo ruolo politico improbabile per non dire inesistente. Non si tratta infatti di un Asburgo né di uno Windsor, ma del rampollo della dinastia più sputtanata d’Europa.

Eppure il nostro Paese ha paura perfino di Emanuele Filiberto di Savoia. Ed ecco perchè, solo in questo nostro Paese, lo special one, cioè Josè Mourinho, si permette comportamenti, frasi, dichiarazioni e gesti, che mai esternerebbe in un altro Paese.

Il tecnico portoghese, come noto, ha allenato per due anni abbondanti il Chelsea. Ed anche allora ha polemizzato e offerto spunti ai giornalisti sportivi. Mai però, finché è stato in Inghilterra, si è abbandonato alle sceneggiate napoletane; mai ha fatto il gesto delle manette né detto che il Machester gioca con un area di rigore più grande delle altre squadre. Sapeva di non poterlo fare in un Paese serio.

L’intelligenza viene definita come la capacità di comprendere situazioni tra loro diverse e di sapercisi adattare di conseguenza. Mourinho è di sicuro un uomo intelligente. Quindi in Inghilterra si comportava da inglese, in Italia da Pulcinella. Perchè sa di essere nella Repubblica delle Banane che teme perfino il reuccio che fa il golpe con la marcia da Sanremo…


SMOG, UNA DOMENICA ITALIANA

Se domenica prossima, 28 Febbraio, verrà accolto l’appello bipartisan Moratti-Chiamparino per un blocco delle auto in tutto il Nord Italia, se sarà così, assisteremo alla perfetta domenica italiana: cioè ad un rito assurdo, farcito di ipocrisia.

Capita che la realtà si imponga al punto di non poterla negare. E quindi nessuno osa sostenere che una giornata di blocco delle auto avrà un qualunque effetto pratico in quel bacino chiuso che è la Pianura padana; dove nessuno può comunque bloccare il traffico autostradale e dove le fonti di inquinamento sono anche diverse altre, a partire dagli impianti di riscaldamento.

Non potendo raccontarci la balla spudorata che produca un qualche risultato, ci spiegano che il blocco auto è comunque “educativo”; servirebbe cioè ad abituarci ad andare a piedi o in bicicletta. Ma anche questa è una sciocchezza, come ben dimostra l’esempio padovano. Per anni l’amministrazione comunale aveva provato ad “educare” di domenica i suoi amministrati mandandoli a piedi; cittadini che però, il lunedì, tornavano puntualmente “maleducati” cioè in auto. Finché è arrivato il tram e, a quel punto, senza bisogno di ulteriori corsi di bon ton, molti padovani hanno lasciato l’auto a casa e preso il tram…

Questo a dimostrazione che l’educazione non serve a nulla se non offri alternative concrete, cioè se non metti a disposizione dei cittadini un trasporto pubblico moderno ed efficiente. Nelle grandi città, dove puoi spostarti in metropolitana, nessuno si sogna di prendere l’auto. E non serve alcuna “educazione”. Mentre sarebbe servito che Galan, invece di cazzeggiare per 15 anni, si fosse impegnato a far decollare in Veneto quel sistema metropolitano di superficie. Solo così sarebbe diminuito il traffico auto anche extraurbano. Servirebbe spostare sempre più traffico passeggero e merci dalla gomma alla rotaia, no-tav permettendo…Servirebbero le centrali nucleari “unica energia sicura e pulita” (Obama dixit)…

Servono insomma volontà politica, determinazione, e ingenti risorse pubbliche; anche per favorire il passaggio ad impianti di riscaldamento meno inquinanti. Risorse che non ci sono, volontà e capacità politiche che latitano. Mentre le chiacchiere, le proposte folcloristiche, le domeniche senza auto, non costano niente…Anzi, un costo ce l’hanno eccome: danno una mano a piombare ancor più nella recessione, bloccando i consumi di centri commerciali, ristoratori e turismo in genere. Questo è l’unico risultato garantito.

Nessuno lo sa meglio dei sindaci. I quali però sanno bene anche un’altra cosa, sanno cioè di essere vittime di un’incongruenza tipicamente italiana. Perchè sono titolari di una funzione complessa e delicata, senza avere le risorse adeguate; ma avendo, in compenso, la spada di Damocle della denuncia che pende sul loro capo: devono, dovrebbero, tutelare la salute pubblica minacciata dall’inquinamento; non hanno le risorse per adottare misure serie; ma devono comunque fare (far finta di fare) qualcosa per evitare una denuncia per omissione d’intervento. E così intervengono con l’inutile pagliacciata della domenica auto stop.

Ditemi voi se non è tipicamente italiano l’attivare un intervento del tutto inutile, che però ti mette al riparo dall’accusa di…non esserti attivato! (e dalla conseguente denuncia penale). Ecco perchè quella del prossimo 28 Febbraio, se si farà, sarà proprio una domenica italiana.


MAFIE E BANLIEUE, LO STATO NON C’E’

 

 

La prima cosa che colpisce in quanto accaduto a Milano in via Padova è che gli immigrati, in piena “capitale morale”, si comportano esattamente come i criminali nostrani nelle regioni dominati dalle mafie. In Campania, in Calabria, in Sicilia la giustizia fai da te è all’ordine del giorno: se ammazzi un picciotto del mio clan non ti denuncio ad uno Stato – che non c’è, che non riconosco, che non temo – ma mi vendico direttamente su un uomo del tuo clan.

Lo stesso è accaduto a Milano dove gli africani, dopo che uno dei loro era stato ammazzato dai sudamericani, hanno dato l’assalto ai negozi e cercato la vendetta su questi ultimi. Non uno che abbia pensato di andare al commissariato di polizia a denunciare l’accaduto. E qui va marcata la differenza. Contrariamente ai mafiosi e a questi stranieri, per quanto veneti, lombardi o emiliani siano stati trucidati e stuprati, mai un cittadino del Nord pensa di farsi giustizia andando lui a caccia dell’autore del delitto.

Noi deleghiamo questo compito allo Stato. Nella speranza, nell’illusione che questo Stato ci sia… Non certo per giustificarli, solo per capire, va aggiunto che con certi stranieri violenti lo Stato non c’è, non esiste. Passano alle vie di fatto, ritengono di potersi fare giustizia da se, perchè non sentono la presenza dello Stato, non lo temono; per loro è come se non esistesse. E purtroppo hanno ragione. Lo Stato non c’è a Milano in via Padova, come non c’è nelle regioni dominate dalle mafie.

Su una cosa maggioranza e opposizione concordano pur litigando: la Bossi-Fini ha fallito. La maggioranza dice per colpa dei magistrati che l’hanno sabotata, l’opposizione perchè la legge sarebbe sbagliata in se. Fatto sta che non è riuscita a governare i flussi migratori. Sarebbe utile che maggioranza e opposizione concordassero anche sui rimedi da adottare, partendo da un presupposto semplice semplice: uno Stato esiste solo se è in grado di farsi temere, di punire chi non lo vuole riconoscere. Questo vale in Calabria come a Milano. Dovrebbe valere per Maroni come per Bersani e Di Pietro.

Altrettanto chiaro è che la repressione non basta. E’ imprescindibile, ma non basta. Ci vogliono anche politiche di integrazione. Ed è molto significativo che proprio Maroni abbia riconosciuto i successi conseguiti da un avversario, il sindaco pd di Padova Flavio Zanonato, nello smantellare il ghetto di via Anelli.

E’ però del tutto inutile blaterale a vuoto di integrazione se non diciamo con chiarezza dove troviamo le risorse per finanziarla. I governi centrali non hanno stanziato una lira; i sindaci si sono ritrovati con le banlieue piene, i cittadini infuriati e le casse sempre più vuote. Chi paga le spesi ingenti per le politiche dell’integrazione? I contribuenti con un’apposita aliquota irpef? Le organizzazioni datoriali che assumono manodopera straniera? Gli stranieri regolari con le loro tasse? Chiariamolo una volta per tutte.

E, nel frattempo, consegniamo ad un silenzio di tomba quelle associazioni, religiose e laiche, che, sbandierando l’accoglienza, hanno lucrato stipendi e stipendiucci per i loro addetti e dispensato qualche briciola residua agli immigrati.


 

MA IL PENSIERO NON E’ REATO

 

 

Di fronte alla vergogna delle intercettazione telefoniche che puntualmente, anche col caso Bertolaso, vengono date in pasto all’opinione pubblica, di fronte a questa barbarie, minimo bisogna ricordare che il pensiero non è reato. E che quelli intercettati, trascritti e prontamente passati ai giornalisti per la pubblicazione, sono appunto pensieri. Magari loschi, magari cinici, ma pur sempre pensieri. Mentre è solo con le azioni che si possono compiere reati.

Siamo alla distinzione che, al tempo della confessione, ci facevano i sacerdoti più illuminati: non si pecca – dicevano – pensando agli atti impuri, si pecca commettendo gli atti impuri. Così i tifosi della santa inquisizione giudiziaria dovrebbero ricordare che non c’è reato finchè pensiamo di ottenere un appalto in modo truffaldino, ma solo se nei fatti lo otteniamo con la corruzione. Caso esemplare quello del consigliere comunale Pdl di Milano colto in flagranza di reato non perché parlava di tangenti al telefono, ma perchè ne incassava una da diecimila euro.

Adesso, con il caso Bertolaso, abbiamo toccato il fondo. Siamo cioè arrivati a mettere alla gogna anche un semplice pensiero cinico, che nemmeno prefigurava un’ipotesi di reato. Mi riferisco al costruttore De Vito Piscicelli e alla pubblicazione della sua telefonata col cognato; telefonata in cui, alla notizia del terremoto, si compiace per l’opportunità che si prospetta con i lavori per la ricostruzione. Pensiero indubbiamente cinico, che ha suscitato immediate e corali reazioni sdegnate da quei sepolcri imbiancati che siamo un po’ tutti noi; al punto che ora i due rischiano la lapidazione se dovessero farsi vedere in giro…

Parlo di sepolcri imbiancati perché fingiamo di ignorare che, a livello di pensiero, il cinismo si spreca un po’ ovunque. Ma De Vito Piscicelli, come tutti noi, deve appunto rispondere delle sue azioni non dei pensieri cinici o laidi. E siamo molto più laidi ( e ipocriti) di lui se lo mettiamo alla gogna per i suoi pensieri cinici.

Faccio un solo esempio nell’ambito giornalistico. Quando arriva in redazione la notizia di un feroce omicidio, magari anche accompagnato da stupro e violenze varie, capita proprio di compiacersene e dire: finalmente un notizia degna di questo nome, un fatto che colpisce il lettore e il telespettatore; finalmente possiamo aprire il telegiornale con un servizio di sicuro impatto! Non come ieri che abbiamo dovuto accontentarci di quella conferenza stampa pallosa che non interessava a nessuno…Così reagisce e pensa anche il giornalista, ma non vuol dire che abbia commesso lui l’omicidio e lo stupro. Allo stesso modo ci sta che il costruttore per prima cosa pensi al business della ricostruzione, ma non vuol dire che il terremoto e le vittime le abbia provocati lui.

La cosa oscena delle intercettazioni pubblicate è che mettono in piazza quei pensieri laidi che tutti noi facciamo. Tutti noi, non solo gli intercettati. Mi rendo conto che le intercettazioni possono essere utili, anche fondamentali per le indagini. E quindi non mi sogno di dire che vanno proibite. Devono però essere solo lo spunto per una verifica, che può dare risultati ma anche no. Altrimenti siamo a Spatuzza, siamo a Ciancimino jr, siamo al letame buttato subito sul ventilatore per paura che risulti solo paglia e non faccia più effetto.

E, in attesa della verifica, del confronto sulle prove fatto con la difesa, le intercettazioni vanno secretate. Va impedita la divulgazione. Poco conta chi è a passarle ai giornali: se sono gli avvocati, vanno radiati dall’ordine; se sono i magistrati basta metterli in cassa integrazione con lo stipendio dei cassintegrati. Facessimo così, non uscirebbe più nemmeno una riga.

Non vi pare che dovrebbe restare almeno questo baluardo a difesa della civiltà giuridica? O dobbiamo continuare a considerare il pensiero comunicato per telefono un delitto consumato?

 


DA VANNA MARCHI A GENCHI

 

Antonio di Pietro, al congresso del suo partito ha paragonato Berlusconi a Vanna Marchi, dando in pratica dell’imbonitore al premier e degli allocchi ai cittadini che lo votano, perchè sarebbero incapaci di comprendere che le sue sono solo bugie. Ammesso, e non concesso, che sia così, dovrebbe comunque essere chiaro che il problema non sono mai le tante Vanna Marchi, ma lo stuolo degli adepti che – con la propria “fede” cieca – permettono loro di esistere. E Di Pietro ne ha avuto la conferma, sempre al congresso dell’Idv, con l’intervento di Gioacchino Genchi.

Come sappiamo Genchi ha sostenuto che l’aggressione a Berlusconi in piazza Duomo non c’è stata. Ci sarebbe stata solo la messa in scena di un premier al capolinea che, con un gioco di prestigio da mago Silvan, si è cosparso il volto di finto sangue riconquistando così il consenso popolare ed evitando le dimissioni…

Il problema non è Genchi e le sciocchezze che ha detto. Il problema è la standing ovation che gli ha tributato l’intera platea dei delegati al congresso dell’Italia dei Valori. Non parliamo di elettori, del popolo bue che può esserci in ogni partito, ma dei quadri dirigenti, della “crema” dell’Idv. Ma una crema talmente pervasa dalla fede cieca dell’antiberlusconismo, da essere pronta a negare la realtà vista in diretta televisiva per sostituirla con una ricostruzione fondata sul nulla. Anzi fondata sull’odio.

Esattamente come la fede cieca anti Usa, e anti ebraica, porta ad affermare che l’attentato alle Torri Gemelle se lo sono organizzato gli americani, dopo aver avvertito gli ebrei; tant’è che tra le migliaia di morti nemmeno uno sarebbe stato della loro razza…Anche qui il problema non è chi propala questa teoria strampalata, ma che ci crede ed è pronto ad avvallarla.

Così è comprensibile che uno Stato faccia come (e peggio di) Vanna Marchi e lanci la “tassa degli asini” – cioè lotterie, Enalotto, Gratta e vinci – ma il problema sono gli asini che ci cascano e corrono a comprare i biglietti ed a grattare, convinti di diventare “turista per sempre”…

Tornando al congresso dell’Idv è singolare che Di Pietro dia della Vanna Marchi a Berlusconi subito dopo aver visto lo stato maggiore del suo partito che si spella le mani per Vanna Marchi alias Gioacchino Genchi.

Senza aggiungere un’altra differenza che va sottolineata: Vanna Marchi è inquisita dalle procure, mentre Gioacchino Genchi – come scrive il Corriere – “è consulente informatico delle procure di mezza Italia”. Di mezza Italia, non solo dell’ex procuratore Luigi De Magistris…Dopo di che per le sentenze speriamo non spunti il mago Silvan.

PEGGIO IL GOVERNO DELLA FIAT

 

 

 

Siamo alla farsa della sceneggiata napoletana: il governo offre una nuova rottamazione alla Fiat, Marchionne (incredibile a dirsi!) rifiuta gli incentivi, ma il governo insiste e lo prega di accettare. Magari fosse una farsa. Purtroppo è la realtà, con l’aggravante che il capo di questo governo non è Mario Merola ma uno che è un imprenditore, che non perde occasione per dirsi liberale, e che quindi dovrebbe conoscere e rispettare il mercato. Soprattutto dovrebbe sapere che l’assistenzialismo, l’elargizione di denaro pubblico, non hanno mai risolto un problema economico. Anzi: l’hanno sempre aggravato, perchè hanno rimandato nel tempo la ricerca di soluzioni vere.

Mettiamo una pietra sopra al passato, cioè a tutte le regalie fatte per decenni alla Fiat. (Con buona pace di quello spudorato mentitore di Montezzemolo che proprio oggi vuole farci passare per fessi affermando di non aver “mai ricevuto un euro dalla Stato”). Prendiamo atto che oggi l’amministratore delegato non ci sta’ a distruggere ulteriormente l’azienda che è chiamato a risanare. Non vuole più la rottamazione alla luce di un ragionamento cristallino: ci sarà comunque una forte contrazione nella vendita delle auto, drogare il mercato con gli incentivi serve solo a vendere qualche macchina in più oggi per venderne comunque molte meno domani, e inoltre si ritardare l’avvio di una drastica riconversione che resta comunque l’unica soluzione; quindi è solo un danno, perchè fa solo perdere tempo.

E nulla dimostra e conferma l’assunto meglio della tragedia del nostro Mezzogiorno. Dove decenni di assistenzialismo dissennato, che oggi Luca Ricolfi è arrivato a quantificare in 50 miliardi di euro l’anno saccheggiati alle regioni del Nord per trasferirli in quelle del Sud, è servito solo a rinviare alle Calende greche il decollo di un’economia autosufficiente del Meridione (che cinquant’anni fa poteva partire, mentre oggi è 50 volte più arduo). Con l’aggravante che là non c’è ancora un Marchionne che dica basta. Là abbiamo uno Schifani che invoca ulteriori e massicce dosi di coca per tenere in vita Termini Imerese…

Ma immaginiamo, per un attimo, un Raffaele Lombardo che avesse la lungimiranza di Marchionne e dicesse basta droga! Basta con l’assistenzialismo che distrugge la Sicilia! Sarebbe concepibile un Formigoni che replicasse dicendo no? Insistendo perchè la Lombardia continui a dissanguarsi inutilmente? Inimmaginabile. Mentre proprio questo sta facendo il governo Berlusconi con la Fiat: insiste per continuare a drogarla a spese della collettività.

Senza aggiungere che Termini Imerese, con i suoi 1.370 dipendenti, è solo la minima parte di un problema ben più vasto che ci mostrano le tabelle pubblicate in questi giorni da molti quotidiani: la Fiat in Italia ha 22 mila dipendenti che producono 6 mila auto l’anno, mentre negli stabilimenti polacchi lo stesso numero di auto viene prodotto da soli 6 mila dipendenti, meno di un terzo di quelli italiani! Il che significa che tutti gli stabilimenti italiani hanno una produttività talmente bassa che non consentono all’azienda di essere competitiva sul mercato mondiale dell’auto. E quindi il problema non è chiuderne uno, ma tenere ancora aperti gli altri.

Il costo del lavoro come “variabile indipendente” era uno slogan, una bestemmia economica, del sindacalismo sessantottino che tutti, anche i sindacati, hanno fratto finta di aver archiviato. Invece è la realtà operante da decenni nella nostre grandi aziende. Perchè aver ignorato i seri controlli di produttività, il raffronto con quella degli altri Paesi industriali, ha significato proprio questo: trasformare il costo del lavoro in una variabile indipendente. (A prescindere dall’entità, modesta, dell’importo che va in tasca al lavoratore).

Questo dovrebbe avere il coraggio di denunciare Scajola, questo dovrebbe dire un governo guidato da un imprenditore. Invece abbiamo un governo, peggiore della Fiat, che vuole continuare a drogarla; illudendosi di così di sviare la protesta popolare di chi perde un posto di lavoro indifendibile.

CHE DIO SALVI JOHN TERRY

 

Dio salvi la regina, naturalmente; e possibilmente anche John Terry il giocatore del Liverpool, capitano della nazionale inglese di calcio, che nel suo Paese è divenuto un autentico affare di Stato per una vicenda che ricorda molto da vicino i tanti nostri sex-gate.

Terry ha tradito la moglie e anche la fiducia di un suo compagno di squadra andando a letto con la sua compagna. Un comportamento che ha scandalizzato l’Inghilterra; al punto che è intervenuto perfino il ministro dello sport inglese che ha intimato a Terry di rinunciare alla fascia di capitano della nazionale. E adesso si aspetta che sia il nostro Capello a degradarlo.

(Prendiamo atto che gli inglesi ai simboli ci credono e li rispettano sul serio: per loro la bandiera è la bandiera, la fascia di capitano va onorata pure quella. Mentre noi facciamo finta, quando ci ricordiamo di far finta…)

Ogni volta, di qua e di là della manica, si invoca la separazione tra vita privata e ruolo pubblico: un giocatore va giudicato per quello che combina in campo, non se è fedele o meno alla moglie; un premier per ciò che combina a Palazzo Chigi, non per chi riceve nei dopo cena a Palazzo Grazioli; un chirurgo per come usa il bisturi, non per la tresca con la caposala. Ma puntualmente questa distinzione teorica salta e ci scandalizziamo. Ci scandalizziamo per cosa?

Il caso di Terry diventa emblematico, perchè nel comportamento del calciatore non è lontanamente ipotizzabile un qualunque reato (l’adulterio resta reato solo nel mondo islamico). Eppure, anche senza reato, basta il peccato per arrivare alla condanna sociale. In Gran Bretagna si vuole che quantomeno i simboli – i reali, i politici, i capitani della nazionale – abbiano comportamenti esemplari, cioè non commettano quelli che vengono giudicati “peccati” nella sfera delle relazioni personali.

E forse anche noi abbiamo la stessa pretesa: ci scandalizza che Delbono abbia usato i soldi pubblici per le vacanze d’amore o che un sindaco abbia l’amante? Condanniamo Marrazzo perchè andava a trans con l’auto blu o perchè tradiva la moglie con i trans? E Berlusconi, è accettabile che un premier passi la notte con una puttana sia pure pagata da altri? Magari lo accetta Veronica, che così alza l’importo del tfr…Ma nel comune sentire di noi cittadini che reazioni suscitano questi dettagli di vita privata dei personaggi pubblici?

Siamo o no molto simili agli inglesi? Cioè molto più bigotti di dentro, di quanto vogliamo far credere all’esterno con certe dichiarazioni tanto aperte e tolleranti verso ogni forma di trasgressione sessuale? Mi viene in mente una vecchia canzone di Gaber: “ Aveva tante idee/ era un uomo d’avanguardia/ si vestiva di nuova cultura/ cambiava ogni momento/ ma quand’era nudo/ era un uomo dell’Ottocento”.

Forse siamo rimasti uomini (e donne) dell’Ottocento anche nel 2010. Che Dio salvi la Regina, John Terry e possibilmente anche noi poveri peccatori…

BERLUSCONI E L’ACQUA CALDA

 

Berlusconi non può nemmeno dire che l’acqua è calda che subito viene aggredito dall’opposizione. La quale non capisce che non aggredisce il premier bensì il buon senso, cioè quel filo sempre più tenue che la lega al proprio elettorato. Affermare – come ha fatto Berlusconi – che c’è una correlazione tra numero dei clandestini e la criminalità è, appunto, scoprire l’acqua calda; ossia dire un’ovvietà da tutti condivisa.

E’ infatti chiaro che i clandestini, non potendo vivere con un lavoro regolare e avendo come alternativa solo opportunità di impiego in nero con retribuzioni e condizioni di vita “alla Rosarno”, sono tentati di dedicarsi ad attività illegali dai furti allo spaccio di droga. Fanno loro quello che saremmo indotti a fare anche noi trovandoci nella medesima condizione. Anche noi diverremmo una potenziale manovalanza del crimine. Non a caso tutta la nostra emigrazione negli altri Paesi europei era strettamente legata alle opportunità di lavoro, proprio per non avere quella massa di sbandati che invece oggi vediamo nelle nostre città.

Eppure l’opposizione lancia al premier l’accusa di razzismo, gli imputa di aver usato “parole e toni volgari”. Se dire che l’acqua calda è calda, Berlusconi è stato indubbiamente volgare. Ma lo sono tanti altri cittadini, non solo quelli che votano centrodestra, anche gli altri schierati col centrosinistra. Tutti convinti – nella loro volgarità – che troppi clandestini comportino seri problemi per la sicurezza. Il problema non è più Berlusconi, ma capire quando mai questa opposizione potrà diventare maggioranza di governo.

La questione l’ha messa a punto molto bene un telespettatore intervenuto nei giorni scorsi quando si parlava della promessa mancata di riduzione delle tasse. Questo telespettatore – molto scettico e disincantato sulla possibilità che venga mai fermata l’immigrazione clandestina, attuato il federalismo fiscale, ridotte le aliquote Irpef e via dicendo per tutto il programma di riforme Pdl-Lega – osservava però che il centrodestra, magari non combinerà nulla, ma almeno è chiaro cosa vorrebbe fare. Appunto: fermare i clandestini, ridurre le tasse, riequilibrare la distribuzione delle risorse Nord-Sud. Mentre del centrosinistra nemmeno più si capisce cosa vorrebbe fare (a parte mettere Berlusca in un pentolone e mangiarselo bollito).

E, sempre il telespettatore, aggiungeva l’esempio preciso di una Bossi-Fini che certamente è un colabrodo, che giustamente l’opposizione critica. Ma, mentre è chiaro che il centrodestra la vorrebbe più rigida ancora, del centrosinistra non si capisce se la critica perchè troppo restrittiva o perchè troppo permissiva.

L’opposizione fatica perfino a dirci se l’acqua calda è calda. In compenso la Conferenza episcopale non ha dubbi e il segretario, mons Crociata, garantisce: “I nostri dati dimostrano che le percentuali di criminalità di italiani e stranieri sono analoghe”. E qui, per cominciare, apprendiamo che la Chiesa ha i suoi dati. Dati che pensavamo avessero solo il ministero degli Interni o quello di Grazia e Giustizia. Si vede che sono ancora attivi la polizia papalina e i tribunali dello Stato pontificio…

Ma, al di là della sorpresa, osiamo pensare che, forse, i vescovi dovrebbero occuparsi di altri dati e altre percentuali che per loro sembrerebbero prioritari: quelli relativi alla presenza dei fedeli alla celebrazione della domenica. Noi, per carità, dati precisi non ne abbiamo. Abbiamo però l’impressione che la presenza dei fedeli in chiesa sia inversamente proporzionali all’affollamento di stranieri nelle carceri.