QUALE FUTURO?

Il Verona, che ha onorato il suo campionato, nelle ultime due partite ha un po’ mollato. Siamo ormai alla fine e quindi poco si può rimproverare. Peccato solo per quei ventimila che sabato contro il Torino hanno dato ancora fiducia alla squadra in una partita di fine stagione: cosa rara e commovente.

Commoventi (e sincere) anche le parole di Juric in sala stampa. Il grande ex a Verona ha lasciato il cuore. Tanti non lo hanno perdonato e si può capire: l’addio è stato spiccio e brutale nei modi.  Ma le scelte professionali, nel calcio, quasi mai sono una questione di cuore. Nulla toglie a quello che ha fatto Juric a Verona e a quello che è Juric come persona. Il tempo rimarginerà la ferita.

Siamo alla fine e non si sa nulla del futuro. D’Amico è destinato a cambiare aria, Tudor invece non si è mai sbilanciato. L’asciuttissimo tecnico croato, che non brilla per espansività e simpatia, merita la riconferma. Il prossimo campionato sarà la prova del nove: quanto ha vissuto di rendita e quanto ci ha messo del suo? E quanto hanno inciso i giocatori?

Già i giocatori. Barak è sicuro partente, Casale gli andrà dietro. Balla ancora invece il futuro di Caprari, Simeone, Tameze. I gioielli sono tanti, ma servirebbe un segnale nuovo da parte di Setti: due cessioni al massimo (Barak e Casale), altrimenti sarà l’ennesima rifondazione. Mi aspetto il definitivo salto di qualità di Ilic, ancora troppo discontinuo, incerto e timido. Il suo talento merita di più.

A proposito di Setti. Sarà lui l’uomo del nuovo centro sportivo? Le voci (mai smentite) di una cessione della società corrono. Il calcio cambia, i fondi stranieri prenderanno sempre più piede.  Sarebbe da capire se sarà l’attuale proprietà a costruire (o rilevare) un centro sportivo, o se dovremo aspettare nuovi capitali. Di certo pare naufragata l’ipotesi dello stadio dei messicani, tanto voluto da questa amministrazione comunale, ma che avrebbe allontanato qualsiasi nuovo investitore dal Verona. Chi comprerà il club lo stadio se lo vorrà costruire in proprio.

Infine fatemi concludere con un applauso al mio amico Marco Gaburro. Per lui quella con il Rimini di ieri è la quarta promozione dalla D alla C in carriera. La terza negli ultimi quattro anni. Ora a 49 anni merita di giocarsi la sua chance in serie C.    

SETTI, SE VENDE, FA L’AFFARE DELLA VITA

Igor Tudor ha aperto una breccia sul (suo) futuro: “Con questo Verona firmerei cento anni”. Uno slancio sentimentale del momento, certo, che chiaramente non basta a chiarire se resterà. Però quella frase è anche una presa d’atto di rilievo: il Verona oggi è un club strutturato economicamente, con giocatori forti e realtà brillante del calcio italiano. È merito di Setti, che dopo le altalene, le omissioni, le opacità anche finanziarie (vedi il caso Volpi) ha trovato una certa solidità di gestione da società di medio livello.

Ma fino a quando possiamo stare tranquilli? Nel calcio attuale tutto è scivoloso, labile, provvisorio. Mi fa ridere quando sento qualcuno parlare di progetto: appena si è parlato di progetto-Atalanta, Percassi ha venduto. Non esistono progetti, ma solo il presente. Tudor infatti ha detto che firmerebbe con “questo” Verona.

Arrivo al punto: in settimana sono uscite indiscrezioni, con tanto di cifre, su una trattativa tra Setti e degli investitori per la cessione della società. Setti non solo non le ha smentite, ma qualche giorno dopo alla Gazzetta di Mantova ha dichiarato che, a meno di sorprese, non venderà il Mantova, suo secondo club. Parole non casuali: sappiamo che dal 2024-25 non saranno più ammesse le doppie proprietà, Setti entro allora dovrà decidere dove restare.

Pare dunque che Setti sia intenzionato a scegliere il Mantova e non si tratterebbe solo di un’imposizione del regolamento: Setti, al di là della facciata ranzanesca da rampante ganassa di provincia, è un uomo pratico e realista, da emiliano delle Basse. Sa che qui ha ottenuto quasi il massimo, che il Verona – che oggi vale 100-120 milioni – con lui non può crescere poi così oltre. Inoltre il calcio continua a cambiare in fretta e sono i fondi d’investimento internazionali a farla sempre più da padrone. Dieci anni fa Setti prese il Verona a poco e in questo lasso di tempo, tra diritti tv e plusvalenze, il club ha già incassato qualche centinaio di milioni. Business lo ha già fatto, ma diciamocelo: vendendo farebbe l’affare della vita.

Secondo questo ragionamento la domanda, quindi, non è tanto se vende, ma quando. Qualche voce accreditata nel mondo del calcio prevede che possa accadere già entro l’estate. Non è da escludere, anche se credo che un altro anno Setti potrebbe prenderselo per acquistare un centro sportivo – o un terreno dove costruirlo – in modo da accrescere definitivamente il valore del club (e della cessione).

In questo ampio scenario ballano, di conseguenza, anche le posizioni di D’Amico e a ruota Tudor. C’è ancora da aspettare.   

EMPATIA, CULTURA E STORIA: QUESTE SCONOSCIUTE

In tempi non sospetti scrivevo di un Verona contabile, inteso come società, che piaceva solo ai tifosi contabili, gli onanisti del calciomercato e delle plusvalenze (come se fossero poi soldi loro). La vergognosa dimenticanza del lutto al braccio ieri a San Siro in memoria di Ciccio Mascetti è la conferma di un club dalla mentalità solo economicistica, in nome del dio plusvalenza, dei gretti e grotteschi inglesismi (l’ultimo in ordine di tempo è la Foundation, perché Fondazione pareva brutto), di una tifoseria che sembra trattata solo come bancomat e dei media locali forse annoverati alla stregua di cani da riporto del verbo ufficiale.

Setti potrà consolidare (lo sta facendo e gliene do atto), realizzare il centro sportivo (per ora sono solo dieci anni di promesse), lasciare che il Comune faccia costruire lo stadio a un messicano sconosciuto che non porterebbe un euro al club e alla città (ma tranquilli, è solo fantascienza che piace ai giornali). Può fare questo e altro, ma riceverà l’applauso solo dei tifosi consumatori e contabili, quelli che guardano solo alla categoria, una bolla social che non è il cuore di Verona e del popolo Hellas. La realtà ci dice di un calcio business ma con sempre meno spettatori tv e stadi semi-deserti. Attenzione rischia di succedere anche a Verona, dove il paradosso è che nonostante la serie A, la passione per questo calcio che non crea epica sta scemando.

Rimane l’amore per il Verona Hellas in quanto essenza, storia e identità. E’ la benzina di tutto. Per questo lo sfregio a una bandiera è stato un atto di una vergogna infinita e indicibile. L’ennesimo segno, il più grave, dell’assenza di empatia e cultura per ciò che siamo. Questione di anima, c’è chi ce l’ha e chi no. Chi ne è sprovvisto magari arricchisce il suo conto in banca, ma non passera mai alla storia. A differenza di Mascetti.

TUDOR ETERNO SOTTOVALUTATO. MA HA CREATO UN SUO VERONA CHE NULLA C’ENTRA CON JURIC

Sempre a rimorchio, nel cono d’ombra. Igor Tudor, mediaticamente e nell’opinione comune, sembra condannato a vivere di luce riflessa. Arriva a Verona, con la squadra a zero e depressa, ti fa 45 punti in 28 partite, eppure ancora oggi il suo Verona non ha l’allure del Verona di Juric.

Se Ivan ha fatto scuola e storia, pare quasi che Tudor sia qui per caso, un comprimario. Se con il Verona di Juric si parlava…di Juric, che monopolizzava e accentrava tutto, come se i giocatori fossero dei modesti mestieranti (e invece avevamo Kumbulla, Pessina, Zaccagni, Rhamani, Barak, Amrabat, Lazovic eccetera), con il Verona di Tudor si parla e scrive (giustamente) di Simeone, Barak, Tamezé, Caprari e persino della crescita dirigenziale di D’Amico (con Juric quasi un pària per i giornali), ma poco o nulla dell’allenatore. Addirittura si sussurra, ma non si dice apertis verbis, che Tudor viva di rendita del lavoro del predecessore.

Lo stesso Tudor, qualche mese fa, nella sala stampa del Bentegodi dopo la vittoria con la Juventus (ero lì presente), alla domanda di un collega della stampa nazionale che gli rinfacciava la sua carriera da tecnico non all’altezza della sua (sottovalutata) bravura, ammise tra le righe di non sentirsi considerato come meriterebbe.

Ha ragione. Chi scrive ha ammirato e stima Juric, maestro del gioco difensivo e delle fulminanti ripartenze verticali, ma ho sottolineato più volte gli ottimi giocatori che aveva a disposizione. Tudor forse ha una squadra ancora più forte (siamo più deboli dietro, ma molto più qualitativi davanti), ma ci ha messo decisamente la sua impronta, psicologica e di gestione ancor prima che tattica. Tudor sul piano dell’organizzazione è meno bravo di Juric (ma pochi in Europa sono superiori al nostro ex allenatore), ma è migliore nella gestione dello spogliatoio e pure nella valorizzazione del singolo talento. Tudor è stato un grande calciatore e si vede: ha un rapporto più liberale ed empatico con i ragazzi, ogni tanto lascia correre e si gira dall’altra parte; Juric invece era un martello, esasperava, portava al limite ognuno. Sono due metodi entrambi vincenti, ma differenti. Juric, in tal senso, potremmo paragonarlo a Conte o al Mourinho di una volta, Tudor è un Ancellotti.

Credo quindi sia ora di dare a Tudor e al Verona di Tudor un suo volto e una sua cifra anche sul piano mediatico. L’Hellas attuale è una squadra molto diversa da quelle precedenti. Tudor e Juric sono amici e giocano con lo stesso modulo, ma le similitudini finiscono qua. Smettiamola di paragonarli e di considerare Igor il successore (sbiadito) di Ivan.

SNODO HELLAS: IL FUTURO DI D’AMICO

Di veri direttori sportivi oggi ne esistono pochi. Molti sono scendiletto dei presidenti, che delegano sempre meno e non concedono poteri di firma o gestioni dirette del budget. È il motivo per cui ne troviamo di mediocri in serie A e di bravi nella risulta della B (vedi Marchetti).

Tony D’Amico è un operativo, nella struttura snella del Verona è titolare di deleghe pesanti, sebbene sia poi Setti a gestire direttamente le operazioni più importanti e danarose. Non stupisce dunque che D’Amico possa avere una pretendente come l’Atalanta, club nella quale la figura del manager sportivo ha ancora una sua specificità,  si veda il lavoro svolto da Sartori in questi anni. D’Amico, 41 anni, ds dell’Hellas dal 2018, ma a Verona già dal 2016 come capo-scout di Fusco, è uno che è cresciuto in fretta e bene. È un sanguigno e un rampante, coltiva le sue ambizioni. Tradotto: non possiamo dare per scontato che rimanga.

I punti nodali sono due: deleghe e budget. Escluso che Setti possa ampliare i poteri di D’Amico a discapito dei suoi, non ci si deve aspettare grandi aumenti nemmeno sul budget da destinare alla squadra. Qualcosa in più ci sarà, Setti dal 2020 ha sempre gradualmente accresciuto il livello degli investimenti. Tuttavia la solfa sarà la solita: saranno ceduti i più bravi (Barak, Caprari e Casale sono gli uomini mercato), che andranno rimpiazzati senza indebolirsi sul piano tecnico. D’Amico ci è riuscito bravamente negli ultimi due anni, ma è il primo a sapere che non è scontato ripetersi sempre e in automatico.

Gli affezionati lettori sanno come la penso: il Verona resta, gli uomini passano. Il mio pensiero è anche la filosofia di Setti, che non si è mai legato a nessuno più del necessario. Ha ragione. Personalmente ho sempre rigettato la mitizzazione degli allenatori, che fossero Mandorlini o Juric. Sul lavoro di quest’ultimo abbiamo vissuto un po’ di rendita anche quest’anno, eppure è stato giusto separarsi se non c’erano più le condizioni di stare assieme. Le motivazioni sono alla base di tutto, valeva per il tecnico croato, determinante per il consolidamento del club, vale per D’Amico. Dico però anche che un direttore sportivo, per certi equilibri, può essere più importante di un allenatore.

Oggi D’Amico rappresenta innanzitutto un metodo di lavoro che si sposa perfettamente con la struttura che ha creato Setti. Questo ingranaggio è più sottile e difficile da replicare di un modulo di gioco. Di allenatori ce ne sono tanti, più o meno bravi certo, ma è una categoria maggiormente intercambiabile. Siamo a uno snodo decisivo per il Verona, che per la prima volta dagli anni ‘80 farà il suo quarto torneo di serie A consecutivo. Ci stiamo consolidando, ma non ci siamo ancora consolidati. La differenza è tutta qui. E richiede di non sbagliare la scelta sul diesse.   

LA VITA REALE NON È LO STADIO (MA C’È CHI ANCORA FINGE DI NON CAPIRLO)

Ma davvero stiamo parlando da due giorni di uno striscione? Leggo editoriali, commenti, discussioni di una banalità sconcertante. Le solite chiose strumentali: da un lato gli attacchi frontali (e scontati) dei mass media e politici nazionali; dall’altro le consuete contorsioni retoriche dei nostri, tra esclamazioni piagnone: “Verona non è questa” (ma va? grazie, se non ce lo dicevi mica lo sapevamo); e code di paglia paracule: “Condanno ma non gettiamo fango” (il cerchiobottismo di chi vuole apparire ma senza scontentare nessuno) eccetera eccetera. Ha parlato persino quel nostro parlamentare che si era fatto immortalare in mutande sui social…

Dicotomie sterili, che non aggiungono e tolgono nulla al cuore della questione: se dei buontemponi (mica penserete che davvero vogliano bombardare chissà chi…) pensando di essere simpatici la fanno fuori dal vaso, perché siamo così banali e conformisti da rincorrerli? Solita politica, dove ognuno difende il suo orto. Solito giornalismo pigro, con il pilota automatico, che insegue e mette in pagina il nulla, senza pensiero e senza discernimento. Alla fine, diciamocelo, fuori da ogni ipocrisia, del fatto in sé frega niente a nessuno: conta parlare di se stessi e rallegrarsi di quando noi siamo civili rispetto a quell’orribile striscione (ma va?), buttandoci dentro anche quel che non c’entra nulla, ma ci pulisce la coscienza: l’aiuto ai profughi, il volontariato, la bontà eccetera.

Quando impareremo (in primis come categoria) a non rincorrere i social? Quando capiremo di non dare importanza alle idiozie? Quando faremo un bagno di realtà (e di umiltà cronistica, anche) e finalmente prenderemo atto che fuori dalle “cose da stadio”, anche quelle più pesanti e ignobili (lo striscione), la gente si ama o si sta sul cazzo a prescindere dalla carta d’identità? Che il mondo reale non è lo stadio? Che anche un veronese ama il genio di Troisi o la grandezza di Totò, legge Scurati o De Crescenzo, trova spassoso l’avvocato Malinconico di Da Silva, va a teatro a riscoprire Eduardo, come un napoletano e milioni di altre persone nel Paese? Che fuori dalle “cose da stadio” veronesi e napoletani, magari colleghi di lavoro, amici, cognati, una birra insieme se la fanno? Quando la pianteremo di creare falsi contrasti e di proiettare la nicchia “stadio” alla vita?

Il mondo reale è già più avanti di queste contrapposizioni. Non ha tempo per queste masturbazioni identitarie. Torniamo sulla terra?

24 PUNTI PER L’EUROPA. IL DOVERE DI SOGNARE

Se volete sussurratelo, per timidezza. Ma a Firenze, domenica prossima, il Verona gioca uno scontro diretto. Con tre mesi di campionato e undici giornate da giocare è necessario ragionare in questi termini, quindi considerare quello con la Fiorentina un crocevia per l’Europa. L’ho scritto altre volte: questa è l’unica strada per dare pieno significato, fino alle fine, al campionato. Il Verona di Tudor, salvo da sempre, ad oggi ci sta riuscendo. Ciò non significa – mi pare persino ovvio sottolinearlo – che raggiungere l’Europa sia un dovere; aggiungo: forse non è neppure realistico. Tuttavia è un dovere inseguirla. Ma è chiaro che adesso, che la posta si alza, grandi margini di errore non sono concessi.

Quando parlo di Europa intendo sia la Conference League (probabilmente al settimo posto), ma anche l’Europa League, per cui dovrebbe bastare il sesto posto, con Inter, Milan e Juve in semifinale di Coppa Italia. Il Verona, nono a 40 punti, è appena a tre punti dalla Lazio settima e a quattro dalla Roma sesta. Tutto è apertissimo, ma è chiaro che servono gli straordinari e aumentare (ancor più) la propria velocità. Con Tudor la media punti a partita segna 1,6, proiettandola per le undici rimanenti significherebbe raggranellare altri 18-19 punti e chiudere a 58-59. Sarebbe un risultato ragguardevole, il migliore della storia del Verona con il campionato a venti squadre (il record è di 54 con Mandorlini nel 2013-14) e probabilmente basterebbe per entrare nelle prime otto (anche questo sarebbe un record, il miglior piazzamento dall’era Bagnoli). Ma non per raggiungere l’Europa. Per quella credo siano necessari almeno 24 punti, oltre due a partita.

Il calendario non ci sorride. È vero, abbiamo cinque squadre alla portata: Empoli, Genoa, Sampdoria, Cagliari, Torino. Lì non si dovrebbe sbagliare di una virgola. Poi tre match di difficoltà medio-alta (Fiorentina, Atalanta, Lazio in trasferta) e tre che sembrano proibitivi, Napoli, Inter e Milan. Eppure l’Hellas sa come sgambettare una big, ma sarebbe ancora più importante fare risultato con le dirette concorrenti Fiorentina e Lazio. Domenica comincia il ballo…

L’ONORE DEL VERONA, LE REGOLE COVID CHE DISCRIMINANO LE PICCOLE E I SEGNALI DI ILIC A TUDOR

Il Verona sta onorando il suo campionato. Va sottolineato, perché la classifica di certo non aiuta a tenere accesa la fiammella di un obiettivo. Il nono posto è di tutto rispetto, il Verona con Tudor non è mai stato invischiato nella lotta per non retrocedere. Risultati che seguono la scia di quelli di Juric e che confermano come il club di Setti stia completando il percorso di consolidamento in serie A.

Per l’Europa si deve guardare alla Fiorentina, settima, che ha cinque punti in più, ma (teoricamente) la partita da recuperare con il Cagliari. Neppure l’incertezza che regna nel calendarizzare i recuperi contribuisce a chiarire le possibilità del Verona di migliorare la sua classifica.

Il pari di Roma non deve lasciare rammarico. La differenza, rispetto alla Roma, l’ha fatta la condizione fisica impari del secondo tempo. Hanno inciso anche i cambi e qui c’è una questione che il calcio dovrebbe prima o poi affrontare: finché rimane in vigore la regola dei cinque (istituita nel 2020 dopo il primo lockdown) saranno favoriti le squadre più potenti, che dalla panchina possono pescare da un mazzo migliore. Altro che livella: il Covid, nel calcio come nella vita, ha acuito le differenze sociali. Coerentemente, l’intenzione dei padroni del vapore – gli stessi che negli anni hanno trasformato uno sport in una sorta di comitato d’affari – è è quella di confermare definitivamente la regola anche dopo il 31 dicembre 2022.

Nota a margine dedicata a Ivan Ilic. Il suo primo tempo con la Roma è la miglior risposta ai critici, ma anche un segnale che Tudor deve cogliere. Il talentino serbo ha bisogno come il pane di accoppiarsi a un mediano di sostanza come Tamezè, mentre accanto al vecchio Veloso si danna inutilmente l’anima. Tudor ha raggiunto il punto di equilibrio solamente per l’infortunio del portoghese. Ilic inoltre si esprime meglio sulla trequarti anziché in regia, Olimpico docet. Non possiamo permetterci di perdere un giocatore così giovane e così raffinato calcisticamente, per non averlo valorizzato adeguatamente.

SETTI FISSI UN NUOVO OBIETTIVO. E SUL FUTURO DI TUDOR…

Con il mercato la società, tenendo i pezzi migliori, ha dato un segnale: si deve concludere con dignità il campionato. Pertanto niente sbracamenti, o vacanze anticipate. C’è stato il divorzio, un po’ furtivo e improvviso, con Kalinic, però nella sostanza era chiaro da mesi che in attacco, dove c’è abbondanza, uno se ne sarebbe andato. Intoccabile Simeone, restava da piazzare uno tra Lasagna e il croato, quest’ultimo con più mercato.

Le conferme di Barak, Caprari, Casale ecc sono un buon viatico per questa seconda parte di torneo. Tuttavia non basta: sarebbe auspicabile che il presidente Setti fissasse pubblicamente un nuovo obiettivo, così da legittimare il lavoro dell’allenatore e compattare lo spogliatoio da qui a maggio. L’unico che si è esposto su traguardi più ambiziosi è stato Barak, che non si è trincerato dietro le consuete minimali banalità. Ma il coming-out di un calciatore, per quanto autorevole, non basta.   

Il resto è nelle mani di Tudor e della squadra. L’allenatore croato si gioca anche il suo futuro a Verona. Qualsiasi trattativa per il rinnovo e l’adeguamento dell’ingaggio è congelata, la qual cosa a occhi esterni può perfino apparire incredibile dato il ruolino di marcia che il gigante di Spalato ha realizzato dal suo arrivo a Verona. Il club però si è dato tempo e vuole capire bene se Tudor può essere il futuro. Pensiero razionale, liberato da qualsiasi condizionamento emotivo, che mi sento di condividere, come a suo tempo fui tra i pochi (forse l’unico) ad appoggiare il divorzio da Aglietti. Una società forte è indipendente dalla figura di qualsiasi allenatore e persino dal suo rendimento. Lo pensavo (e l’ho scritto) anche ai tempi di Juric, che pure è stato la figura più importante (tecnica-finanziaria) del Verona dell’era Setti.

SIAMO IL VERONA E CI SERVE LA BATTAGLIA! ECCO PERCHE’ NON BASTA LA SALVEZZA…

Qualche lettore si è arrabbiato per il mio articolo precedente: “Noiosa comfort zone: cosa ce ne faremo del girone di ritorno?” che seguiva la sconfitta con la Salernitana. Un pezzo deliberatamente provocatorio, scritto con il Verona a 27 punti. Be’ quelle parole assumono ancora più significato dopo le due (convincenti) vittorie con Sassuolo e Bologna e la classifica che ci vede a quota 33.

Perché, con la salvezza da tempo abbondantemente acquisita (ma possibile che dopo vent’anni siamo ancora schiavi del ricordo di Piacenza? Tra l’altro quella retrocessione con il calcio c’entra davvero poco…), il Verona deve dare un senso a questa ultima parte di torneo. Ne ha il dovere morale, innanzitutto.

Non possiamo accontentarci di raggranellare pigramente, per inerzia, altri 12-13 punti nelle quindici giornate che ci rimangono. Dobbiamo inseguire un obiettivo più alto, che non significa raggiungerlo, ma quantomeno provarci. Lo diceva Thomas Elliot: “Quello che conta è il percorso del viaggio, non l’arrivo”. Alzare la posta significa mantenere alta la tensione (della squadra) e avere un motivo valido non solo per guardare ma per vivere (i tifosi) con intensità le partite.

Vengo al punto: non è importante arrivare in Europa, ma pensarla, inseguirla, anelarla sì, eccome. Altrimenti possiamo tranquillamente già chiudere le serrande e parlare a quattro mesi dalla fine del campionato di mercato estivo, transazioni finanziarie, bilanci, cioè tutto quello che non è presente, che non è calcio e che non è l’essenza per cui si segue e tifa il Verona.

Ditemelo voi se vogliamo diventare mediocri e compiaciuti contabili di tranquille salvezze e morta lì. Ditemelo voi se volete un Verona che a metà annata non ha più un motivo agonistico valido per scendere in campo. A quel punto preferisco lottare per la salvezza fino alla fine, soffrendo come un cane.

Ok, è una provocazione anche questa, ma ribadisco: noi non siamo il Sassuolo e non siamo l’Empoli, club rispettabilissimi ma per i quali vivacchiare, quando e se ci riescono, non è un problema. Non saremo mai nemmeno il fu Chievo. L’Hellas è club espressione di una piazza passionale, stare nel comodo limbo non fa per noi. La nostra benzina è avere una meta, un “nemico” e una battaglia, magari campale, da fare. Ci piace stare sempre un po’ sulle spine, inquieti e scorbutici. Non è un caso che sentimentalmente ci siamo uniti, compattati e divertiti (sì divertiti…) come non mai negli anni di C. Stare troppo a lungo lì nel mezzo non ci si addice. L’anonimato piccolo-borghese va bene sul piano tecnico e finanziario (restiamo in A e il club diventa più ricco per restarci ancora, in un circolo che si auto-alimenta), ma potrebbe essere devastante sul piano identitario. Va tenuta alta la fiamma della passione, a costo di rompere i coglioni.