LA PENNA PIÙ VELOCE DEL WEST

La “penna più veloce del west” è tornata tra noi. Maurizio Setti, tra i mille talenti, ha pure questo: lui quelli bravi sembra sempre volerli vendere in fretta. Non sia mai che scappi l’occasione di incassare subito; non sia mai che si riesca a fare un ragionamento su un mezzo progetto. E così nemmeno a metà campionato, Amrabat è già dato al Napoli, Rrahmani quasi e Kumbulla è a sua volta chiacchierato. E tutti ricordiamo la cessione in stile Carl Lewis di Jorginho.

Tralasciando il lato romantico della faccenda – leggi il messaggio che si lancia ai tifosi – sui cui non ci esprimiamo per non passare da vecchi tromboni nostalgici di un calcio che non c’è più (in realtà non guardiamo al passato), passerei alla questioni più concrete. Mi chiedo: la nostra società – dopo quasi otto anni di introiti con lo stesso presidente – non è in grado, come dire (passatemi l’espressione), di “tirarsela” un poco? Ha (ancora) necessità di fare cassa appena può? Non ha la forza di prolungare (e ritoccare) i contratti dei calciatori migliori per poter alzare la propria forza contrattuale con gli acquirenti? Puoi anche vendere, ma c’è modo e modo, tempo e tempo. Aggiungo: è necessario mettere sul mercato tutti i tre migliori contemporaneamente senza salvaguardarne nemmeno uno? Che ricadute può avere sulla squadra, sui diretti interessati e quindi sui risultati dell’oggi (cioè di questo finora ottimo campionato) questo modus operandi?

Si apre poi una gigantesca questione sul domani: smantellando la squadra a giugno (se vendi i tre più forti l’hai già smantellata anche dovessi tenere tutti gli altri) Juric rimarrebbe? Assodato che, oltre alla questione tecnica, per confermarlo sarà necessario ovviamente rivedere quella economica.

Domande che vagano. Domande a cui per ora voglio dare solo una risposta: sono giorni di festa, godiamoci il momento e godiamocela finché dura.  Con la “penna più veloce del west” guardare a orizzonti troppo futuri non ha molto senso.

NUOVI ORIZZONTI TECNICI (NON SOCIETARI)

Il rischio, in casi come questi, è cadere nella facile retorica: la rimonta, il ritorno di Pazzini, l’esistenza di Stepinski. La domenica del Verona è stata un carrello di emozioni, ma resta un fatto, checché ne dica l’ottimo Juric: non siamo gli ultimi, siamo una buona squadra, altroché. Ha detto bene Mazzarri: “Il Verona si potrà prendere delle soddisfazioni, la salvezza sarà l’obiettivo minimo”.  Io rimango della mia idea: 9°-12° posto, al netto delle variabili che ci potranno essere (mercato di gennaio, infortuni, finale di campionato dovessimo essere già salvi).

Sia chiaro, io capisco Juric: lui deve tenere tutti sulla corda e ha trovato il ritornello motivazionale vincente per i suoi: “Noi piccoli contro i grandi”. Inoltre in estate siamo partiti con tutt’altri presupposti e il budget è tra i più bassi della serie A: giusto non creare troppe aspettative o indebite pressioni. Resta però l’analisi dell’oggi:  il Verona ha buoni giocatori ed è messo magistralmente in campo dal suo allenatore. E ha un carattere d’acciaio, se n’è avuta conferma ieri dopo un primo tempo orribile e uno 0-3 a mezz’ora dalla fine che avrebbe mortificato le speranze di chiunque. Appena il Torino si è adagiato siamo tornati in partita: non è forza questa? Concedere due terzi di partita e pareggiarla nel restante terzo: impressionante.

Dopo il Torino si aprono anche nuovi orizzonti tecnici-tattici. Juric ora sa che Pazzini non è un ex giocatore, sa che Stepinski (come sostengo da mesi) se schierato con un’altra punta qualcosa può dire, sa che Bessa e Badu con il nuovo anno potranno infoltire di qualità il reparto già oggi più forte, il centrocampo.

La squadra c’è, la società un po’ meno, nonostante il buon lavoro nel mercato estivo. Siamo a dicembre e Amrabat viene già dato al Napoli per giugno (e suo fratello in merito dà interviste senza riguardo); mentre in tutta Europa i club spingono per gli stadi di proprietà, a Verona, l’Hellas sostiene un progetto che va in direzione opposta. Che devo dire: per fortuna c’è il campo, il calcio giocato.

JURIC IL MIGLIORE DEGLI ULTIMI VENT’ANNI, EPPURE…

L’impresa dell’Atalanta in Champions League mi conferma quanto ho pensato a caldo dopo la nostra sconfitta di Bergamo: l’Atalanta è tra le cinque-sei grandi squadre di questo campionato e al Verona, nei 90 minuti, contro di esse manca qualcosa per spuntarla o quantomeno non perdere.

Inutile che continuiamo con la nenia del “meritavamo di più”, ma è altrettanto sbagliato essere preoccupati per l’assioma “giochiamo bene ma non raccogliamo”. Non sono vere nessuna delle due affermazioni: giochiamo bene e raccogliamo con le squadre del nostro livello o inferiori, paghiamo la superiore qualità (è il calcio, bellezza!) contro le più forti (e Roma e Atalanta rientrano nella categoria). Perciò abbiamo la classifica perfetta, quella che rispecchia fedelmente il nostro valore a oggi.

Mancano quattro partite alla fine del girone di andata e con Torino, Spal e Genoa si può muovere la classifica. Penso che il Verona di Juric sia squadra da 9°-12° posto, poi dipenderà dagli infortuni (a un Kumbulla, si è visto, non possiamo rinunciare a lungo) e dal mercato di gennaio (in entrate e in uscita, perché con Setti non si sa mai…).

Resta tuttavia una costante nell’effimero volatile del calcio: l’Hellas propone un calcio concreto e divertente, verticale, fisico, veloce e organizzato. Non si vede spesso in Italia e non avevamo ricordi a queste latitudini.

Senza nulla togliere a Mandorlini e ai suoi straordinari risultati (che posizionano il tecnico di Ravenna tra i più vincenti della nostra storia), credo che sul piano tecnico-tattico, quindi come allenatore puro, Juric sia il migliore capitato a Verona negli ultimi vent’anni. E’ dai tempi di Prandelli e (poco dopo) forse il primo Ficcadenti che non abbiamo un tecnico moderno per l’epoca.

Tuttavia se la società vuole crescere non deve innamorarsi di nessuno, ma pensare a una progettualità che prescinda dagli uomini e che, semmai, gli uomini possano far lievitare. Ho avuto il privilegio di seguire da cronista il Chievo di Sartori e di conoscere il suo metodo di lavoro da vicino. Quella gestione tecnica (non svendere i giocatori forti ma dar loro una certa continuità, Delneri o Pillon confermati non per sentimento ma finché c’erano i margini tecnici-economici per farlo) dovrebbe essere la bussola. Sartori oggi è all’Atalanta: non avremo i soldi di quel club, ma almeno il metodo potremo farlo nostro.

 

CINQUE PUNTI IN CINQUE GIORN(ATE)

Niente paura. Anzi. Il Verona sconfitto dalla Roma conferma di essere squadra vera. Nell’equilibrio la differenza, si sa, la fa sempre la qualità. E la Roma dell’ottimo Fonseca e del bravissimo ds Petrachi di qualità ne ha a iosa. Il Verona ha pagato i dettagli, ergo le sbavature individuali. E passi per Gunter, che di limiti ne ha, se si mette a sbagliare pure l’impeccabile Rhramani capisci che non è serata. Ha fatto il resto la solita pigrizia in area di un Di Carmine tornato Di Carmine (sempre dietro all’uomo e spesso in fuorigioco). Inutile girarci intorno: il Verona è costretto a giocare sempre al limite, frenetico e con un grande dispendio di energia per segnare. Per trovare la porta devi muovere tanti giocatori, il minimo sforzo offensivo questa squadra non lo contempla. Ovvio che poi capita di pagare tutto con gli interessi senza manco accorgersene.

Ma questi sono difetti, toppe, cose che si sanno. Cose di calcio che, semmai, sarà il mercato (in attacco) e l’atteso rientro di Kumbulla (in difesa) a rappezzare. Restano però le tante note liete: in primis la capacità morale e tecnica della squadra di non disunirsi e di non uscire mai dalla partita. Scusate se è poco. Il Verona ieri ha giocato alla pari e a viso aperto con la quarta forza del campionato. E, Var permettendo, avrebbe rimediato due volte lo svantaggio. Qualcosa vorrà pur dire.

Penso che sia realistico poter arrivare al giro di boa dell’andata (e in piena finestra di mercato) a 23 punti. Vorrebbe dire essere a 13-14 punti dalla quota salvezza con tutto il girone di ritorno da disputare. C’è chi prometteva (di far perdere) “Sette chili in sette giorni”, come nel vecchio film. Io dico cinque punti in cinque giornate. Da guadagnare. Si può fare.

 

IL CLUB A UN BIVIO

Godiamoci il momento e – perché no? – sogniamo in libertà. Non costa nulla.  A dirla tutta, detesto da sempre la “retorica della salvezza”, molto conformista e ipocrita. Aggiungerei: molto italiana. Da che mondo è mondo ognuno in campo vuole vincere e cerca di migliorare. E la classifica la guarda, eccome. Qualcuno mi ricorderà, al solito, il Verona di Malesani: paragone che non regge, quel caso non fa scuola per le “stranezze” e l’unicità del contesto in cui si consumò.

Altra cosa è cercare di capire la consistenza reale del Verona di Juric. Abbiamo diritto di sognare, ma anche il dovere di guardare in faccia la realtà. La squadra in difesa e a centrocampo (su Pessina le mie fonti estive non si sbagliavano, che giocatore!) è probabilmente da prime otto; l’attacco chiaramente non è all’altezza degli altri reparti, sebbene Salcedo sia già un ottimo giocatore (diventerà un big) e Di Carmine abbia finalmente segnato. Ma le analisi non possono cambiare per un gol.  Servirebbe una spalla al predestinato italo-colombiano. Provate a immaginare un Verona con Veloso e Amrabat in mezzo e Pessina a suggerire a Salcedo e a un mister X. E qualcosa andrebbe fatto per “allungare” la panchina sugli esterni, in modo da poter dare fiato ogni tanto a Faraoni e Lazovic.

Ecco, è questo il punto. A gennaio capiremo le intenzioni e le possibilità di Setti: rafforzare la squadra per provare a stupire, oppure risparmiare accontentandosi di vivere di rendita. L’ultima analisi dei bilanci dei commercialisti di “Verona col Cuore” dimostra che il club si sta gradualmente consolidando sul piano economico. Non penso dunque che si ripeterà un caso Jorginho, spero invece che si possa pure investire qualcosa. Il Verona è tornato ad appassionare la città, sarebbe antipatico disperdere questo patrimonio. La società, da questo punto di vista, è a un bivio.

E come avrebbe detto Roberto Puliero: alè alè alè bum bum bum.

P.s. Toccanti e vere le parole di quel gran uomo che è Juric su Roberto. “Al suo funerale ho capito molto di più di Verona”. Juric è arrivato al punto con grande intelligenza e sincerità, senza ruffianerie o velleità da capo-popolo. Mi dicono che l’allenatore di Spalato sia una persona di raffinata cultura e ottime letture. Si percepisce.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TESTAMENTO DI ROBERTO

L’artista di popolo non è mai amato dagli altri artisti. Anche Roberto Puliero, autentico artista di popolo, era (mal) sopportato nel suo ambiente. Troppo famoso e popolare. Molti colleghi si sentivano in ombra e sparlavano: “Qualche teatrante invidioso diceva che riempivo i teatri solo perché il Verona ha vinto lo scudetto, mentre qualcuno che voleva scritturare la compagnia chiedeva ‘ma è quella di quel Puliero che fa el paiasso?'”, mi raccontò l’estate di due anni fa, seduti uno di fianco all’altro nel retropalco del cortile dell’Arsenale.

Anche qualche giornalista poco tollerava Puliero. Per lo stesso motivo: il cantore conosciuto era Roberto, mica il cronista di turno che mentre ne sparlava anelava con invidia misera e feroce alla sua fama. Quando è stato allontanato dalle radiocronache, qualcuno di sottecchi se la rideva pure. Piccole e ottuse gelosie da strapaese. Ma c’è di più: pensate che Roberto con la sua “Edicola” televisiva – satira sferzante sul conformismo e sulla mediocrità e sgrammaticatura (estetica ed etica) di un certo giornalismo – si fosse fatto nuovi amici?

La verità era che Roberto era l’attore, il poeta, il cantore della gente. Nessuno a Verona, nell’epoca moderna, è stato come lui. Un’icona. Ce ne stiamo accorgendo più che mai in questi giorni che piangiamo la sua morte. Roberto è tanti ricordi sociali, collettivi. Roberto per migliaia di persone è la domenica pomeriggio. Roberto è il 33 giri del post scudetto che ascoltavi la domenica mattina con papà e mamma cantando fino alle lacrime. Credo che molti di noi si sentano un po’ più vecchi e pure un po’ orfani. Come se gli anni passati ci avessero chiesto il conto. Ci resta sabbia tra le mani. Cupi, impotenti e un po’ più soli, siamo noi.

Roberto ha segnato un’epoca e un’epica. Epopea meravigliosa, irripetibile e indimenticabile. Il suo testamento morale e culturale però rimane e spero che qualcuno (anzi tanti), in questa dormiente città, possa coglierlo: il vero intellettuale (e Roberto lo era) non se la tira con sciccherie snob, unisce l’alto con il basso, sa comunicare, regala generosamente la cultura alle masse. E le migliora. Roberto mi disse: “Il mio è un teatro popolare, divertente o drammatico che sia, di chiara lettura e ampio respiro spettacolare. Amo coinvolgere la gente, per questo ho fatto diversi adattamenti anche di testi importanti. Se oggi il teatro è meno conosciuto è colpa dei teatranti che fanno delle cose pallose, difficili. Prendi la tragedia greca, la puoi leggere, la puoi studiare, ma non proporla a teatro”. Arrivare al popolo, per lui, non significava abbassare il livello, al contrario: “Ho un debole per Goldoni, questo però è anche molto pericoloso. Ci sono molte compagnie di attori modesti che dicono ‘femo Goldoni perché el fa ridar, perché è in dialetto’. Lo conoscono superficialmente, Goldoni è un grande autore universale, rappresentato in tutto il mondo. Il rischio così è di declassarlo a folclorismo e io odio il dialetto come folclore, come comunicazione rozza, mi è sempre piaciuto portare in teatro il dialetto alto, quello del Ruzante. Il mio intento è far conoscere Goldoni per quello che è e per farlo tagliuzzo molto, anche intere scene, ma il miglior modo per esser fedeli a un classico è non essergli fedele del tutto. So che lui sarebbe contento, mi direbbe bravo, ai miei attori dico che io con Carlo ci parlo”.

Roberto è stato il nostro Giorgio Gaber. Ti sia lieve la terra.

UP & DOWN

La partita manifesto. Il Verona a San Siro si è mostrato in tutte quelle sue contraddizioni che raccontiamo da tempo. Up & down, cioè le grandi qualità e i grandi difetti che sono stati tema (e titolo) di un mio recente articolo.

Il Verona del primo tempo si è espresso con le stimmate della squadra di media-alta classifica: ritmo, organizzazione, qualità in mediana e maglie strette in fase difensiva, dove peraltro si è sofferto meno del previsto. Spartito diverso nella ripresa: il Verona quasi senza accorgersene ha messo la testa sott’acqua in una lenta ed esiziale apnea. I motivi? Calo fisico, armi spuntate davanti (il povero Salcedo ha fatto la guerra con uno stuzzicadenti per tutta la partita), cambi non all’altezza. Insomma, la famosa coperta corta. Ovvio, poi, che con le grandi squadre la paghi tutta e con gli interessi. Quante ne abbiamo viste di partite così in vita nostra? Niente di nuovo.

Poco male per classifica, che rimane decisamente buona. Senza mettersi qui a fare tabelle, il Verona può benissimo chiudere il girone d’andata a 21-22 punti. Senza strafare. La salvezza sarà a 36-37 punti (tante squadre in lotta abbassano il quorum). E ora la sosta ci permetterà di avvicinare senza scossoni il recupero di Veloso, una delle tante perle di Coimbra.

Ma la genesi della sconfitta di San Siro me lo conferma: se dal mercato di gennaio arrivasse un attaccante in grado di completarsi con Salcedo, questo Verona potrebbe anche ambire alla parte sinistra della classifica. In attesa dei recuperi di Badu (da valutare con tutta la delicatezza del caso) e Bessa, due che ti migliorano la squadra.

Perché perdere l’occasione di divertirsi?

 

 

IL PIACERE

Il Verona viaggia. Di rado si è vista una neopromossa giocare con tale intelligenza e senso chirurgico del momento. Il Verona sa gestire la partita e affondare negli attimi decisivi. E’ quadrato, solido, organizzato, con molta qualità dietro (la novità di ieri è l’ottima prova delle riserve, su cui avevo dei dubbi) e a centrocampo. Il Verona  dispone di un vegliardo leader (Veloso) in mezzo a giovani veterani. Perché quando hai personalità e talento non conta l’età o l’esperienza. Sei predestinato e da predestinato mastichi concretezza fin dagli esordi. Vale per Kumbulla (speriamo non stia fuori molto), vale per Rrahmani e Amrabat, che sono al debutto solo in Italia ma vantano già un discreto curriculum internazionale.

Vale anche per Salcedo e qui permettetemi una piccola parentesi autoreferenziale: negli ultimi articoli ho insistito e mi sono esposto per lui. L’ho fatto dopo la sconfitta con il Sassuolo chiedendone a Juric l’utilizzo, mi sono ripetuto dopo l’insufficiente prestazione del ragazzo a Parma. Ma chi in estate mi parlava di Salcedo aveva gli occhi luccicanti (idem Pessina, notoriamente altro mio pupillo) e nella penuria offensiva che ha l’Hellas non si può prescindere da un talento innato come il suo. Che poi, intendiamoci, solo in Italia abbiamo un limite intellettuale sui giovani, ogni volta etichettati a prescindere “non pronti” o “da far crescere con calma” e balle varie.

Amenità. Luoghi comuni. Fortunatamente il nostro brillante allenatore non è condizionato dai cliché e soprattutto continua a smentire quello che pendeva pesantemente su di lui. “Talebano” gli dicevano. In realtà Juric sta dimostrando di essere bravo anche a mescolare le carte e a cercare sempre nuove soluzioni, pur nell’equilibrio di squadra.

15 punti in 11 partite sono un bottino di tutto rispetto. E se Salcedo si conferma non è detto – dato l’impianto di squadra che abbiamo – che ci si debba accontentare per forza di una risicata salvezza. Ma al di là della classifica c’è qualcosa in più. Il sentimento. E’ tornata la “febbre” da Verona. Ieri erano in 16 mila al Bentegodi con un tempo infame e non certo per una partita di cartello. E’ un piacere vedere il nostro Verona. Che bello. Alè.

 

 

LO STRANO EQUILIBRIO (GRANDI QUALITÀ, GRANDI DIFETTI)

Il Verona di Juric regge il suo equilibrio sulla dicotomia, quindi sugli estremi opposti: grandi qualità si uniscono a grandi difetti. Pertanto difficilmente potremo ambire a un campionato tranquillo, ma certamente non ci annoieremo mai. Questo ci dicono le prime dieci giornate di campionato, che convenzionalmente sono un po’ come i primi 100 giorni di un governo, servono a tracciare una linea e suggeriscono una prima valutazione.

Intanto l’adorabile Juric, suo malgrado, sta facendo giurisprudenza calcistica: si può vincere anche senza gol delle punte. Non credo sia mai successo (gli esperti di almanacchi mi confermeranno o smentiranno) che una squadra totalizzi 12 punti in 10 partite senza che un suo attaccante sia andato in rete. E qui torniamo al più grande difetto del Verona: la penuria di frontman, di una prima linea capace – come ha detto il tecnico di Spalato lunedì – di “concretizzare ciò che si crea”. E non parliamo solo di Stepinski (peraltro ieri a Parma encomiabile), ma proprio di una carestia nel reparto, sguarnito di prime e seconde punte da gol. “La moria delle vacche” l’avrebbe definita Totò.

L’altro difettuccio – a volte decisivo, altre fortunatamente latente – è la mancanza di un difensore che sia all’altezza di Kumbulla e Rrhamani, talmente forti da sopperire sovente (ma non sempre) alle lacune del terzo compagno. Qualcuno minimizzerà, io no, dato che la lotta per la salvezza sarà sul filo dell’equilibrio. Infine sugli esterni abbiamo due giocatori bravi, Lazovic e Faraoni, ma che per motivi diversi non garantiscono i giusti rifornimenti al colpo di testa di Stepinski. Faraoni perché, pur completo, non eccelle sempre nei cross, Lazovic (ieri gol meraviglioso) perché da destro che gioca a sinistra arriva poche volte sul fondo e mai con il suo piede.

Ma poi ci sono le qualità. Grandi qualità. La coppia di centrocampo Amrabat e Veloso è da zone alte della classifica. I due sono forti singolarmente e si completano. Ma in generale tutto il centrocampo è di ottima levatura, perché gli stessi Lazovic e Faraoni – pur nei difettucci richiamati sopra – sono giocatori da media serie A. Poi abbiamo due signori difensori che da queste parti non si vedevano da anni (dai tempi di Laursen e Apolloni), Rrhamani e Kumbulla, e un portiere di sicuro affidamento. A proposito di Silvestri, non si capisce perché due anni fa facesse la riserva di Nicolas. Lo scrivemmo allora, lo ribadiamo ora. Ma eravamo polemici, dicevano…

Last but not least, Ivan Juric. Non servono molte parole per lui: tatticamente è il miglior allenatore che abbiamo a Verona dai tempi di Ventura (quello vero e non l’ombra degli ultimi anni). L’Hellas è organizzato, ha un’identità e di conseguenza un’anima (se non sai cosa fare in campo anche la grinta scema).

Ho letto che il Verona meritava di più con il Sassuolo che a Parma. Non è vero, il calcio non è pugilato, non è statistica e non può essere letto con gli occhi della mera logica (che poi il Sassuolo anche nei numeri non ha demeritato). Il Verona a Parma, al di là dei singoli episodi, ha saputo leggere e gestire la partita, è stato concreto, non ha mai davvero sofferto. Molto arrosto e poco fumo, a differenza di altre volte. Questo serve per vincere, non “giocare bene” a fini più o meno estetici.

Mi auguro che, a prescindere dalla prova di Salcedo (merita tempo e fiducia), si prosegua nell’esperimento delle due punte. Il Verona le può reggere e ne trae beneficio anche Stepinski. Avanti, con fiducia.

FOTOGRAMMI DI UMANA FRUSTRAZIONE

E’ assorto, Juric, mentre distribuisce con cura il tabacco sulla cartina. I pensieri fluttuano come mine vaganti.  A caldo c’è un filo di rassegnazione. “Se avete consigli per risolvere il problema del gol…” ha appena detto caustico e fatalista ai cronisti in sala stampa. E’ altrove, Juric, mentre appoggia il filtrino e rulla la sigaretta. Su quello scranno cattedratico della sala stampa del Bentegodi il tecnico di Spalato c’è solo seduto fisicamente. Lo sguardo è chiuso in se stesso, in quegli attimi c’è una cortina di ferro tra lui e il resto del mondo. Pressa la sigaretta, Juric, si alza e se ne va.

Fotogrammi di umana frustrazione, ieri sera nei sotterranei dello stadio. Juric è persona vera e ci riconsegna il calcio che piace a noi anche fuori dal campo. Juric è sanguigno e a volte colorito, senza mai però scadere nell’arroganza o nella maleducazione (troppo brillante e intelligente). Mentre tutti gli allenatori appena finito il rito (piuttosto stanco) delle conferenze stampa si alzano e se ne vanno neanche fossero  studentelli in attesa della campanella, Juric no, Juric se ne resta lì, isolato tra i cronisti a riordinare i pensieri. Armato solo di tabacco, cartina e filtrino.

A Napoli l’allenatore era stato duro con i suoi attaccanti. E ieri quello titolare, Stepinski, lo ha pure bocciato con la panchina (altra bocciato Gunter, come ho già scritto l’anello debole della difesa, sostituito in corsa per manifesta difficoltà). Ma nel post partita di ieri Juric è passato dalla rabbia del San Paolo alla quasi rassegnazione (“se avete consigli per risolvere il problema del gol…).

Il Verona è corto: in difesa e a centrocampo (Veloso è insostituibile). Il Verona è spuntato, in attacco. Nell’ultimo post scrivevo che nell’equilibrio poi la differenza la fa la qualità dei singoli in ogni reparto. E’ successo con il Napoli (ed era scontato), si è ripetuto con il Sassuolo. Occasioni da entrambe le parti, con una differenza: loro hanno segnato, noi no.

Hai voglia di dire che giochiamo bene. Quello succederà più o meno sempre perché Juric ha dato organizzazione, idee e identità. E hai qualche giocatore di qualità che il gioco ti aiuta a crearlo (Veloso, Amrabat, Faraoni, a tratti Lazovic, e da dietro con i loro lanci e inserimenti Rrhamani e Kumbulla). Ma nel calcio non basta. La differenza la fanno i dettagli, cioè la qualità assoluta. E noi in fase offensiva ne siamo carenti. Ci mancano le punte (prima e seconda) ma anche mezz’ali che abbiano confidenza con la porta.

Che fare dunque? Juric provi a inserire stabilmente Salcedo. Sarà ancora acerbo, ma in questa penuria è l’attaccante tecnicamente più valido. E gli affianchi Stepinski, che con un compagno vicino qualcosa in più può dare. Ripartiamo da qui.