A MARASSI L’ ULTIMA SPIAGGIA

Il 20 febbraio, dopo la sconfitta con la Roma all’Olimpico, scrivevo che sarebbero serviti almeno 6 punti nelle successive quattro partite (Fiorentina, Spezia, Monza e Sampdoria) per restare a galla. Dovessimo domenica vincere a Genova con la Samp ne avremmo ottenuti solo 5 e mancherebbe all’appello il punto casalingo con la Fiorentina, quello pesa più ancora delle mancate vittorie nello scontro diretto al Picco, o di ieri con il Monza.

Assodato che se non vinciamo a Marassi è pressoché finita, la salvezza rimarrà un affare complicatissimo anche se dovessero arrivare i 3 punti e lo Spezia arrestasse il passo (sconfitta o pari) con il Sassuolo. A meno 3 o meno 2 ci sarebbe ancora più che una speranza, certo, tuttavia il Verona visto nelle ultime settimane è tornato a essere davvero poca cosa. Sembra essere rifluita l’onda emotiva nata con l’arrivo di Sogliano. La Samp è pure messa peggio, quindi possiamo batterla: ma le altre poi? Inoltre se fai cinque punti nelle prime 15 giornate, infilando dieci sconfitte consecutive, di fatto ti sei già compromesso. Ricordiamolo sempre: la classifica è figlia di quel disastro lì.

Verrebbe da scrivere che è giusto retrocedere, visto lo scempio commesso da Setti la scorsa estate in sede di mercato. Non me ne vorranno i settiani in servizio permanente pronti a giustificare ogni cosa, vuoi per conformismo, vuoi per pigrizia o, peggio, per qualche ipotetico strapuntino, ma con una proprietà del genere l’Hellas è destinato più o meno a improvvisare ogni anno, a ripartire da zero o quasi, a essere per costituzione indecifrabile e inaffidabile (i famosi chiari di luna a cui Setti in undici anni ci ha abituati…). Altro che progetto. Altro che centro sportivo o nuovo stadio. Cazzate. Qui manca anche una minima programmazione sportiva degna di questo nome.

Finché c’è matematica c’è speranza. Aspettiamo domenica: sarà la pietra tombale, o ci sarà ancora un flebile lumino a tenerci ancorati a ciò che Setti non meriterebbe? Tra Marassi e il Giglio di Reggio Emilia si consuma l’ultima spiaggia dell’Hellas.

LA GUERRA DI NERVI

Questione di nervi. Qua basta pizzicarsi appena e parte la scossa. Non va bene. Perché una maratona (e la corsa salvezza, ribadisco, lo è) si corre anche con la testa. Capisco la tensione dell’ambiente, l’emotività che spinge agli alti e bassi d’umore, ma ha ragione Zaffaroni, uomo di equilibrio e di senso pratico: il percorso è ancora lungo. Ergo: certi pareggi sono da prendere senza troppi snobismi. Aggiungo: pensate al pari mancato con la Fiorentina, ora saremmo a due punti dallo Spezia e non a tre. Fa tutta la differenza del mondo: a due basterebbe una partita vinta (e una persa dai liguri) per essere salvi, a tre vai allo spareggio – è cambiato il regolamento, in caso di arrivo a pari punti tra due squadre non influisce più la classifica avulsa.

Diciamocela tutta. Il Verona ha enormi limiti, fuori dal politicamente corretto possiamo affermare senza ombra di smentite che è scarso. Ma è scadente il livello generale del campionato, figuriamoci quello delle squadre coinvolte nella bassa classifica, in primis lo stesso Spezia. E quando non si è brillanti bisogna badare al sodo e non darsi grandi aspettative. Uscire perciò dalla narrazione tossica del “si va in campo sempre per vincere”, che per esempio con la Fiorentina ha creato aspettative e tensioni ulteriori che ci hanno mangiato l’anima.

Ragionevolmente ti salvi a 35-36 punti, ne dobbiamo raccogliere 17-18 in 13 partite. So bene anch’io, dunque, che qualche colpo da tre punti lo devi mettere in saccoccia. Ma se dai continuità (lo predico da due mesi) magari te ne bastano 3-4 di vittorie e non 5-6. Quando lotti per ogni respiro, non sono dettagli.

NON SONO I CENTO METRI, MA UNA MEZZA MARATONA

Ma davvero siete delusi? Forse avete perso il senso della realtà. Credevate che il redivivo Verona del nuovo anno potesse come d’incanto prendersi punti ovunque e salvarsi con agio? Siete fuori strada. E poi ci sono sconfitte e sconfitte. Se quella con l’Inter a San Siro aveva rappresentato un passo indietro rispetto al trend cominciato con Torino e Cremonese; quella di ieri all’Olimpico ci dà due conferme. La prima: il Verona sta bene, è squadra, ha solidità, solo che la Roma è troppo più forte per i nostri limiti che, ca va sans dire, ci porteremo dietro fino alla fine. Scontato affermare: con il ritmo impresso nel secondo tempo, avessimo una punta l’avremmo pareggiata. Ma la punta non c’è ed è inutile star lì a rimuginare.  La seconda certezza: sarà bagarre, lotta dura, apnea fino all’ultima giornata.

Ed è per questo che continuo a battere sullo stesso tasto: ragionare non sulla partita singola, evitare la smania del tutto e subito, ma guardare orizzonti di medio raggio, consapevoli che qui si sta correndo la mezza maratona e non i cento metri. Tradotto: di per sé nemmeno la partita di lunedì prossimo con la Fiorentina sarà decisiva, men che meno il successivo scontro diretto di Spezia.  Piuttosto meglio guardare nel complesso il miniciclo che comprende anche Monza in casa e la trasferta contro la derelitta Sampdoria. Sono le prossime quattro partite nel loro complesso il nuovo step da affrontare, il micro-campionato che ci condurrà alla volata finale. Obiettivo? Raggranellare almeno sei punti. E’ sempre valido il motto manzoniano: adelante, Pedro, con juicio, si puedes.

P.S. Credo che, in attesa di Faraoni, Terracciano possa essere più utile di De Paoli sulla fascia destra.  

P.S.S. Nella vita, a parte la morte, vi è una sola certezza: Lazovic, in questo Verona, deve andare in doccia solo quando l’arbitro fischia tre volte.  

DEDICATO A QUELLI CHE SCREDITARONO SOGLIANO…

Occorre uno sforzo di memoria. Sean Sogliano, l’uomo che sta risollevando il Verona, non solo nel 2015 fu silurato da direttore sportivo dopo una promozione e due brillanti salvezze consecutive, ma perfino screditato da una parte dell’ambiente che appoggiava la linea del direttore generale Gardini. Mi riferisco ad alcuni giornalisti ben introdotti ai vari aperitivi, a qualche tifoso eccellente, perfino a qualche big dello spogliatoio a fine carriera che a Sogliano doveva molto, ma condizionato da un procuratore forse non proprio al di sopra delle parti. Sappiamo poi come è andata: Gardini e il fidato Bigon se ne andarono con il Verona retrocesso, non prima però di aver firmato contratti faraonici e pluriennali a calciatori al crepuscolo. Ne pagò le conseguenze anche Mandorlini, che senza l’apporto quotidiano di Sogliano perse la bussola e fu esonerato. Solo la promozione di D’Amico e l’arrivo di Juric, nel 2019, tornarono a dare senso alla gestione economico-sportiva della società.

Perché gira che ti rigira si torna sempre lì: i risultati li ottieni se fai lavorare chi conosce il calcio e pensa al bene del club. Se deleghi chi con i procuratori ci lavora ma dei procuratori non è suddito (e che per non esserlo è finito perfino in serie C). Se ti fidi di chi ti ripulisce moralmente lo spogliatoio difendendo e legittimando fino in fondo il proprio allenatore (Mandorlini ieri, Bocchetti oggi), anche quando non ne condivide tutte le idee. Insomma la questione è semplice, anche se i soloni seguitano a raccontarcela complessa: non è necessario essere santi o puri, ma leali sì, avendo la visione del disegno complessivo. Doti umane e manageriali che possiedono quelli come Sogliano e D’Amico.  

Non so se ci salveremo, ma Setti una piccola lezione dopo undici anni al Verona può averla imparata: risultati e plusvalenze dipendono da chi metti al timone della gestione sportiva. Con buona pace anche di quelli che, al tempo, additarono Sogliano. Gente, va detto, che fa tenerezza: leccano e inseguono puntualmente i mediocri, bravissimi nello sbagliare sempre cavallo…

L’AFFANNO È IL NEMICO DA EVITARE. LA PAZIENZA LA NOSTRA ALLEATA

Mi sovviene John Fante nella prefazione del suo Chiedi alla polvere. Fante faceva le pulci alla società americana dell’epoca, a “un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere”, a “coloro ingannati dall’idea che felici fossero quelli che si affannavano”.

Ecco lasciando stare il sublime scrittore americano e tornando sulla terra, il concetto dell’affanno come demone mi è tornato in mente pensando a questo redivivo Verona che piano piano cerca di risalire la corrente. Bene ha detto ieri Zaffaroni spiegando che, per adesso, conta trovare certezze attraverso le prestazioni, sottintendendo che la smania di vittorie potrebbe essere psicologicamente pericolosa. È un po’ quello che scrivevo una settimana fa: ora è meglio essere formiche e non cicale, giocare (anche psicologicamente) con la consapevolezza di avere (ancora) due risultati su tre a disposizione. Il tempo non è tantissimo, ma nemmeno così stretto, permette di darsi uno spazio di un paio di mesi e una decina ancora di partite per recuperare il gap.  Affannarsi a voler rimediare subito, condizionati subitaneamente dalla classifica, invece ci condurrebbe a più rischi. Tattici, cioè giocare all’arma bianca e così prestare il fianco all’imbucata. Psicologici: se tu aneli ansiosamente a un obiettivo, al primo inciampo entri per nemesi in un loop mentale negativo. Non possiamo permettercelo.

Quel che dice Allegri parlando di Juve, vale anche per noi: si deve ragionare su micro-obiettivi. Il Verona tra un mese ha lo scontro diretto proprio con la quart’ultima, lo Spezia, che viaggia a +4. Prima però abbiamo Salernitana e Fiorentina in casa e in mezzo la Roma all’Olimpico. Non disdegnerei 4 punti (una vittoria, un pari e una sconfitta) in questo trittico, ma ne basterebbero anche 3, che comunque ci permetterebbero probabilmente di rosicchiare almeno un altro punticino ai liguri. Dopo La Spezia, avremmo comunque altre 13 partite: una vita (calcisticamente) se ancora in vita (cioè in lotta salvezza).  

Quel che serve, ora, è soprattutto la pazienza e l’attitudine a fare la corsa su se stessi e non sulla classifica. La squadra uscita dal mercato, con Duda e Ngonge, è più forte; il carisma di Sogliano ha poi rivitalizzato due ottimi giocatori come Lazovic (che da trequartista o ala di punta si allunga la carriera e torna nel suo ruolo degli inizi alla Stella Rossa) e Tameze, da cui non possiamo prescindere.

Non c’è l’attaccante, questo è vero (del resto i bomber costano…), ma una buona fase difensiva e le mezze punte forse potranno supplire. In tal senso fatemi spendere una parola su Lasagna: additarlo a capro espiatorio di tutto e tutti è la via più facile e populista ed è pure ingeneroso, del resto a Verona non siamo nuovi nella specialità (ricordo le critiche a Salvetti che fu il vero artefice della salvezza con Perotti). Lasagna ha più di 200 partite in A e ha giocato in nazionale: ha note difficoltà sotto porta e sovente sbaglia i tempi di giocata, ma dà profondità come pochi. Usiamolo e proteggiamolo per quel che sa (e può) dare, non attacchiamolo per quel non ha e mai avrà. La salvezza passa anche da questi dettagli.  

FORMICHE E NON CICALE. ORA VA BENE COSI’ (ASPETTANDO LA PUNTA E LA VOLATA FINALE)

Il Verona finalmente ha un senso. Il pari di Udine sigilla una tendenza in atto, sconfitta di San Siro a parte: ora c’è una squadra e gli otto punti nelle ultime cinque partite lo certificano. Abbiamo trovato continuità e muovere (quasi) sempre la classifica in questa fase del campionato è il fattore più importante. Sbaglia chi storce il naso per il punto di Udine: serve eccome, ora meglio essere formiche piuttosto che cicale da effimeri e irripetibili exploit. Crea solidità, in attesa che oggi la chiusura del mercato ci consegni un uomo gol. Solo quello potrà trasformare l’acqua in vino, cioè i pareggi di ieri sera (nel finale hai messo sotto l’Udinese senza cavare un ragno dal buco…). in vittorie.

Bocchetti ha sfruttato a dovere la sosta dei mondiali, stabilendo un rapporto franco con il ds di ritorno Sogliano, che a sua volta ha sistemato lo spogliatoio. I calciatori fanno sempre la differenza: è servito perciò ritrovare mentalmente uomini chiave (Lazovic e Tameze), tirare fuori dal cassetto il desaparecido Djiuric e, in difesa, recuperare Magnani (ieri sera superbo), buon stopperone di serie A frenato in carriera da frequentii guai muscolari, e nelle scorse partite Dawidovicz, che è pur sempre un nazionale. Se con l’inamovibile Hien giocano loro e non un Gunter, evidentemente tutto cambia. Poi attenzione a Terracciano, a cui se non vogliamo rovinare la carriera va tolta l’etichetta di jolly tuttofare. Lui ha il passo, la tecnica e la profondità del tornante destro, non a caso a Udine con Duda nel secondo tempo ha cambiato volto al centrocampo.

Infine il capitolo mercato. Sogliano finora non ha sbagliato una mossa. Ilic era il più sacrificabile per fare cassa senza indebolirsi e infatti lo si è ceduto. E’ arrivato il nazionale slovacco Duda, veterano in Bundesliga, che, intendiamoci bene, è un colpaccio per la nostra modesta dimensione. Ngonge ha passo, tecnica e spunto sulla trequarti e, dopo Amrabat, conferma ciò che anni fa mi confidò l’ex ds Gibellini: Olanda e Belgio sono i mercati europei da cui pescare i giovani talenti.

Tuttavia (e torniamo sempre lì) serve come il pane il goleador, senza il quale sarà difficilissimo salvarsi. Se avessimo 30 partite da giocare potremmo restare anche così, basterebbe fare le formichine a vita, ma ne mancano 18 e almeno cinque vanno vinte, tenendo conto che altre cinque fisiologicamente le puoi perdere.

Ora il verbo è resistere: quindi perdere poco, restare a galla e rosicchiare nelle prossime 6-7 giornate un paio di punti alla quart’ultima. Tessere pazientemente la tela, senza ansie eccessive, pronti poi per la volata finale.

CON L’INTER PASSO INDIETRO. SETTI IN DIFFICOLTA’ SUL MERCATO

Se miracolo dovrà essere, non sarà con l’atteggiamento di ieri a San Siro. Il peccato mortale è aver preso gol dopo due minuti e 40 secondi, cambiando lo spartito a favore dell’Inter. Una squadra chiamata a una rimonta quasi impossibile non può permettersi un approccio così molle e indolente. Poi possiamo discutere di tutto, della prestazione certamente incoraggiante del Verona negli altri 87 e passa minuti, pur con gli enormi limiti di creatività e finalizzazione che ci portiamo dietro da agosto e riconoscendo che la sonecchiosa Inter si è limitata a gestire la pratica. Ma non si può prescindere da quei primi tre minuti, quando abbiamo concesso campo e spazi con facilità disarmante (il gol di Lautaro Martinez è ovvia conseguenza), mandando subito in malora anche la speranza di poterci giocare qualche possibilità.

E’ un passo indietro rispetto a Torino e Cremonese, contro le quali l’Hellas aveva mostrato sprazzi di una semi-rinascita, con il recupero psicologico (Lazovic e Tameze) e fisico (Dawidovicz) dei nostri pezzi da novanta e un maggiore ordine tattico. Bisogna rendersene conto in fretta se non si vuole sbagliare contro l’ottimo Lecce, a questo punto il vero banco di prova per capire se – in attesa di una svolta sul mercato – il Verona di Zaffaroni e Bocchetti nel girone di ritorno ha reali chances di recuperare il terreno perduto.

Quest’anno ci si salva a 35-36 punti, difficilmente meno, significa doverne raccogliere 26-27 nelle venti partite restanti. Complicato anche per il buon Verona visto con il Toro e quello discreto che ha battuto la modestissima Cremonese. Impossibile per quello di ieri di San Siro. Qualche speranza c’è se si trova innanzitutto un filotto di continuità nei risultati e nel frattempo si aggiunge qualità vera al centro dell’attacco. Lazovic e Lasagna, ma anche lo stesso Djuric, con un uomo gol accanto possono esaltarsi. Lazovic, con i piedi che ha, l’esterno di trequarti lo può fare benissimo, quello era il suo ruolo a inizio carriera nella Stella Rossa e, a 32 anni, oggi lo valorizzi più lì che a tutta fascia come in passato. Lasagna non vede la porta, ma salta l’uomo e crea spazi come pochi, va utilizzato per quello (molto) che sa fare, non demolito per ciò che non è. Nelle condizioni attuali il ritorno di Borini è (era?) un’idea intelligente, perché gioca sia da trequartista che da punta e ha fiuto del gol; ma secondo la Gazzetta dello Sport economicamente il Verona non sembra nemmeno in grado di competere con la neopromossa Cremonese.

Servirebbe vendere (come se negli ultimi anni non si fosse venduto abbastanza), ma per non indebolirsi non si possono cedere Doig o Tameze, l’unico sacrificabile sarebbe Ilic, che però è costato 10 milioni e che difficilmente porterebbe una plusvalenza. Ecco spiegato perchè sul mercato siamo incartati. Ma qui torniamo a Setti e a una gestione economica-finanziaria degli anni scorsi che pone tante (troppe) domande.

VITTIME DI UN TEMPO SOSPESO (INVECE SERVONO FACCE NUOVE)

Non bastano due allenatori (il tandem Bocchetti—Zaffaroni ci riporta ai primi anni ’90 di Liedholm-Corso) per dimenticare il vecchio. E così Ivan Juric, da un anno e mezzo al Torino, dopo la partita del fu Comunale, oggi Olimpico, troneggia in sala stampa disquisendo del Verona. Ne parla come se fosse ancora il “suo” Verona. Indica la strada, dispensa consigli sull’applicazione del “suo” calcio al discepolo Bocchetti, accenna alla migliore formazione e suggerisce financo le operazioni di mercato di questo gennaio (“non va sbagliato l’attaccante”).

Orologi rotti, spazi temporali inesistenti, impalpabili. L’Hellas Verona lotta affannato contro un tempo sospeso, di cui è vittima. Juric non c’è più da un anno e mezzo, eppure è come se questo anno e mezzo non fosse mai trascorso. La sua ombra aleggia da sempre, nelle nostre cronache, nel vociare dei tifosi, ma soprattutto più o meno inconsciamente anche in società. Del resto Setti, dopo Ivan, ha piazzato sulla panchina degli emuli (Tudor e poi Bocchetti) e anche nei brevi interregni di Di Francesco e Cioffi pretendeva il calcio del croato. Ebbene, le dichiarazioni di oggi pomeriggio del convitato di pietra – Juric appunto – scoperchiano il vaso di pandora e con esso deflagra l’equivoco: non ci siamo ancora emancipati dal (mirabolante) passato, lo vogliamo rivivere, aneliamo impossibili déjà-vu , senza però che ci siano le condizioni per ripeterlo in altre vesti e con nuovi attori.

Segno di debolezza. Del club. Di un presidente che naviga a vista, di anno in anno, va a fiammate e chiari di luna. Nella scorsa stagione ha fatto il passo più lungo della gamba (basta vedere il monte ingaggi dei Simeone, Barak ecc), salvo trovarsi a dover ridimensionare in estate, quindi incartato e senza potere contrattuale (da qui la svendita dei big). Aggiungici la confusione totale nella scelta dei dirigenti (Marroccu) e dell’allenatore (Cioffi, pagato non poco peraltro). La tempesta perfetta, già vista ai tempi di Gardini-Bigon e poi Fusco, corroborata dagli inopportuni e ineleganti mega-compensi da amministratore che Setti si auto-elargisce.   

L’arrivo di Sogliano è una pezza di buon senso, perché Sean, pur in una fase delicata e non certo ascendente della carriera, rimane comunque uomo di calcio capace di stare alla scrivania ma anche sul campo. Forse una piccola scossa nello spogliatoio si è pure avuta: il pari e la discreta prestazione di Torino sono timidi segnali di risveglio. Svolta o pannicello caldo? Si vedrà lunedì con la Cremonese.

Però il mercato langue. Non ci sono soldi (i chiari di luna settiani dopo i fasti del 2021 ora dicono spending-review), dunque è necessario cedere un big per poter reinvestire qualcosa e tentare qualche innesto interessante (il più sacrificabile è Ilic, che però nel migliore dei casi sarà un nuovo caso-Simeone, ergo una piccola plusvalenza poiché è costato dieci milioni e una percentuale della rivendita va al Manchester City). Ci vorrebbe una punta che sappia fare gol e più di qualche faccia nuova. Rinnovare il gruppo per ricreare entusiasmo e poi giocarsela, vada come vada.

“Quando non hai niente, non hai niente da perdere” (Bob Dylan).  

ECCO PERCHÈ SETTI HA SCELTO SOGLIANO

Carta della disperazione, o del rilancio? Il ritorno di Sean Sogliano è forse un po’ tutte e due agli occhi di Maurizio Setti, che aveva (ingiustificatamente) silurato il suo ds nel 2015 dopo tre anni di ottimi risultati sportivi ed economici (leggi plusvalenze), per continuare la storia di amorosi sensi con l’allora direttore generale Gardini. Il quale, mentre accusava Sean di spendere troppo, firmava un quinquennale milionario a un Pazzini con il ginocchio disastrato. Altri tempi.

I tempi di oggi invece accertano che Setti è seriamente preoccupato, altrimenti non avrebbe richiamato uno spirito libero come Sean, lui presidente che – come molti altri – ama avere (legittimamente) il controllo di tutto. Ma Setti è uomo pragmatico e sa che retrocedere significherebbe compiere il primo dei due passi per perdere il Verona e tutto il business che ne deriva. Il secondo passo sarebbe non risalire immediatamente, ca va sans dire, cosa peraltro possibilissima (vedi Parma, che ha ben altri capitali). Diciamocelo: non sempre ti va ricca come l’anno di Pecchia (2016-17), non sempre trovi il Palermo che fallisce, il Cittadella che ti fa l’harakiri e Aglietti il miracolo sulle macerie di Grosso (2018-19). Insomma, Setti è uomo (molto) fortunato (anche quest’anno: scelte disastrose, squadra smobilitata, ma sosta del mondiale provvidenziale), ma è lui il primo a sapere che la fortuna è meglio non sollecitarla troppo che poi magari ti si rivolta contro.

In sostanza Setti, impaurito e sotto-pressione, si trova nella condizione di tornare a fare puramente calcio, ridimensionando la politica dei procuratori e del calciomercato “telecomandato” dall’alto. Da qui la scelta di tornare a lavorare con un uomo di calcio e non di politica, finanza o relazioni.

Basterà? Non lo so, salvarsi resta molto complicato, ma il tempo c’è. Servirà mettere mano alla squadra (cambiare almeno 4 titolari) e forse anche alla conduzione tecnica. Servirà innanzitutto saper vendere chi non serve, per poter comprare i giocatori funzionali alla causa.

Il Sogliano II non è così sorprendente neanche sul piano…emotivo. Lui e Setti si erano lasciati malissimo e fino al 2018 i rapporti (anche pubblici) erano al vetriolo. Poi il graduale riavvicinamento, non a caso già due volte Sean è stato vicino al Verona: nella primavera 2019, prima che arrivasse Aglietti e agguantassimo i play off, e la scorsa estate dopo l’addio di Tony D’Amico.

Il suo ritorno intanto ha già ha avuto un effetto: ha rincuorato e (ri)motivato la tifoseria, molto legata al ds, il quale a sua volta ama Verona (ma in pubblico, per evitare ruffianerie, non lo sentirete mai pronunciare dichiarazioni roboanti al riguardo) e che a Verona torna ad avere una compiutezza sentimental-professionale che in questi anni, altrove, forse aveva smarrito. La mia impressione, infatti, è che Sogliano abbia lavorato in altri club senza mai davvero dimenticare l’Hellas e, anzi, appesantito dal rimpianto di un cammino che lui ha vissuto come interrotto sul più bello. Adesso si chiude un cerchio. E, chissà, forse se ne riapre un altro…

DOPO L’AUTO-COMPENSO (MILIONARIO), ARRIVA L’AUTO-ELOGIO

Le dichiarazioni di Setti? Lunari e quindi incommentabili. Perché non val nemmeno la pena spendere due righe per chi afferma che il Verona di oggi è più forte di quello della scorsa stagione; o per chi dopo anni di slogan ragionieristici (“prima il bilancio” e il “Verona si deve auto-sostenere”), con le spalle al muro e impopolare tra opinione pubblica e tifosi, cambia subitaneamente narrazione e cerca forse di commuovere la platea spiegando che il club nel quale lui auto-percepisce compensi milionari “spende più di quanto incassa”. Cosa dire? Ascoltate le sue parole, auguriamo sinceramente a Setti, come faremmo con chiunque, tanta salute e di tornare a dormire sereno.

Del resto la conferenza stampa di ieri del presidente del Verona è un triste, affannato, crepuscolare, narcisistico soliloquio, in cui mancava solo che si facesse l’applauso da solo. Non una mezza autocritica, il barile delle colpe scaricato sui collaboratori (“sono tutti in discussione”), e anzi l’auto-elogio, non bastasse l’auto-compenso: “Ho molti meriti in questi dieci anni” (rispetto, ca va sans dire, alla storia del Verona).

Resta l’ennesimo scempio dopo i campionati di Gardini-Bigon del 2015-16 e Fusco-Pecchia del 2017-18. Il solito smantellamento dopo una manciata d’anni discreta, con ricchi diritti tv (ininterrotti dal 2013, considerando tali anche i paracadute) e plusvalenze. L’ennesima altalena, come scrivevo lunedì scorso, di investimenti e disinvestimenti (i risultati sportivi sono una conseguenza). E come da tradizione quando butta male, le conferenze stampa piene di vuoti, vaghezze e alibi. Un déjà vu che non ci viene spiegato, perché forse non tutto può spiegare. Ma quantomeno Setti ci risparmi inutili parole. E’ già dura sopportare questa agonia.