L’ANONIMATO SENZA NARRAZIONE

Fatico a concepire il calcio, e lo sport in generale, se è privo di un obiettivo. Apprezzo dunque che Setti ieri abbia apertamente parlato di rincorsa al settimo posto e abbia esortato la squadra a non “perdere l’agonismo”.

Questo è storicamente il pericolo delle medio-piccole dopo un eccellente girone d’andata.  Ed è un rischio che sta correndo anche il Verona, che vive un paradosso: i suoi indubbi meriti ora lo portano a essere “noioso”, cioè privo anzitempo di un obiettivo.  Da tempo siamo inchiodati lì nel limbo del nono-ottavo posto, sempre distantissimi dalla zona rossa (e questo è un merito assoluto), eppure non in grado di puntare all’Europa. E la sconfitta di Reggio con il Sassuolo rischia di rinforzare questo limbo. Gli emiliani ci hanno superato in ottava posizione e hanno una partita in meno, come la Lazio, settima, che ha già otto punti in più.

Noi mass media possiamo inventarci “la qualunque”, raccontarla bella, ma il momento attuale è privo di qualunque reale storytelling. In più gli spalti vuoti e i bar chiusi, ergo la parte popolare del calcio, quella che è anima e narrazione a prescindere dai risultati, ci mettono il loro devastante carico a questa anonima medietà.

Vorrei il classico colpo di coda della squadra, cioè un filotto di vittorie prodigioso per riavvicinarci a una meta. Setti lo ha chiesto, forse ora si annoia anche lui.  In ballo non c”è tanto l’Europa, ma arrivare a maggio con un significato. Altrimenti, per dirla con Gianni Brera, sarà solo un masturbatio grillorum.

IL SETTI INEDITO

Il Verona con Juric è una realtà del calcio italiano: pareggiare con disarmante autorevolezza contro una buona Juventus  – non più la trascendentale di Allegri, certo, ma pur sempre squadra da terzo o quarto posto – attesta il superbo lavoro in questo anno e mezzo del tecnico di Spalato.

L’ambizione di Setti tuttavia deve essere quella di restare così a prescindere da Juric – auspicando ovviamente che l’allenatore (che ha altri due anni di contratto a cifre a sei zeri) rimanga il più a lungo possibile. Setti ci pensa; Setti (probabilmente) ci ha preso gusto; Setti potrebbe aver capito come si fa e questo sarebbe il fatto più importante. Sabato a Dazn prima della partita ha accennato anche al futuro, con una dichiarazione importante e inedita: “Il ritorno alla normalità (post Covid, nda) potrebbe farci puntare a una dimensione diversa”.  Mai prima di oggi il presidente del Verona si era esposto così. E mai si era espresso sulla stagione successiva con tale anticipo.

Intendiamoci, non credo ci saranno mai grossi investimenti (Setti con il calcio fa business e per farlo deve mantenere una gestione lineare, piatta), ma potranno ripetersi operazioni intelligenti come quella di Lasagna. Setti ha auspicato anche al ritorno del pubblico e certamente piange il cuore sapere di avere una tifoseria calorosa e fortemente identitaria costretta a restare davanti alla tv (sebbene sappiamo che il Covid ha implicazioni più serie di questa).

Ecco, diventare ancora più forti sarebbe il più bel regalo ai tifosi per quando torneranno. La bellezza di oggi passa quasi in sordina con gli spalti vuoti, sembra quasi sprecata. “La felicità è reale solo quando è condivisa” diceva Tolstoj.  L’impegno morale del club sarà farsi trovare pronto quando il Bentegodi riaprirà i cancelli.

 

 

TROVARE UN SENSO ALLA STAGIONE (ECCO COME)

E ora? Che senso diamo al campionato?  Il Verona di Juric è andato oltre le aspettative, ma ora caro Houston abbiamo un problema… emozionale. Quale obiettivo ci diamo da qui a giugno?  La beffa di Marassi mi ha colto impreparato: vincere significava tenere in piedi un senso, leggi la qualificazione europea, realisticamente improbabile ma non è questo ciò che conta: importava avere qualcosa a cui appellarsi per crederci, o quantomeno fingere di crederci.

Il pari di Genova ci porta a sette punti dalla Lazio (mentre scrivo la Juve deve ancora giocare con il Crotone, ma presumo che scavalcherà i laziali consegnandoli al 6° posto, l’ultimo a disposizione per l’Europa League), francamente troppi anche per (appunto) fingere di crederci. Insomma il paradosso è presto spiegato: siamo troppo forti per la lotta salvezza (e questo va a merito della società e del tecnico) e troppo deboli per l’Europa – questo era ampiamente prevedibile, intendiamoci.  Nel limbo di una media classifica  che la serie A a 20 squadre ha consegnato da troppi anni all’irrilevanza agonistica (con le 18 squadre quantomeno fino ad aprile gli obiettivi restavano anche per le squadre mediane), noi dobbiamo finire il campionato.

Un obiettivo realizzabile potrebbe essere quello di concluderlo nella parte sinistra, come lo scorso anno. Ma mi piacerebbe provassimo a inseguire l’8° posto oggi del Sassuolo, sarebbe il miglior risultato della nostra storia, ciclo Bagnoli a parte. Resta però un calendario complicato e una squadra che sembra avere qualche certezza in meno del girone di andata (lo scrivo dopo 4 punti in due partite…). Juric è la garanzia che non si mollerà di un centimetro, la premialità economica alla società in base alla posizione finale di classifica è un altro buon motivo  per esserne certi. Tuttavia oggi l’impressione è che sia più facile essere risucchiati da due-tre squadre dietro che superare il Sassuolo, e dobbiamo lottare affinché non succeda. Anche questo può essere un significato.

Lo è anche la partita di sabato sera con  la Juventus. Giusto un anno fa lo sgambetto a quella di Sarri fu il canto del cigno di un Bentegodi per l’ultima volta pieno. Senza pubblico è diverso, ma l’attesa ha sempre un suo fascino. E battere la Signora è una goduria in ogni tempo e in ogni luogo.

COSTRUIRE IL FUTURO

C’è un’inversione di tendenza: mentre la società prova a crescere (vedi Lasagna), si inchioda la squadra, scarica contro Roma e Udinese.

In realtà, messa giù così, la dicotomia è eccessivamente cruda: la dirigenza è semmai solo all’inizio di un percorso più virtuoso (insomma, una rondine non fa primavera e aspettiamo con buone intenzioni l’estate per avere conferme…), mentre la squadra sta accusando un momento di comprensibile calo dopo un girone d’andata decisamente sovrastimato.  Juric ha fatto un mezzo miracolo  a conquistare 30 punti in metà torneo (i 26 dello scorso anno rispecchiavano maggiormente il valore della squadra) ed è fisiologico che in questa seconda metà potremmo anche farne una decina in meno, non sarebbe uno scandalo.  Lo dice la storia della squadre medio-piccole che si ritrovano grandi nel girone d’andata, lo suggerisce soprattutto qualche limite di organico che lo stesso allenatore non ha mai nascosto. Poco male, lunedì contro il modesto Parma c’è la possibilità di un immediato riscatto, poi il calendario si fa un po’ in salita. Ma la salvezza è a 5-6 punti e quindi non vedo particolari problemi.

Credo invece che questo girone di ritorno possa servire a gettare le basi per il 2021-22, con Juric evidentemente. Abbiamo giocatori sui cui costruire  il nucleo del prossimo futuro: oltre a Lasagna, direi Kalinic,  a cui va dato ancora credito e tempo perché difficilmente il Verona potrà ingaggiare uno più bravo di lui. Poi Barak, Faraoni, il redivivo Bessa (maltrattato dalla società e da qualche ex dirigente in un recente e infausto passato e dato ingiustamente in pasto ai tifosi), Di Marco, Lazovic, Lovato, Silvestri e Magnani. Aggiungete altri due colpi “alla Lasagna” (intendo per spessore e investimenti) e allora sì che ci sarà il famoso consolidamento tante volte annunciato.

JURIC E LA STRADA DEL FUTURO…

Juric sta superando se stesso. Il suo calcio, antico, che ripropone la tradizione dei duelli individuali e del gioco verticale, è in realtà la cosa più moderna che oggi esista in Italia. Re Mida trasforma in oro ciò che tocca, ergo rigenera giocatori (Barak) e ne lancia di nuovi (Zaccagni e ora Tamezé). Il Verona che schiaccia il Napoli è una macchina perfetta, gira a 30 punti (erano 26 lo scorso anno), a soli quattro dall’Europa. Può ambirci? Molto dipenderà dal mercato, e Lasagna in tal senso sarebbe un innesto importantissimo.

Un anno fa, sul più bello (vittoria casalinga con la Juventus), ci fu il Covid a rubare il ritmo all’Hellas, che alla ripresa post lockdown non fu più lo stesso . “Senza la pausa con questa squadra saremmo arrivati in Europa” disse a fine stagione Juric. Chissà, certamente quel nono posto è bugiardissimo. Questo campionato è diverso: c’è una spaccatura tra le prime nove e le altre, ciò significa che per conquistare il sesto posto potrebbero servire più punti dei 66 del Milan nel 2019-20.

Ora siamo in corsa e pare averlo capito anche la società, che se dovesse concludere l’operazione Lasagna a 9,5 milioni di riscatto lancerebbe un segnale preciso. Saremmo di fronte per la prima volta nell’era Setti a un investimento per un ottimo giocatore nel pieno della carriera. Certo, non fanno piacere (e Juric  lo ha rimarcato) le continue dichiarazioni dei procuratori che offrono i nostri migliori giocatori a destra e a manca. Non fa piacere sentire un noto agente che sostiene che il Verona non può tenere Zaccagni, così, a prescindere. Sembriamo la vittima sacrificale, segno di una società che –  a differenza della squadra – è ancora piccola e deve crescere se vuole farsi rispettare.

E’ questo il punto dirimente: capire se si può alzare il monte ingaggi in modo che i Zaccagni di turno si possano tenere e, casomai, dopo, rivendere a cifre nettamente più alte con più forza in sede di trattativa. Capire se i giocatori più bravi  si possono confermare, oppure se si dovrà ancora una volta ricominciare daccapo.  Capire se Juric  può essere “solo” il valore aggiunto di un ingranaggio che si sviluppa, oppure l’uomo a cui continueremo a votarci totalmente (ammesso che rimanga in quelle condizioni).

La seconda strada sarebbe comprensibile, ma sbagliata. E’ una scorciatoia, tra l’altro, demagogica, accontenterebbe i tifosi, ma ti lascerebbe al palo.  Juric certamente va accontentato, lo abbiamo scritto e lo ribadiamo, perché lui oggi è il dominus che va protetto e coccolato. Ma va fatto all’interno di una strategia più a lungo termine, che possa sopravvivere un giorno allo stesso Juric. Insomma il metallaro di Spalato deve essere un “cavallo di Troia”, non il Messia.

 

 

 

 

POCHI SOLDI E LA DIPENDENZA DA JURIC

Cercasi qualità. Ma quella costa e D’Amico ha già messo le mani avanti: “E’ un mercato difficile”. Traducete voi dal politichese…

Il Verona naviga tranquillo e potrebbe pure stare così con l’obiettivo salvezza ormai a una manciata di punti. La sconfitta di Bologna conferma alcuni limiti creativi nella  manovra, a cui si è supplito finora efficacemente con l’organizzazione tattica, la definitiva consacrazione di Zaccagni e l’esplosione di Dimarco. Niente di nuovo: delle difficoltà fisiche del vecchio Veloso si sapeva, dell’assenza di un vero trequartista anche (per intenderci non c’è un Pessina e nemmeno un Borini).

Non mi faccio grandi illusioni sul quel che sarà, da anni chiediamo invano a Setti la crescita. Ci troviamo in affanno con il nostro gioiello (Zac), che senza (improbabile) rinnovo dovremo svendere; Dimarco è in prestito e Lovato già in offerta. Il punto è un altro: se non si vogliono investire denari, si devono avere idee. Che è un concetto diverso da scommessa, da ciambella che esce con il buco di tanto in tanto, dal fare strike per puro culo. Juric ha portato a Verona un buon scouting e credo che mercati come quello franco-belga-olandese siano interessanti, mentre quello balcanico è un terno al lotto.  Non offre invece molto la serie B, anche se abbiamo i giocatori giusti da scambiare per arrivare a quel poco di buono che c’è. Ma dobbiamo intenderci se si vuole fare calcio vero, oppure operazioni stravaganti come quella che ha portato qui Cetin come parziale contropartita di Kumbulla. Un disastro se parliamo solo di pallone…

Le nostre fortuna sono legate a re Mida Juric, lo sappiamo. In prospettiva è un limite e non un bene, questo deve essere chiaro. Ma questo limite oggi è l’unica reale forza che abbiamo e perciò siamo obbligati a cullarlo e blandirlo. L’allenatore deve essere accontentato.

ZAC E IL TIFOSO CONTABILE

Non rubateci i sogni. Almeno per qualche giorno. Zaccagni ha segnato in rovesciata con il Verona, questo conta. E invece, già ieri, si disquisiva sull’impennata del valore del cartellino, sulla prossima plusvalenza della società eccetera.

Non siamo più tutti solo allenatori, in questo Paese anche di santi, navigatori e poeti. Siamo anche, o forse soprattutto, manager e contabili del calcio. Già, il tifoso generalmente è il primo ormai a essere assuefatto dalle logiche del calcio moderno. Non vive più l’esclusiva emozione in sé (per un gesto tecnico, una vittoria…), ma già ragiona contando i soldi (che incassano gli altri). Noto e leggo molti commenti che rimbalzano sui social: si parla sempre più spesso di soldi, “Tizio vale dieci”, perché “se Sempronio lo vendono a 15, per il nostro Caio allora devono chiedere il doppio”. E via discorrendo. E tutti a leggere e a citare, ca va sans dire, siti specializzati in calcio finanziario.

Quanto sono lontani i tempi (qualche anno fa, non secoli) in cui ancora si resisteva culturalmente a questa deriva economicistica e commerciale. Il tifoso neanche si azzardava a pensare – per citare un canzone cult di Rino Gaetano – “che Chinaglia può passare al Frosinone”. Invece noi oggi, qui a Verona, diamo per scontato che Zaccagni presto se ne andrà e spariamo il toto-cifre. Sul piano sentimentale (sfera del tifoso) è contro natura.

Ma non solo. Setti ci ha assuefatto al punto che accettiamo come normale, logico, giusto, che si venda presto e comunque (e magari al ribasso, come spesso è accaduto). Sul piano culturale (in senso lato) ha vinto lui ed è anche per questo che difficilmente faremo il salto di qualità come club. Si è rassegnato persino Juric, che ha compreso che parlava al vento, che le sue “ovvietà” sul mercato passavano per rivoluzionarie e quindi infastidivano,  facendolo addirittura passare per antipatico o rompicoglioni. Non un buon segnale, perché meglio la rabbia dell’indifferenza.

Per questo immortalo il fotogramma di ieri: la rovesciata di Zac in gialloblu, con il Verona. Mi tengo e godo i sogni, finché durano.

LEGATI A JURIC (E NON È UN BENE)

Juric e Setti non se le mandano a dire. Sembra una telenovela, le stoccate tre i due infatti sono ormai un appuntamento quasi settimanale. L’ultima è di ieri con il presidente che risponde all’allenatore dicendo che “deve maturare”. Detta a un uomo di 45 anni che da ragazzo, a Spalato, ha visto la guerra. Detto a un signore proveniente da una famiglia che ai tempi di Tito ne visse di tutti i colori, tra umiliazioni e declassamenti. Bisognerebbe misurare le parole, anche perché Juric finora non è mai andato sul personale ma, giusto o sbagliato, ha sempre evidenziato i limiti programmatici di una società che dopo 8 anni, come in un grande gioco dell’oca, è sostanzialmente alla casella di partenza: vendere tutti (quelli bravi s’intende) e appena è possibile.

Comunque, poco male. Chi scrive non ritiene particolarmente grave la diatriba tra i due (la squadra non ne risente). Che, pare, non si parlino molto di persona: preferiscono i mass media e di loro sponte visto che le domande spesso latitano. Quello tra Setti e Juric è un gioco delle parti, una commedia, tra un allenatore che smania perché vuole diventare grande (o qui o altrove) e un presidente che – smargiassate a parte – sa che non può andare oltre.

Ecco, se vogliamo, il problema vero è questo: il Verona, inteso come società, sta costruendo? L’impressione è che se dovesse andare via Juric (prima o poi capiterà, come succede agli allenatori, speriamo molto “poi”, ma la sostanza del ragionamento non cambia) si ripartirebbe da zero, poiché lo scouting, i giri di mercato e il settore tecnico sono molto legati alla sua figura. Un po’ come successe con Sogliano nel 2015.

L’obiettivo invece dovrebbe essere diventare indipendenti da allenatori e figure tecniche, che passano. Sarebbe questo il consolidamento tanto sbandierato a parole. Sarebbe questo il vero bene del Verona.

LA (GIUSTA) PRUDENZA DI JURIC

Ivan Juric è un allenatore antico, che riporta il calcio al suo senso più profondo: trovare la chiave per vincere, mescolando anche le carte, puntando sull’uomo (il giocatore) e non sui moduli. Altroché “talebano”, come era stato frettolosamente etichettato: il metallaro spalatino adatta il suo credo alle caratteristiche dei giocatori e degli avversari, fatti salvi due principi: si gioca uno contro uno in tutte le zone del campo e in verticale, sempre, con la palla tra i piedi.

E così il Verona 2020-21, con meno giocatori di tocco e di manovra, imposta meno, attende e scatta in contropiede, giocando sull’avversario: ecco quindi Tameze “falso nueve” perché – ha spiegato il giocatore – “la Lazio non doveva impostare”; ecco perciò spiegata l’aggressività feroce e organizzata di una squadra che come ha detto Silvestri “è appiccicata al nostro portabandiera Juric”. Ecco pertanto che si capisce perché ci esprimiamo meglio con le grandi che con avversari più chiusi che ci costringono a giocare in spazi stretti (non ne siamo ancora capaci, ha detto ieri Juric).

Juric però che è uomo di profonda intelligenza anche fuori dal campo. Il croato spezza la retorica celebrante: “Non parliamo di Europa, se abbassiamo la guardia per noi è finita, stasera siamo stati avvantaggiati dalla stanchezza della Lazio dopo la Champions”. Un po’ quello che era successo con l’Atalanta. Tradotto: è ancora troppo presto per capire cosa faremo da grandi, certamente Juric sta compiendo un mezzo miracolo con una squadra nuova, senza i suoi due giocatori più rappresentativi arrivati dal mercato (Benassi e Kalinic). Un allenatore gigantesco, un maestro di calcio, un hombre vertical, capace di supplire al piccolo cabotaggio societario. Godiamocela tutta.

UN ATTO DI FEDE

Diciamoci la verità: Juric sta compiendo un mezzo “miracolo”. Virgolette d’obbligo, perché mica ha la bacchetta magica il metallaro di Spalato: il suo “miracolo” è fatto di lavoro, idee, carisma, conoscenza e cultura. I giocatori, tolti Zaccagni, Silvestri e Lovato perlopiù onesti pedatori del pallone o acerbi talentini, così seguono con cieca fiducia la loro guida. Per lui si buttano nel fuoco, giocano, soffrono e, sornioni, vincono.

Il Verona che espugna Bergamo è un atto di fede: di un gruppo che Setti ha smembrato (“abbiamo venduto tutto il possibile” ha ribadito Juric ieri a chi gli chiedeva dell’Europa League) e che si è riplasmato nel credo del suo allenatore. Quest’anno chi scrive si sta emozionando ancor più dello scorso, perché il Verona operaio (“ruvido rock” scrivevo qualche settimana fa) ci riporta a una dimensione romantica, antica; perché vincere soffrendo è – checché ne dicano i figli di Sacchi del dominio sempre e comunque – è essenza, specificità e identità di questo gioco semplice (alla fine bisogna farne e non prenderne, il resto è masturbatio grillorum per dirla alla Brera) ma complesso, dacché può sfuggire alla logica e al controllo  – non per nulla si gioca con gli arti inferiori. Ci è successo, perdendo senza merito, con il Sassuolo; si è ripetuto ieri, ma questa volta siamo noi a vincere, con l’Atalanta.

Juric è un tecnico moderno che sa di antico. Recupera i vecchi fondamentali, vedi le marcature a uomo di Lovato su Zapata e di Dawidowicz su Gomez. Educa al gioco ma anche alla sofferenza; è un maestro che migliora anche l’individualità del singolo, così prende un gruppo di ragazzini e li trasforma in calciatori di serie A. E, fuori dai canoni melensi e ipocriti del calcio italiano, parla franco alla stampa e alla pubblica opinione (“progetto a Verona? Siamo ancora lontani dall’iniziarlo, abbiamo mezza squadra in prestito” l’ipse dixit alla vigilia).

15 punti messi in saccoccia. Senza farsi grandi illusioni, sappiamo che è fieno in cascina.