Sento dire che siamo sfortunati. Di certo non ci gira dritta. Ma davvero vogliamo passare la vita (la stagione) a commiserarci? Certo, è un balsamo rassicurante, auto-assolutorio, che ci allontanata da inquietudini e conflitti interiori. Sentimenti fastidiosi, quelli, complessi da vivere, mica una passeggiata di salute. Epperò sentimenti che, se gestiti nel modo giusto, possono essere sani, costruttivi. Poi, per carità, possiamo continuare a buttarla sul fato, la cattiva sorte: ma siamo sicuri che sia la via maestra? Minimizzare aiuta? Mah.
Credo che sia più salutare la presa d’atto dei propri errori, che pure ci sono, perché dieci partite (12 con la Coppa Italia) senza vittorie, con sei gol fatti e 16 subiti, non possono essere imputabili (solo) alla sfortuna. Il punto è che il Verona è organizzato, ha buone trame e una discreta identità, ma manca clamorosamente nei dettagli. Che poi in serie A sono quelli che fanno la differenza e segnano le stagioni. Il dettaglio, per esempio, di non mettere degli uomini in marcatura fuori area nei corner (primo gol dell’Inter); il dettaglio, se vogliamo, di non fare pressing su Barella al 94° e dargli modo e tempo di crossare comodamente (la sfortuna è l’autogol di Frese, ma non è sfortuna la situazione che l’ha creata). Il dettaglio di approcci troppo morbidi alle partite, con la conseguenza di subire gol nei primi minuti (con Lazio, Juve, Como e Inter). Il dettaglio di schiacciarsi troppo indietro nei momenti caldi, andando così nel panico per prestare il fianco facilmente a gol in zona Cesarini (con Cagliari, Como e Inter) – segno questo di fragilità emotiva e scarsa personalità.
Il diavolo si annida nei dettagli. Meglio rendersene conto in fretta, altrimenti continueremo a buttare via punti e occasioni. E, certo, ci faranno e ci faremo i complimenti. E ci diranno e ci diremo che siamo belli da morire. Ma non c’è niente di più beffardo delle pacche sulla spalla che riceve un vinto. E’ un falò delle vanità che brucia in fretta il vano narcisismo.

