Se l’ivoriano Didier Drogaba diventa "inglese", dobbiamo concludere che è determinante nella formazione di ognuno il Paese dove vivi e non quello dove sei nato. Ammesso, e non concesso, che un Paese sappia formare le persone.
Fin’ora questo grande centravanti del Chelsea aveva atteggiamenti tipici dei calciatori latini: sceneggiate a non finire ogni volta che subiva un fallo, proteste plateali nei confronti degli arbitri (sembrava un Totti o un Inzaghi, tanto per capirci) al punto che è stato espulso anche di recente dopo l’ennesimo litigio con un direttore di gara. Ma adesso non lo farà più, lo ha assicurato in un’intervista alla Gazzetta dello sport dove ha spiegato che è stato suo figlio a rimproverarlo dicendogli che non si deve mai discutere con gli arbitri!
E’ un cardine della cultura calcistica inglese che, anche per questo, la rende profondamente diversa dalla nostra: giuste o sbagliate, le decisioni degli arbitri si accettano senza protestare e si continua a giocare invece che perdere tempo a polemizzare. Nessun calciatore inglese discute col direttore di gare e tanto meno lo insulta, lo manda a vaffa…, come invece succede ogni domenica nei nostri stadi.
Ma la cosa notevole è che questo principio, squisitamente inglese, sia stato recepito dal figlio di Drogba un bambino di soli otto anni che da cinque vive in Inghilterra. Recepito al punto che lui è diventato il maestro, l’educatore, di suo padre. Significa che in quel Paese certi principi di civiltà calcistica li respiri nell’area, permeano l’esistenza quotidiana, “impregnano” chiunque viva là. E questo vale non solo per il calcio ma per tutti gli altri principi che stanno alla base di una civile convivenza: l’educazione che ti da, o non ti da, un Paese è fondamentale.
Anzitutto per questo, credo, quasi non ci si accorge dei milioni di turchi che vivono e lavorano in Germania: perchè sono diventati tedeschi. Così come sono diventati austriaci i membri di quella comunità bosniaca, che ho conosciuto anni fa a Linz, i quali mi hanno portato a vedere i monumenti della città con lo stesso orgoglio come se si fosse trattato della loro città natale .Ed erano talmente inseriti da preoccuparsi di fare loro da filtro sui nuovi arrivi: per essere certi che a Linz venissero a lavorare solo bosniaci seri che non li facessero sfigurare agli occhi dei concittadini austriaci…
In una splendida intervista a La Stampa il regista Pupi Avati sostiene che la disgregazione della società italiana è cominciata dalla famiglia per poi riversarsi sulla politica, sulla scuola, sulla stessa Chiesa. Non so se tutto parta dalla famiglia. Ma concorso sul risultato finale: siamo una società disgregata, dove nessuno più riesce ad esercitare un ruolo educativo. Trovo patetico il timore espresso ieri da Giorgio Israel sul Giornale; timore che gli insegnanti di sinistra, attraverso l’ora di educazione civica, arrivino a indottrinare gli studenti al culto dello Stato e della Costituzione. Magari arrivassero ad indottrinarli, a catechizzarli. Perchè sarebbe già qualcosa…Mentre oggi è peggio. Nel senso che qualunque cosa dica oggi ai nostri giovani la scuola, la famiglia, la Chiesa, l’informazione, la politica, tutto scorre su di loro come l’acqua sull’impermeabile senza lasciare traccia.
Il nostro è appunto un Paese che non sa più educare. Nemmeno i propri cittadini. Figuriamoci gli stranieri. Da noi Drogba sarebbe rimasto ivoriano, continuando a mandare affa…l’arbitro proprio come un Totti qualsiasi.