ZANZI(BAR)

A Zanzibar dicono “pole pole” (che in swahili significa adagio adagio) e “Hakuna Matata” (no pensieri/no problemi). Un linguaggio, uno stile di vita. Fatto suo, ieri, scusate il gioco di parole, anche da Zanzi, di nome Italo, il nuovo presidente esecutivo del Verona, 50enne avvocato, manager, fu sportivo ed ex politico, che nel 2006 – ai tempi della sua candidatura alle elezioni di Midterm con i Repubblicani a New York (dove è nato) – venne definito dal progressista New York Times “carismatico, istruito, combattivo e anche glamour”.

E, aggiungo, tuttora “politico”. Già, perché ieri la montagna ha partorito il topolino.  L’attesa conferenza stampa dell’ex Ceo della Roma, in un divertente italiano spagnoleggiante (i suoi genitori sono cileni e ha lavorato a lungo con l’America Latina), non ha chiarito per nulla cosa è, cosa vuole e come agirà Presidio Investors, il fondo d’investimento da poco proprietario del club.

Zanzi, uomo brillante, educato, affabile, pragmatico e camaleontico – nel 2008 sostenitore sfegatato di McCain contro Obama, pochi anni dopo a cena accanto all’allora presidente degli Stati Uniti in una serata romana – ieri è stato vago, generico, quasi ineffabile, impermeabile alla sostanza. Non ha svelato alcun dettaglio economico, né dell’acquisizione né sulle future ricapitalizzazioni per dare slancio al progetto (“i termini sono riservati”). Ha detto che la società ha potenzialità commerciali, ma non ha chiarito come avverrà l’up grade; sullo stadio ha ammesso non esserci nulla di concreto e che comunque non è cruciale e non rientra nel business plan; ha detto che Presidio ha fiducia nella squadra (“ha potenziale”) e non c’è la paura di retrocedere, salvo non specificare quale sarebbe il piano qualora accadesse (si è limitato a un “siamo pronti in qualsiasi caso”). Certo, ha definito “infelice” l’uscita pubblica di Setti su Belahyane e Lotito, ma quello è sembrato un bonario rimbrotto (“non facciamo drammi”), il minimo sindacale date le circostanze, più che una reale presa di distanza. È stato sfuggente sul futuro dello stesso Setti, definito – con una certa ambiguità nel sottotesto – “consulente esterno”, mentre è parso più deciso sulla centralità di Simona Gioè (dg) e Sean Sogliano (ds); e non si è pronunciato sul futuro tecnico del Verona (“è prematuro parlare della prossima sessione di mercato”).  La conferenza si è chiusa con il trito e ritrito “appello” agli imprenditori veronesi ad “entrare nel progetto” (quale?) investendo come sponsor. 

Insomma, ancora non ci è dato a sapere qual è la leva economica-finanziaria, il motivo di business che giustifica l’acquisto del club, dal momento che non è lo stadio e assodato che i ricavi li incrementi restando in serie A (eppure a gennaio la squadra, in lotta per non retrocedere, è stata indebolita). Sappiamo invece, come ha riportato Calcio e Finanza, che è stata creata una catena di controllo che da Austin, dove ha sede il fondo e dove è ubicata l’attività centrale, passa anche per società in Delaware e Lussemburgo. Tutto molto finanziario e complesso.

Il resto, dicevamo, rimane ignoto e non chiarito da Zanzi in un’ora di conferenza. A proposito, viene in mente quel cronista che a fine anni 80 intercettò in Transatlantico a Montecitorio l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani dicendogli: “Lei parla molto senza dire niente”. E l’altro di rimando: “Potrei andare avanti per ore”.

IL VERONA NON È PIÙ DI SETTI, MA (DI FATTO) È ANCORA DI SETTI

“Praticamente continuo a fare tutto io” ha detto ieri Maurizio Setti a una testata online laziale.  “Ma lo dico in senso buono…” ha aggiunto. Tu pensa se lo diceva con cattive intenzioni…

Dichiarazioni che lasciano storditi tifosi e opinione pubblica veronese, che pensavano che con l’arrivo del fondo americano, Setti, al di là delle fumose (e inglesizzanti) formule embedded (o cazzo! un inglesismo…), fosse da appuntare alla voce passato.

E invece Maurizio è sempre tra noi, fiero, perfino loquace ora (con i colleghi laziali), uno che andreottianamente “si eclissa ma non tramonta mai” (come raccontavano ammirati dall’inner circle del Divo Giulio), e non manca di dircelo – in senso buono, s’intende – giusto appunto per fugare i dubbi di chicchessia, rispedire al mittente prematuri epitaffi e segnare il territorio.

Del resto, il calciomercato ha seguito il medesimo copione: vendo quelli forti (o “regalo” citando proprio Setti su Belahyane alla Lazio), compro a pochi soldi scommesse in giro per il mondo (affidandosi all’intuito di Sogliano).

Solito Setti, solito mercato, solita gestione rasoterra, consueti affari con Lotito: gattopardianamente è cambiato tutto (Presidio Investors) per non cambiare nulla (Setti e il “praticamente continuo a fare tutto io”). Tradotto: il Verona non è più di Setti, ma di fatto è ancora di Setti. Sembra uno scioglilingua, un labirinto concettuale per sinapsi forti, nasconde però un connubio esistenziale che pare inscalfibile: si possono costruire tutti i perimetri societari di questo mondo, nominare board con tizio e caio, dagli States alla Germania, ma Setti è il Verona di quest’epoca, si è preso il suo corpo e pure la sua anima. Perché fa quel che vuole, pure “regalare” Belahyane, e lo sbandiera pure ai quattro venti. Mentre dagli Stati Uniti giunge il rumoroso (rumorosissimo) silenzio di Presidio Investors.    

LA NUOVA PROPRIETÀ? SITUAZIONE SFUGGENTE, IGNOTA, IMPALPABILE (PER ORA)

Adda passà ‘a nuttata. Davvero ci viene in soccorso l’arte eterna di Eduardo De Filippo per raccontare i “dolori” del Verona di oggi. Il vecchio Hellas è preso in mezzo tra le incognite della nuova proprietà americana; uno spogliatoio che fino al 3 febbraio, fine del calciomercato (e anche oltre se non si rinnovano o cedono i calciatori in scadenza), rischia di essere scambiato per un porto di mare; e un allenatore – Paolo Zanetti – volonteroso, professionale, di indubbia dirittura morale, ma che non riesce a dare quel valore aggiunto a una squadra che varrebbe di più, e comunque troppo piccolo per dinamiche (finanziarie) che si muovono sopra la sua testa.

In questo momento sopravviviamo, la situazione è sfuggente, impalpabile. In questa condizione precaria di temporaneità, il pareggio di Venezia è oro (chi scrive avrebbe firmato per qualche pareggio in più in questo campionato, quando devi salvarti la mentalità da “punticino” alla resa dei conti premia). Teniamo botta, come si suol dire, in attesa che qualcosa cambi dall’alto, quindi da Austin (leggi investimenti sulla squadra), ma più verosimilmente aggrappati alla speranza del solito “miracolo” di Sean Sogliano, prosaicamente un “Sant’Antonio” del calcio.
Già, perché se è vero che per il momento il club rimane ancorato al “modello Setti” (lacrime, sudore, sangue e che Dio ce la mandi buona) possiamo solo grattare i muri, in apnea, cercando di non sprofondare. Devòti al fatalismo.

Setti è rimasto come Senior Advisor of Football Operations, definizione pomposa che vuol dir tutto e niente (accidenti agli inglesismi!). Ed è questo il punto dirimente e critico: al momento, parlando di Presidio Investors, siamo dinanzi all’ignoto. Aspettando qualcosa di più di un freddo comunicato stampa con dichiarazioni di prammatica.

LUCI E OMBRE DI SETTI, VINCENTE MAI AMATO. FONDI STRANIERI? CALCIO SPECCHIO DEL PAESE

Maurizio Setti, nel Verona, è stato soprattutto e certamente un ottimo uomo d’affari, che ha comprato il club a poco e lo ha rivenduto a molto, anche al netto dei debiti. E nel frattempo ci ha guadagnato (e bene).
In questi suoi 12 anni e mezzo ha saputo costruire e sfruttare relazioni “politiche” nel palazzo calcistico, è stato fortunato e certamente abile, ma soprattutto ha avuto intuizione e timing: cioè ha saputo entrare e operare nel calcio nel periodo storico giusto, quello dove medi imprenditori come lui, forse anche con qualche aiuto personale (per anni si è parlato del cono d’ombra dei rapporti con Volpi…), potevano inserirsi e poi camminare da soli grazie a un sistema che grazie a enormi diritti tv e a paracaduti per le retrocesse dava la benzina necessaria per fare business speculativo (compra e vendi giocatori). Ed è uscito di scena prima di essere fagocitato dallo stesso sistema che sta cambiando alla velocità della luce, con i nuovi fondi della finanza globale che la fanno sempre più da padrone.
Questo timing perfetto ha permesso a Setti di essere il presidente del Verona più vincente dell’era moderna (quindi degli ultimi 35 anni). Eppure, il meno amato (in tandem con Pastorello). Perché?
Forse perché non è mai stato del tutto trasparente, né nella gestione (la Falco e la complessa architettura finanziaria in Lussemburgo nei primi anni, le indagini, la querelle con Volpi…), né nella comunicazione. Sono stati anni contradditori, i suoi: di sparate (“modello Borussia”) e di silenzi; di campionati illuminanti (con Mandorlini, Juric e Tudor) e di retrocessioni umilianti; di investimenti (primi anni di Sogliano-Mandorlini e poi stagione di Tudor) e di inopinate spending review (chiedere a Fusco e Pecchia). Il suo Verona ha sempre vissuto di chiari di luna, sul filo, volubilmente, tra curve e cambi di direzione improvvisi. Fino al sipario, che per Setti era calato da almeno un anno, in un calcio che non era più adatto alle sue possibilità e al suo modus operandi.
La sua, dicevo, è stata un’uscita di scena perfetta, per se stesso e anche il Verona. Ed è questo, alla resa dei conti, il merito storico di Setti: non tanto o solo i dieci campionati di serie A (questo è il sesto consecutivo), ma l’aver condotto l’Hellas da un’era all’altra del calcio: da quella ancora naif (per quanto già moderna) degli imprenditori nostrani, al capitalismo finanziario e globalista di oggi.
Un calcio che non è più sport, ma nemmeno intrapresa economica, ma perlopiù un contenitore di mera finanza, con centinaia di milioni di euro che girano protetti da complessi meccanismi e articolazioni. In questo contesto non potevamo pretendere che fossero dei veronesi – ma nemmeno degli italiani – a comprare il club. Non solo è un business che non interessa, ma è soprattutto un business a loro inaccessibile per molte ragioni. Inoltre l’Italia è segnata dalla deindustrializzazione e ancora caratterizzata da un capitalismo familiare ormai al crepuscolo. Non è un caso che anche molte aziende veronesi siano state acquisite da fondi. Come scriveva il compianto Oliviero Beha, il calcio non è altro che lo specchio del Paese.

MERCATO? NON SERVONO RIVOLUZIONI. E SU PRESIDIO INVESTORS E NUOVO STADIO…

Settimane di fuoco. Tra closing, mercato e due partite da non sbagliare (Venezia e Monza, il 27 gennaio e 1 febbraio). In questo breve arco di tempo capiremo molte cose del futuro del Verona.
Il centro di gravità permanente è chiaramente il cambio di proprietà, che sarà ufficiale tra pochi giorni: il fondo d’investimento americano è un’incognita nel lungo periodo, ma nel corto credo che si caratterizzerà per qualche buon investimento sulla squadra. Questione di interessi.

Sul mercato, a differenza di un anno fa, non servono rivoluzioni, ma solo qualche aggiustamento: l’idea di Sogliano (ma il lavoro del diesse dipende dalle strategie della nuova proprietà) è cedere non più di un big (Belahyane o Tchatchoua) e reinvestire qualche milione di quella plusvalenza su un difensore centrale e un terzino sinistro, forse un mediano che dia corsa e copertura a un centrocampo di piedi raffinati.
Difendere la categoria è ampiamente alla portata dei gialloblu, che dopo aver toccato il fondo, da qualche settimana sono “più squadra”, come ha rimarcato Zanetti anche ieri sera dopo l’onorevole sconfitta di Napoli. E l’allenatore, pur tardivamente, ha trovato il bandolo della matassa con le due punte e il giusto posizionamento di Suslov. Però ribadiamo, a rischio di passare per noiosi: come ultimo step sarà determinante trovare una migliore quadra sul piano difensivo: da lì passa il confine tra una salvezza onorevole e l’affanno perpetuo, quindi il rischio.

Tornando a Presidio InvestorS. Il Verona, almeno nei primi anni, certamente troverà capitali per strutturarsi maggiormente (Setti da tempo aveva esaurito le risorse gestionali), mentre sono scettico su un possibile e deciso cambio di dimensione. Del resto, è lo stesso fondo che si presenta come specializzato in investimenti sul mercato medio-basso; tuttavia lavora per “aiutare le aziende a crescere e svilupparsi”. Traduciamo: l’auspicio è che il Verona con i capitali di Austin abbandoni gli affanni di questi ultimi anni e faccia un piccolo up grade per consolidarsi con tranquillità in serie A. Ma non farei ragionamenti di lunghissimo termine, “aiutare le aziende a crescere e svilupparsi” può significare anche rivalutarle economicamente per rivenderle. Chiariamoci, la ratio dei fondi è il business finanziario, il calcio è un corollario. E la “ciccia” sono gli investimenti immobiliari, nel caso nostro il nuovo stadio e il centro sportivo della prima squadra. La copertura politica del sindaco Tommasi pare esserci (ci fosse la stessa determinazione per gli altri ambiti della città…), ma è tanta la confusione sotto il cielo sul tipo di progetto che si potrebbe realizzare e soprattutto sulle reali coperture economico-finanziare dello stesso, dal momento che difficilmente l’Europeo del 2032 sarà a Verona. Ma ci torneremo.

HELLAS CAOTICO DI TALENTO. E SU SETTI E IL CLOSING…

Non ho mai creduto troppo alla fortuna. Il Verona, a Bologna, ha più che altro confermato di essere una squadra “pazza”, disarmonica, disordinata tatticamente, eppure di talento, di ottime qualità individuali dalla cintola in su. Una squadra che subisce, soffre e s’offre, ma che sa anche far male. Questo spiega i risultati incoerenti, dicotomici a stretto giro di posta: sconcertanti debacle, ma anche grandi imprese. Qualcosa vorrà pur dire se, dopo quasi un girone di andata, non abbiamo mai pareggiato. A Bologna, però, si è vista una maggiore voglia di soffrire, di fare il passo in più, di stringersi compatti nelle difficoltà: è un bel segnale. Ha detto bene Zanetti: “Ora siamo una squadra”. Rimane, purtroppo, la nota di una fase difensiva che ancora non funziona, mentre è positivo che Zanetti, seppur tardivamente, si sia convinto a giocare con due punte.
Adesso bisognerà vedere se il mercato di gennaio rinforzerà o meno il Verona (ma questo dipende anche dal possibile cambio societario). Restasse Setti, balla al centro della pista la cessione di Belahyane, che indebolirebbe le opzioni a centrocampo, però darebbe alla società liquidità sufficiente da reinvestire su un terzino sinistro e un centrale difensivo. Vanno poi risolte in un senso o nell’altro le questioni con i giocatori a scadenza di contratto, per evitare di trascinarsi malcontenti esistenziali ed esiziali. Il resto – ergo risolvere gli attuali disequilibri tattici – tocca a Zanetti: se ci riesce possiamo ancora aspirare a un campionato più tranquillo perché se ti registri dietro poi al resto ci pensano i Tengstedt, Sarr, Serdar, Duda e compagnia. Altrimenti cammineremo sempre sul filo, su un crinale sottile, come è destino dei caotici di talento (la giusta definizione per questo Hellas). Attenzione, potrebbe comunque bastare per guadagnarci la pagnotta, cioè il settimo anno di serie A consecutivo; servono 34-35 punti e, nella nostra follia, siamo già a 18.
Sulle questioni societarie, al momento, poco da dire: trattative di questo livello, con decine di milioni che girano e complesse questioni legali attorno, si osservano in silenzio. Poi resta sempre il principio di fondo di qualsiasi affare: si chiude quando la volontà di comprare e di vendere delle parti convergono. La mia sensazione? Setti ha ancora qualche carta importante da giocarsi. Tradotto: molla solo se strappa ciò che vuole (o si avvicina a ciò che vuole).

ZANETTI NON ECCEDA IN TRIONFALISMO. TROVI CONTINUITÀ ED EQUILIBRIO

Capisco le emozioni: Zanetti era reduce da una settimana pesante, a un certo punto più di là che di qua dal burrone professionale. Le sue dichiarazioni dopo la vittoria di Parma sono quindi uno sfogo, un voler buttare fuori cose che l’allenatore ha covato e sedimentato a lungo. Però, ecco, non siamo fuori dal tunnel: la striscia negativa è stata talmente lunga e drammatica, che avrei evitato il passaggio su “l’orgoglio di aver saputo navigare tutti insieme nella tempesta”, che lascia intendere che (dalla tempesta) ne siamo usciti. Non basta infatti una vittoria a chiarire il futuro sportivo del Verona, nonostante la squadra abbia finalmente rimesso in campo un temperamento che mancava da mesi. Soprattutto contro un Parma che (conosciamo Pecchia…) concede tantissimo agli avversari, l’avversario ideale per le scorribande delle nostre individualità (il Verona, ribadisco, ha cifra tecnica e tante soluzioni) che sono andate a nozze negli spazi aperti. Al posto di Zanetti sarei stato più cauto, avrei aspettato qualche altra partita per considerare la crisi finita. Lo stesso trionfalismo eccessivo l’ho notato dopo l’emozionante vittoria con la Roma. Un tifoso ha il diritto ai saliscendi emotivi, da un addetto ai lavori invece mi aspetto analisi e ragionamento. Anche il “soli contro tutti”, che per i nostri tifosi da 40 anni è un modo di essere e di vivere, non può mai essere ad appannaggio di un allenatore, che peraltro solo non è (al contributo di Sogliano ci arriviamo dopo).
Mai come adesso suggerisco profilo basso e realismo. I margini di errore si sono ridotti e la classifica resta precaria (+1 dal Cagliari terz’ultimo). I danni delle 10 sconfitte in 12 partite si vedono ora. Tradotto, serve finalmente trovare quel che fino ad oggi è mancato: equilibrio e continuità, già dal trittico che ci porta all’anno nuovo, Milan, Bologna e Udinese. Poi, finalmente, potrà venire in soccorso anche il mercato di riparazione – con la vecchia o nuova società è da vedere – quando in un modo o nell’altro saranno da risolvere le situazioni dei senatori a scadenza (Magnani, Montipò e Dawidowicz).
Nel chiedere continuità torniamo a rimarcare i soliti concetti: lavorare profondamente sulla fase difensiva (anche a Parma deficitaria), mantenere un atteggiamento più accorto – tanto il Verona la via della rete la sa trovare – e cercare di far navigare nella stessa direzione un gruppo che qualche tensione interna ce l’ha (fattore di per sé non drammatico, la storia del calcio è piena di spogliatoi problematici e di squadre unite alla domenica).
Per quest’ultimo aspetto resta determinante il ruolo di Sogliano, che la settimana scorsa si è fatto “sentire” parecchio coi giocatori. La sua politica è chiara, come ho scritto la settimana scorsa: difendere l’allenatore e agire sui calciatori. Sean è un direttore sportivo sui generis, quasi un “allenatore ombra” (mi sia consentita l’iperbole e la provocazione). Questo suo “metodo totale” nelle squadre di medio-bassa fascia può funzionare. Del resto, questo Verona, grazie ai giocatori che il ds ha scelto, può valere anche 45 punti. Ce ne bastano 35-36 per salvarci.

P.s. Come ha ricordato Gianluca Vighini, nella replica al mio articolo dell’11 dicembre, in estate ho sostenuto la scelta di Zanetti (“Zanetti non è il migliore del mondo, ma è il migliore dei mondi possibili…” scrivevo). Lo rivendico, io stesso di recente avevo ricordato quell’endorsement. E rivendico queste mie parole estive: “Zanetti in carriera ha dimostrato che, se supportato dalla società e da calciatori di qualità, raggiunge gli obiettivi prefissati”. Non a caso la settimana scorsa, nel pezzo oggetto di discussione, ricordavo proprio la qualità della rosa e il sostegno di Sogliano al tecnico (analizzandone i motivi) e concludevo: “Se l’obiettivo è minimale, cioè una salvezza anche risicata (retrocedono tre squadre su venti, salvarsi mica è questa impresa), forse Sogliano pensa che può riuscirci con Zanetti, nonostante tutto”. A Verona siamo abituati calcisticamente al “regime dei minimis”, quindi a essere terribilmente pratici e badare al sodo per la mera sopravvivenza. Ma anche la praticità e gli endorsment estivi devono sempre fare i conti con la realtà.

ZANETTI E IL PARADOSSO DI SOGLIANO

Una scelta, quella del Verona di confermare Zanetti, che è un eufemismo definire controcorrente e impopolare. Va contro l’evidenza, la logica e i numeri, ma – al netto dell’aspetto economico (il Verona ha poco budget) e del prossimo probabile cambio di proprietà (ma in un affare in cui ballano 70-75 milioni di euro non incide l’ingaggio di un allenatore) –  forse si può spiegare così: Zanetti è funzionale al metodo di lavoro di Sogliano, che ha bisogno di essere quotidianamente dentro la squadra e di mantenere un filo diretto ed ultra-dialettico con il suo allenatore, per incidere, nella convinzione che solo in questo modo la situazione può restare sotto controllo e si può raggiungere l’obiettivo finale. Con l’attuale tecnico il feeling c’è, mentre con qualsiasi altro il rapporto sarebbe tutto da costruire.

Chi scrive pensa che questo sia un limite del nostro diesse. Un limite relativo e non assoluto, intendiamoci, perché se poi questo metodo, in un modo o nell’altro, porta al risultato è chiaro che il gioco vale la candela. Eppure un cambiamento di paradigma probabilmente aiuterebbe non poco anche la carriera dello stesso Sogliano, che con allenatori di profilo diverso valorizzerebbe meglio la sua indiscutibile abilità nello scegliere i calciatori. Ecco, se vogliamo, sta tutta qui l’anomalia e la contraddizione di Sogliano: difendendo Zanetti indirettamente espone alle critiche (ingiuste) il suo calciomercato, dunque se stesso. Tradotto: ma se non è colpa dell’allenatore, sarà che la squadra è scarsa? Ma come si possono considerare scarsi calciatori di livello internazionale come Serdar, Duda e Suslov, un gioiellino come Belahyane e un attaccante come Tengstedt che finalmente sta mostrando le qualità che gli addetti ai lavori gli hanno sempre riconosciuto?  Gli stessi Magnani e Dawidowicz, che hanno centinaia di presenze in serie A, non saranno diventati brocchi tutti di un colpo. La verità è che sul piano tecnico e individuale questo Verona è da salvezza tranquilla.

Del resto, il “metodo Sogliano” con gli allenatori lascia molte domande aperte. Per esempio, non sapremo mai se con un altro tecnico al posto di Bocchetti e Zaffaroni, o di Baroni l’anno scorso, avremmo fatto meglio o peggio (però Zaff è arrivato in corsa e ha inciso, quindi quello si può considerare un cambio). Conta il risultato finale e se l’obiettivo è minimale, cioè una salvezza anche risicata (retrocedono tre squadre su venti, salvarsi mica è questa questa impresa…), forse Sogliano pensa ancora che può riuscirci con Zanetti, nonostante tutto. Salvaguardando il suo metodo di lavoro.  Fino a prova contraria: Parma questa volta decide davvero.

LA CRISI NON È MORALE (VEDI RITIRO), MA TECNICO-TATTICA. ECCO PERCHÉ SOGLIANO STA CON ZANETTI (FINO A PROVA CONTRARIA)

Credo che stiamo sbagliando prospettiva. La causa dei problemi del Verona non è morale, ma prettamente calcistica. Le dissoluzioni morali viste contro Atalanta e Inter sono conseguenze della mancanza di solide fondamenta tecnico-tattiche. Per questo ho creduto poco nel ritiro “punitivo” dopo lo 0-5 contro l’Inter, giunto poche settimane dopo il 6-1 di Bergamo.  Quelle partite sono situazioni estreme, clamorose, casi limite che non fanno “analisi”. L’analisi parte da un dato di fatto più asettico, se vogliamo: dal “trend” e dall’inerzia. Abbiamo perso 9 delle ultime 11 partite, tra cui Monza e Cagliari, compagini mediocri. Le due vinte sono contro il modestissimo Venezia e la disastrata Roma di Juric. Poco, troppo poco. E tralasciamo i 30 gol subiti in questo lasso di tempo. Da settimane sostengo che la nostra classifica è fuorviante, perché tiene conto anche delle due vittorie iniziali con Napoli e Genoa, e che la situazione è decisamente più seria. La “tendenza” dell’Hellas è (sportivamente) drammatica.

Nelle conferenze stampa Zanetti tocca sempre corde emotive. Il tecnico è un passionale, un sanguigno, vedi che ci tiene. Però noto che parla poco di calcio, non spiega il perché di queste sconfitte in serie. Sogliano finora lo ha sempre difeso a spada tratta, non con le parole, ma coi fatti. Anche la scelta del ritiro “punitivo” (un paternalismo tutto italiano che nel calcio globalizzato del 2024 non so quanto sia sensato) è stata dettata non tanto da convinzione (il diesse è uomo di mondo, profondamente intelligente), ma piuttosto dalla necessità di mettere il cerino in mano ai giocatori, spingerli a guardarsi dentro e a fare un esame di coscienza. Sogliano finora ha fatto una scelta di campo precisa: sto con l’allenatore, i giocatori si adeguino.

Un modo di agire inusuale nel calcio, ma lo sappiamo, Sogliano nei suoi pregi (tanti) e difetti (la scelta degli allenatori a mio avviso gli ha frenato la carriera, di certo gli ha fatto perdere alcuni campionati) ha caratteristiche temperamentali indiscutibili: è leale, onesto, coerente. Ma non c’è solo questo: Sogliano con il suo allenatore da sempre crea un rapporto osmotico, per questo poi gli diventa complicato esonerarlo.

Ma, come cantavano gli Afterhours, “non c’è niente che sia per sempre”. Con Empoli e Parma si decideranno i futuri equilibri del Verona.   

ZANETTI GIOCA PER VINCERE? POI È FACILE CHE PERDI

Bando ai gufi, ma guai anche agli ottimisti di professione. Un‘analisi severa qua va fatta perché se la classifica del Verona è ancora sopra il livello di guardia, preoccupa eccome il trend delle sette sconfitte nelle ultime nove partite e la fase difensiva colabrodo: 28 i gol presi in 12 giornate, 25 nelle ultime nove, 6 volte su 12 l’Hellas ha subito almeno tre reti. Aiuto! Avanti di ‘sto passo chiuderebbe il campionato a quasi 90 gol subiti. Significa rischiare grosso, dubito infatti che – per quanto ci sia innegabile talento dalla cintola in su – finiremo col segnare più di 70 gol (per salvarsi bisogna contenere il differenziale passivo non oltre i 20-25 gol tra fatti e subiti).  

Insomma, il problema va risolto. Ci sono dei limiti individuali, in primis il portiere (non impeccabile nemmeno nelle stagioni precedenti), ma anche di marcatura dei nostri difensori (caso di scuola: Coppola che non copre lo specchio a Kean nel raddoppio della Fiorentina). E di impostazione tattica. Un allenatore è chiamato sia a migliorare tecnicamente i singoli calciatori, che a dar loro gli strumenti tattici per nascondere i limiti. Finora Zanetti non è riuscito in nessuno dei due aspetti. Va messo agli atti.

E non capisco francamente il suo intestardirsi con un modulo (il 4-2-3-1) che sacrifica Belahyane (in panchina a Firenze) e limita l’estro di Suslov e Tengstedt: lo slovacco è il nostro più forte trequartista, non può restare confinato sulla fascia laterale; l’ex Benfica invece è un attaccante di manovra che si esalta con una prima punta a fianco.  

Zanetti ha dichiarato che preferisce vincere piuttosto che pareggiare. Non farebbe una piega, il punto è che senza equilibrio poi è più facile che perdi. Guardate la tendenza: sta succedendo.