IL PARON ROCCO E LA MANCANZA DEL GOL: IL VERONA NON HA ANCORA IL SUO “MONA”

Viene in mente l’allegorico e pittoresco Nereo Rocco, il paron: “La squadra perfetta deve avere un portiere che para, un assassino in difesa, un genio a centrocampo e un mona che segna”.

Soprassediamo un attimo sul portiere – chi scrive, sapete, in questi anni spesso ha sottolineato i limiti strutturali di Montipò –, si pone il tema dell’attacco: il Verona ha realizzato soli due gol in cinque partite (uno su rigore). Orban e Giovane hanno talento da vendere, ma – restando all’eterno paron – per ora ci manca ancora quel “mona” che ci fa vincere le partite. Inteso, quel giocatore che butta dentro anche i palloni sporchi, che non pensa troppo, ma è puro istinto e sa cogliere l’attimo. Inzaghi, vent’anni dopo, sarebbe stato l’incarnazione perfetta della massima di Rocco.

L’Hellas di Zanetti, anche all’Olimpico contro la Roma, ha confermato di essere squadra, di avere un’identità, di saper difendere e anche creare occasioni. Ma non la butta dentro. Perché? Un mix di cose, metti anche un pizzico di sfortuna, ma l’allenatore su un fattore può e deve incidere: affinare l’intesa dei nostri due attaccanti, che tendono ancora a muoversi solo individualmente. Orban la verticalità e la capacità di andare in porta ce l’ha nel sangue (la precisione arriverà, i suoi errori non sono mancanza di qualità, ma a volte di postura e posizionamento); Giovane, va detto, pare ancora un po’ acerbo sul piano tattico (ma qui deve lavorarci l’allenatore) e del temperamento.  Un problema forse è che lì davanti siamo un po’ corti di alternative, anche se Mosquera il suo contributo lo può dare, mentre Sarr rimane un’incompiuta.

La nota positiva è che potrebbe non servire chissà che in termini di realizzazioni, l’Hellas è strutturato per subire poco (gli otto gol subiti non fanno testo, 4 sono della debacle isolata con la Lazio), quindi concettualmente potrebbe bastare trovare il golletto che ti cambia l’inerzia e la trama della partita (contro la Roma se Orban sull’1-0 avesse segnato anziché prendere la traversa a porta vuota, avremmo letto un altro copione). Ma il Verona, se vuole cominciare a raccogliere ciò che merita, deve sbloccarsi. 

ZANETTI HA UNA NUOVA LUCE NEGLI OCCHI: HA TROVATO LA CHIAVE

Sean Sogliano ha costruito una squadra solida e completa. Sul piano individuale abbiamo tecnica, corsa e personalità: pensate al centrocampo, Gagliardini, Bernéde, Serdar e Akpa-Akpro si completano, e in attacco e difesa abbiamo alzato decisamente il tasso tecnico e di carisma.

Cremonese e Juventus ci dicono che Zanetti forse ha trovato una quadra tattica e anche un blocco nell’undici titolare. Due fattori l’anno scorso mai pervenuti (per gli infortuni, per caratteristiche sbilanciate della rosa, ma anche per gli errori di valutazione del tecnico).

Questo, se mi permettete, vale più dei (quattro) punti persi con Cremonese e Juve. Quelli, se c’è quella che ieri Zanetti ha definito “la nostra identità”, il Verona se li andrà a riprendere con gli interessi.

Ecco, Zanetti. A differenza della scorsa stagione, l’allenatore è visibilmente contento della rosa a disposizione. Lo si vede in campo e traspare chiaramente nelle interviste. Zanetti ora gioca con equilibrio e, fateci caso, ha cambiato radicalmente sguardo, posa e narrazione nelle conferenze stampa, nelle quali parla di calcio, si sofferma su disamine tecniche prima mai sentite, e cita diffusamente e loda i giocatori. L’allenatore ha una nuova luce negli occhi. Questo Verona lo sente suo, ama allenarlo, gli dà entusiasmo. Non che Zanetti l’anno scorso difettasse di passionalità, anzi, ma quella era più frutto di una sua predisposizione caratteriale, mentre ora è alimentata dal contesto attorno.

Quel che conta, adesso, è gestire questo entusiasmo con la dovuta razionalità. Zanetti è stato chiaro, non vuole più gli alti e bassi e certe imbarcate che nella sua gestione abbiamo visto fino alla debacle dell’Olimpico con la Lazio. Ma il suo 3-5-2 può diventare una garanzia: la chiave è sempre il centrocampo: con Serdar in salute, non servono trequartisti di fioretto, meglio centrocampisti di sostanza. L’anno scorso non li avevamo, adesso con Gagliardini, Akpa, Bernede e ci metto pure Yellu Santiago, siamo a posto. E Nelson e Nunez sono difensori forti (e ci manca Valentini e non abbiamo ancora visto Bella-Kotchap). Il paradosso è che Zanetti, allenatore culturalmente offensivo, può creare una squadra Maginot: e subendo poco, gli ottimi Orban e Giovane possono crescere con qualche pressione in meno e, nel tempo, farci la differenza (e allora i pareggi diventeranno vittorie)

P.S. Con la nuova proprietà americana, il Verona oggi è una società più forte. Rispetto a Setti è cambiato molto, se non tutto, altro che medesimo copione. Ci torneremo.

LA SQUADRA C’È. NO AL PESSIMISMO E AGLI ALIBI.

Se il calcio di agosto è falso, le impressioni di settembre tendono a essere un po’ confuse e incerte. Come la omonima canzone cantata dalla Pfm e scritta da Mauro Pagani e Mogol. Prendiamo il Verona, con i tifosi e parte della critica delusi dal mercato per il mancato arrivo di Baldanzi e condizionati negativamente dalla quaterna presa all’Olimpico dalla Lazio (ennesima goleada della gestione Zanetti).

C’è troppa emotività e ingiustificato pessimismo.  Invece condivido ciò che ha detto con molto equilibrio Sogliano: sono partiti giocatori bravi, ma ne sono arrivati di altrettanto validi; e Baldanzi non era la chiave di tutto, ma semmai un qualcosa in più per alzare il livello. Tradotto: la squadra per salvarsi c’è. Chiaro, serve tempo per amalgamarla, questo è lo scotto da pagare quando sei costretto a cambiare molto per esigenze di bilancio. Ma è lo scotto che tanti club pagano nel calcio di oggi. Quindi giusto non avere fretta e sarebbe sbagliato pretendere tutto subito, ma guai anche mettere le mani avanti e darsi già alibi.

Il compito di unire i puntini e dare una logica e un’organizzazione alla qualità, che pure c’è (in attacco e in difesa siamo individualmente più attrezzati), tocca all’allenatore, Paolo Zanetti. Un mestiere, il suo, che è cambiato radicalmente nel corso degli anni: in passato si gettavano le fondamenta nel lavoro estivo, ritiro in primis, mentre oggi quasi tutti i tecnici si ritrovano rose rivoluzionate e costruite in extremis, e pezzi da sistemare all’ultimo minuto (il Verona dello scorso anno però aveva quasi tutto l’organicco al completo ai primi di agosto). Fa parte del gioco, piaccia o meno, e allenare significa anche coltivare il talento dell’aggiustatore, senza troppe filosofie o ideologie, senza ortodossie ma con molto senso pratico.

Credo che sia necessario trovare la quadra attraverso un calcio semplice, pragmatico, prioritariamente attento alla fase difensiva, e dove in quella offensiva si mettano i migliori giocatori nelle condizioni di esprimersi. Vorrei un Verona organizzato quando difende e libero di essere creativo quando attacca. Rimpiangiamo Suslov, che però l’anno scorso ha fatto poco o nulla rispetto alle sue qualità e spesso giocava troppo defilato (chi scrive è un estimatore dello slovacco); e rivorremmo Duda, tassello importantissimo, eppure la sua partenza può essere l’occasione per dare un assetto più coperto ed equilibrato alla mediana. Voglio dire, le mancanze possono diventare nuove opportunità, il Verona però va ridisegnato, con umiltà e convinzione.

GLI AMERICANI, NANDO MERICONI E LA PROSPETTIVA SBAGLIATA DEL TIFOSO.

È cambiato il vento. Presidio Investors ora non convince. Presidio delude. Questi americani (con cda tedesco e scatole societarie in Delaware e Lussemburgo) improvvisamente non piacciono più. Ecco così entrare in scena tanti Nando Mericoni pentiti (dal personaggio di Sordi di Un americano a Roma), che ora quel celebre piatto di maccheroni se lo mangerebbero volentieri.

Sia chiaro, è comprensibile, però qui in tanti guardano le cose da una prospettiva sbagliata, che nel calcio di oggi non è più contemplabile: mentre gli americani fanno finanza (vendi tizio, metti caio, sposta e fai fruttare denaro), voi perdete tempo a fossilizzarvi sui giocatori che non ci sono più, con le tabelline del calcio mercato come si faceva una volta.

Capisco, ma è un gioco obsoleto, oggi i calciatori e il calciomercato sono solo un pretesto, un cavallo di troia, un grimaldello per operazioni di carattere finanziario. La ragione sociale è solo monetaria (basti pensare al nuovo main sponsor…), e voi pensate in termini calcistici. È un po’ come guardare il dito e non la luna, si perde tempo, ci si incazza per nulla e sfugge il quadro generale. 

Che poi è il solito, lo faceva Setti (il primo a portare il metodo finanziario a Verona, ricordate la società lussemburghese Falco?), lo fa tre quarti di serie A, lo fanno i nostri “americani” ancora più scientificamente. Stando alle cifre uscite, per comprare il Verona hanno sborsato 30 milioni effettivi (gli altri 90 sono garanzia sul debito) e con le cessioni di Tchatchoua, Coppola e Ghilardi hanno già fatto pari in una sola estate. Il resto è laterale, periferico. Quei tre giocatori, normalissimi calciatori come tanti, sono sostituibili e infatti verranno sostituiti con altri calciatori a basso budget, ma che di riffa o di raffa si pensa che in serie A ci possano stare – serve però un extrabudget per rimpiazzare Suslov.

In questo contesto, la nuova proprietà ha dato le chiavi in mano a Sogliano, che deve riuscire nel compito assegnatogli: salvarsi con risorse limitate. Il ds quel lavoro lo sa fare e comunque, ricordo, ha accettato il ruolo, peraltro assumento sul piano operativo pieni poteri (prima se li smezzava con Setti), quindi salendo di livello. Con un campionato dove hai a disposizione 38 giornate per raccogliere i 35 punti valevoli la salvezza e nel quale devi metterti dietro tre squadre su venti, i nuovi investitori hanno deciso di correre questo rischio. Un rischio ragionato, calcolato, ponderato. Non un azzardo, insomma, anche se sempre rischio è. Ma questa è stata ritenuta finanziariamente la strada migliore. Toccherà ad allenatore e squadra tradurla sul piano tecnico.

PRESIDIO INVESTORS ATTORE DI UN CALCIO CHE È FINANZA. MA È SUO INTERESSE LA SERIE A

Per capire il mercato del Verona, bisogna certamente capire chi è Presidio Investors, ma, prima ancora, comprendere come si è trasformato il calcio da una decina di anni. Calcio che è soprattutto un mero contenitore per fare finanza, cioè muovere denaro (anche su estero) per guadagnare altro denaro. Il trasferimento dei calciatori, le plusvalenze servono a questo. I ragionamenti calcistici passano in secondo ordine, derubricati anche da un dato di fatto: di calciatori ce ne sono tantissimi in tutto il mondo, dunque non sono indispensabili, muovi uno arriva un altro. E comunque retrocedono solo tre squadre su venti e mal che vada c’è il paracadute, questo non spinge certamente a dare priorità all’aspetto tecnico.  

Questo era già il metodo Setti (ricordate le sue fiduciarie in Lussemburgo già nel 2012?), oggi l’aspetto finanziario si è ingigantito ancor di più, è diventato sistemico e totalizzante. In questo contesto arrivano i fondi d’investimento, che si stanno prendendo la serie A.

Presidio Investors è un fondo medio-piccolo, ma fa in scala minore ciò che è il compito di qualsiasi fondo indipendentemente dalle dimensioni: comprare per rivendere, investire denaro per moltiplicare denaro. È finanza, non economia (l’economia crea, produce cose). Presidio lavora per i suoi soci, che attraverso il fondo hanno investito sul Verona per rivenderlo tra qualche anno a cifre maggiori. Per riuscirvi va risanato il debito, di cui si sono fatti garanti, e questo passa anche (soprattutto) dalle plusvalenze dei calciatori. Ieri Belahyane, oggi Coppola Ghilardi e forse Tchatchoua, domani chissà. Del resto, funziona così dappertutto, anche tra le big, figuriamoci tra le medio piccole (fa eccezione il Como, ma lì c’è un altro business e comunque vedremo tra qualche anno).

Non possiamo più concepire il calcio come aspetto di campo, valutare il calciomercato in base a quello, pretendere nella rosa la conferma dei blocchi storici. Poteva essere ancora così 15 anni fa, ma quei concetti sono ormai obsoleti. Ovviamente questo non mi piace, né sul piano estetico né etico, ma restando prosaici e tornando ai fatti dico anche che sul Verona non mi preoccuperei oltre modo: premesso che i giudizi li daremo a fine mercato, ho la certezza che verrà costruita una squadra competitiva per la salvezza (è noto invece che continuo ad avere riserve sull’allenatore e l’amichevole con il Sudtirol non mi ha attenuato i dubbi), perché Sogliano i giocatori li sa scegliere e ha gli agganci giusti e perché – in attesa dei tre colpi titolari – l’ossatura già c’è. Oltretutto per far rendere l’investimento, Presidio Investors ha interesse che il Verona resti in serie A.

LE AMBIZIONI DI ZANZI, LA STRATEGIA DI SOGLIANO, LE NECESSITÀ DI ZANETTI E LA QUESTIONE PORTIERE

C’è levità in quest’estate. Zanzi, va detto, è uomo con spiccato sense of humor. Sdrammatizza, ha la battuta pronta. Direte, quisquilie: sarà, ma abituati col predecessore, che si prendeva tremendamente sul serio, respirare aria più leggera è salutare.

Poi, chiaro, c’è la sostanza. Partiamo dunque dalla dichiarazione di Zanzi: “Vogliamo che la squadra abbia più successo possibile, vogliamo una squadra più forte possibile. Sono molto ottimista. Noi vogliamo vincere”. Ora, siamo tutti consapevoli che il Verona è club da medio-bassa fascia, però l’approccio del presidente italo-americano è incoraggiante e segna una novità, perché sancisce apertis verbis la voglia di un Hellas ambizioso, che faccia divertire e possa fare un campionato brillante.

Raccogliendo qualche rumors, troviamo la conferma della volontà di migliorare. Non ci sono stati rivoluzioni nel budget, però qualche euro in più verrà messo, e soprattutto c’è nitidezza di idee su come procedere. Sogliano – che rispetto alla gestione Setti ha ancora più libertà di azione (Zanzi ha confermato: “Noi non gli diremo mai chi comprare e chi cedere”) – vuole prendere tre titolari: un centrale difensivo, un mediano, un attaccante. Quattro, se dovesse essere ceduto Ghilardi (ma sotto i 13-14 milioni difficilmente si andrà, dato che il 40% della cessione va dato alla Fiorentina). Complessivamente invece saranno 7-8 gli innesti (certamente un terzo nuovo attaccante). Quello che conta però è andare su profili adatti al calcio di Zanetti: l’anno scorso, al netto dei suoi tanti errori, il tecnico non aveva a disposizione né difensori veloci né un vero mediano interditore in mezzo al campo. Se tu vuoi giocare alto, uomo contro uomo, devi invece avere giocatori di gamba, pronti a coprire le zone scoperte quando pardi palla, nella transizione tra fase offensiva e difensiva. L’allenatore nell’ultima stagione ha dovuto (tardi, troppo tardi) cambiare, quindi fare di necessità virtù, ma dato che gli si è rinnovata la fiducia ha il diritto di guidare una squadra più nelle sue corde. Non è questione di moduli (qualsiasi allenatore nel calcio di oggi deve saper mischiare le carte, anche a partita in corso), ma di caratteristiche e dna nel gioco.   

La società chiede ai tifosi di avere pazienza, il motivo è semplice: i veri colpi si fanno ad agosto, meglio aspettare per avere forza di prendere le prime scelte, che farsi travolgere dall’ansia del tutto e subito. Piaccia o non piaccia, nel calcio di oggi funziona così un po’ dappertutto.

Last but not least, la questione portiere. Montipò sembra che resti, ma a mio avviso servirebbe una riflessione in più da parte della società, perché il nostro nella passata stagione ha difettato parecchio in concentrazione. E ho delle perplessità anche sul piano tecnico: Montipò è scostante, alterna miracoli (i riflessi sono la sua dote migliore), a tanti errori dovuti soprattutto a al posizionamento sbagliato. Ho sempre pensato che il portiere bravo è quello poco appariscente, ma che sbaglia di rado. Non sarebbe male valutare un extrabudget per coprire un ruolo così determinante.  

IL BENSERVITO A SETTI. CONFLITTO DI POTERE? NEL CALCIO STRETTO TRA FINANZA E POLITICA, IL VERONA GUARDA AVANTI

Presidio Investors ha silurato Setti. Mi dicono che il diretto interessato sia rimasto sconcertato e stia vivendo ore difficili. Non se lo aspettava, ecco. Del resto, non più tardi del 6 giugno era seduto al tavolo con gli agenti di Zanetti per mettere giù gli aspetti economici del nuovo contratto dell’allenatore di Valdagno. Eppure non è un fulmine a ciel sereno, i segnali c’erano da un po’: da febbraio la convivenza tra il vecchio proprietario e il fondo americano correva sul filo del rasoio. Ciononostante il divorzio è avvenuto bruscamente nei modi e ha lasciato dietro ruggini e rancori.  Lo dimostra lo stringatissimo comunicato della proprietà. Le due righe-due, fredde, asettiche, dedicate a chi ha tenuto il timone per oltre 12 anni e mezzo, con risultati di rilievo, stonano parecchio (comunque la si pensi su Setti), epperò sono emblematiche di un benservito che vuole relegare all’oblio l’ancien regime e il suo simbolo.  

Setti era separato in casa da tempo, Sogliano e l’ad Simona Gioè si erano immediatamente calati nella nuova realtà. L’ex presidente invece è rimasto figura “ingombrante”, ha provato ad agire e “sovrapporsi”, resistendo fino all’ultimo alla marginalizzazione. Sfruttando anche i suoi rapporti e le amicizie coltivate in questi anni. Tuttavia, di recente, qualcosa deve aver fatto precipitare i rapporti. Anche i tempi sono sospetti: tutto è avvenuto una manciata di giorni dopo la conclusione della cessione plurimilionaria di Coppola al Brighton. Sappiamo che Setti era stato inquadrato dalla proprietà americana come Senior Advisor sulle attività calcistiche, un ruolo che al netto del fumoso inglesismo dava l’idea che fosse comunque coinvolto nel contesto economico-finanziario delle operazioni di mercato. Può essere che non ci sia più stata comunione di intenti, che si sia creato qualche conflitto di competenza. Del resto, le dichiarazioni dello stesso ex presidente dopo la cessione di Belahyane e con gli americani già in sella (“praticamente faccio ancora tutto io”), non erano state concilianti. E non erano affatto piaciute al nuovo potere. Setti è sempre stato un po’ smargiasso (non a caso lo battezzai Ranzani agli inizi), ma quelle parole forse non sono state lette dagli americani solo come una guasconata, può essere che Setti stesse cercando di dare un preciso “messaggio” al sistema calcio.  

Il calcio italiano oggi infatti è soprattutto due cose: finanza e politica. La finanza dei fondi d’investimento, delle società controllanti in Lussemburgo, Delaware ecc; delle transazioni estero su estero; delle consulenze e delle intermediazioni. Muovere calciatori nel calciomercato significa muovere i soldi. La politica invece è nel sistema di alleanze, nei giochi di potere, nelle “correnti” e “sottocorrenti” che si creano. Non è un mistero che Setti fosse in rapporti di stretta amicizia con determinati presidenti e club. Potrebbe essere che il Verona attuale miri a cambiare qualche rapporto di potere, o che semplicemente voglia mantenere lo stesso schema politico di Setti, ma senza Setti (tradotto, ora facciamo noi). Con un uomo forte che rimane al centro della scena tra il vecchio e nuovo corso: Sean Sogliano.

ONORE A ZANETTI (MA NON SALGO SUL CARRO…). LA NUOVA PROPRIETÀ NON TOCCHI SOGLIANO

Il Verona si è salvato e ora, nel momento della festa, tutto il resto passa in secondo piano. Va reso onore alla squadra e al suo allenatore, qui spesso criticato: a Zanetti era stato chiesto di salvarsi e si è salvato. Tradotto: il tecnico ha centrato l’obiettivo e dunque ha fatto il suo dovere. Comprensibile quindi che ieri sera, nella sala stampa del Castellani, Zanetti abbia voluto rimarcare, con decisione e anche con un sentimento di legittimo orgoglio, anche i suoi meriti. È la sua seconda salvezza in serie A (la prima proprio a Empoli due stagioni fa), ma questa – come avevo scritto a suo tempo – può essere determinante anche per la sua carriera. Non solo perché sa di conferma a certi livelli, ma anche perché è stata raggiunta in una piazza più importante di Empoli, dove il carico ambientale e di pressioni è tangibile. Citando Allegri, “nel calcio esistono le categorie”: ebbene Zanetti si è legittimato come allenatore “da serie A”.

Il diretto interessato, non a caso, lo ha ribadito a modo suo: “Penso di essermi guadagnato un po’ di rispetto”. Lasciando intendere che quel “rispetto” lo farà valere anche con la nuova proprietà nel discutere la sua riconferma, che indipendentemente dal rinnovo automatico scattato ieri va discussa da ambo le parti (quindi anche dell’allenatore, che magari aspira a un ritocco economico)

Poi ognuno può avere le sue (legittime) opinioni sul lavoro svolto quest’anno da Zanetti. La mia, si sa, non è entusiasta, e mi sembra onesto ribadirlo in ore in cui lo sport nazionale di “salita sul carro” in genere diventa molto praticato. Il tecnico non mi ha convinto né sul piano tattico – non ha mai stato trovato un vero equilibrio (si è passati dal gioco iperoffensivo e spregiudicato, con tanto di imbarcate, a un calcio rinunciatario) – né su quello della gestione mentale e fisica. La squadra è sembrata arrivare svuotata al rush finale.

Questo non significa che Zanetti non meriti una seconda chances, anzi: un conto sono le riserve personali, un conto il quadro generale e i fattori oggettivi (budget, ambizioni, alternative).  Ma è prematuro ora sbilanciarsi sul suo futuro finché non sarà sciolto il nodo più importante: la permanenza del direttore sportivo Sean Sogliano. È questo l’aspetto dirimente e imprescindibile: Sogliano è più di un ds, è l’anima del Verona. Con budget modesti porta qui buoni giocatori e crea plusvalenze. Sarebbe già sufficiente, ma il suo lavoro va oltre: Sogliano è ogni anno il leader maximo del gruppo, che gestisce, striglia, blandisce, sostiene. Sogliano, come successo con Baroni (ma anche con Bocchetti-Zaffaroni e prima ancora con Mandorlini), ha supportato Zanetti, in modo vivace e dialettico, ma leale. Questo ha dato fiducia e tranquillità all’allenatore, ma soprattutto lo ha accreditato con i giocatori.

Però Sogliano può esercitare questa forza solo se gli si dà carta bianca, senza troppi lacci e lacciuoli. Insomma, calciatori e allenatore devono sapere chi comanda, cioè chi ha voce in capitolo sui loro contratti (quindi la loro carriera). Non ci può essere ambiguità.  

NOI, D’INIZIO 80, GLI SFIGATISSIMI: ARRIVATI CHE LA FESTA ERA APPENA FINITA

“La mia generazione ha perso” (Giorgio Gaber)

Noi che lo scudetto lo abbiamo solo… sfiorato. Qualche immagine, pochi flash, ricordi sbiaditi. Noi che lo scudetto lo abbiamo soprattutto sentito raccontare, dai padri, dai nonni, attraverso gli scritti e gli aneddoti postumi. Noi che siamo arrivati verso fine impero e abbiamo vissuto più che altro il crepuscolo di quel Verona: l’epitaffio europeo di Brema, la pietra tombale della retrocessione di Cesena.

Noi, classe 1980 (ma vale anche per gli ‘81 o ‘79), che non ne abbiamo ancora 50, ma siamo già abbondantemente sopra i 40, a proposito di quell’epopea ci troviamo in quel limbo fastidioso delle occasioni mancate: c’eravamo già, ma è come non ci fossimo stati, troppo piccoli per vivercela davvero. Siamo la generazione che è arrivata poco dopo i fasti, quando la festa era appena finita e tutto e chiunque intorno a noi ce lo faceva capire, gli sguardi dei “vecchi”, le loro discussioni sugli spalti nei tempi morti di una partita, il loro disincanto di chi sa già che gli anni ruggenti sono passati.  Siamo stati battezzati dalla malinconia delle cose che si concludono; la nostra iniziazione è stata bagnata immediatamente dal rimpianto per qualcosa che era appena passato e non avevamo potuto afferrare.

Noi Elkjaer lo abbiamo visto al canto del cigno, mica segnare senza scarpa. Cavallo Pazzo ce lo ricordiamo al passo d’addio, con la schiena a pezzi e l’usura fisica che prima o poi ti chiede il conto (il giorno in cui L’Arena scrisse della sua cessione ero in auto che stavo andando al mare, pensate il malinconico calciomercato delle nostri estati…). Noi il miglior Bagnoli lo abbiamo visto al Genoa, mentre il Verona agonizzava verso il fallimento tenuto vivo solo da Fascetti & C.. Noi i sogni ce li frantumò quella traversa di Iachini a Brema, era il segno di un destino ormai balordo, l’incornata di Volpecina due minuti dopo fu solo beffarda illusione. Sapevamo già che il vento era girato. Noi malediciamo ancora il Condor Agostini per quel triste e troppo caldo pomeriggio del Manuzzi.

Per questo ho sempre pensato che la mia è la generazione di tifosi più sfigata, più di quelli nati negli anni 90 che pure si sono sorbiti l’infausta retrocessione di Piacenza e hanno attraversato l’adolescenza nell’inferno della serie C. Quei ragazzi quantomeno sono cresciuti più strutturati: l’humus attorno a loro infatti era diverso, eravamo già tutti più abituati agli psicodrammi, l’epopea degli Ottanta era un ricordo lontano per chiunque, la modestia sportiva ormai radicata.  

Mica come noi, arrivati con un soffio di ritardo all’appuntamento sportivo della vita. E ogni anniversario è sempre lì un po’ a ricordarcelo.   

LO SCUDETTO? 40 ANNI DI RETORICA INGENEROSA E SVILENTE. QUEL VERONA ERA FORTISSIMO, ALTRO CHE FAVOLA O MIRACOLO


Cambiamo narrazione. Ridiamo allo scudetto del Verona il lampo di verità che merita quella squadra, il club, ma anche la città di Verona. Il fatto è che, 40 anni dopo, è diventata insopportabile la solita, pigra e abusata retorica del “miracolo”, del “Davide contro Golia” in salsa calcistica anni Ottanta. Neanche il Verona fosse una squadra di scappati di casa in gita premio che ha fregato per una botta di culo i giganti. Nemmeno fossimo passati di lì per caso e solo grazie agli Dei e alla loro buona e un po’ pelosa concessione ce l’avessimo fatta.
Intendiamoci, quello scudetto è un’impresa unica nella storia del calcio mondiale, figlia di un calcio più democratico che non c’è più eccetera. Però…c’è un però grande come una casa: quel Verona era un grande club (già nel 1982-83 fummo in lotta per il titolo) ed era forte, fortissimo, con 3 fuoriclasse (Briegel, Elkjaer, Fanna) e 4 campioni (Tricella, Di Gennaro, Galdersi, Marangon) attorno a ottimi o buoni giocatori. Guidati da un allenatore tecnicamente fenomenale e dal carattere fortissimo.

Ma prendiamo la squadra. Elkjaer e Briegel erano tra i primi cinque-sei giocatori del mondo: Preben era arrivato in semifinale con la Danimarca nell’Europeo 84 e sarebbe entrato nella top 11 del Mondiale 86, ed è stato secondo (1985) e terzo (1984) al Pallone d’Oro. Briegel ha fatto due finali di Coppa del Mondo. Fanna oggi guadagnerebbe 5 milioni di euro l’anno: all’epoca, con Bruno Conti e Littbarski, era la miglior ala europea (Causio era a fine carriera e Donadoni agli inizi). Infatti, Pierino, con la Juve non era sempre stato comprimario, come si racconta con svogliatezza: dello scudetto bianconero 1981-82 era stato titolare e protagonista, e contribuì parecchio anche a quello del 1980-81. Pure Galderisi in bianconero disputò una stagione importante. E Marangon aveva fatto campionati di vertice con Napoli e Roma. Lo stesso Di Gennaro viene a Verona perché chiuso da un certo Antognoni, non da Gigi il Puzzone. E Tricella, sebbene non fosse Scirea (che però era già al tramonto), a metà anni 80 era il migliore (Baresi esploderà sul serio poco dopo).
Finiamola, insomma con la storia degli “scartini”, che sembra che siano venuti a giocare da noi quelli del dopo lavoro ferroviario. Il Verona, all’epoca, era club danaroso grazie alla Canon, quindi capace di andare a prendersi i calciatori di prima fascia (se non fosse venuto Briegel, tra le opzioni c’era Lothar Matthaus, futuro Pallone d’Oro e Campione del Mondo), non gli “scartini”.
In tutto questo c’è Osvaldo Bagnoli. Uno mai raccontato a sufficienza e come meriterebbe. Uno che, per la solita pigrizia intellettuale e giornalistica, si ama descrivere come un “sempliciotto” che “non parlava” e si limitava a mettere i giocatori in campo. Prendete la citazione evergreen “el terzin fa el terzin, el median fa el median…” ecc, contestualizzata spesso a minchiam. Infatti messa così sembra che potesse allenare anche Marietto lo sparapalle. Bagnoli invece è stato un tattico sopraffino, “avanti anni luce”, come ha detto rendendogli giustizia Beppe Bergomi. Walter Zenga, quando gli chiesi di lui, s’illuminò radioso, e sì che i due – entrambi caratteri forti – hanno avuto un rapporto tormentato, ma intenso. Bagnoli è stato il primo in Italia a fare il 3-5-2 (ma all’epoca sui mass media non veniva chiamato così). Ed era, a modo suo s’intende, un comunicatore: “Parlava tantissimo con i singoli calciatori”, mi ha confidato Volpati. Ed era un duro, un uomo di nervo e polso, una sorta di Muorinho ante litteram con la stampa: Elkjaer mi raccontò con quale carisma e rabbia si prese la squadra sulle spalle quando i mass media, esaurita la menata della squadra simpatia, iniziarono a mettere pressione e a gufare: fatevi raccontare come Bagnoli, per proteggere i suoi ragazzi, a un certo punto iniziò ad “accogliere” i giornalisti nazionali davanti ai cancelli di Veronello. Carisma e leadership a chili.
Sarebbe ora di dare a Cesare quel che è di Cesare, vale per quella squadra e per il suo allenatore. La retorica che sentiamo da 40 anni, anche e soprattutto in buona fede, è ingenerosa, svilisce, riduce, non accentua. Parlare e scrivere di “favola” e “miracolo” è liquidatorio. Passi per la stampa nazionale, che tratta i piccoli come reietti o intrusi, ma purtroppo a un certo racconto abbiamo contribuito anche noi a Verona. La verità è che quel Verona era un grande club, società e squadra. Sì, anche noi siamo stati grandi del calcio per un periodo. Dobbiamo ricordarlo, raccontarlo ed esserne orgogliosi.