LUOGHI COMUNI E NO SENSE

“Con il Brescia abbiamo dimostrato che da qui alla fine possiamo vincere tante partite” (Fabio Grosso 2 aprile). Lui sì che aveva capito tutto…

“Eh ma con le grandi ci esprimiamo bene, è con le piccole che siamo mancati” (il luogocomunismo imperante a Verona). Tra Brescia, Lecce e Palermo 2 punti in 6 partite. Pensa se ci fossimo espressi male…

“Dal primo giorno rompete il cazzo” (Tony D’Amico 10 febbraio). Dopo quel penoso “show” è (ri)sparito dai radar mediatici. Dov’è finito? Ci manchi.

“Dal primo giorno rompete il cazzo” (Tony D’amico 10 febbraio). Scusate se la ripeto in loop, ma è troppo bella. Nel frattempo, se ha tempo, D’Amico ci spieghi cosa si prova ad allestire una “corazzata” con Di Carmine, Lee, Balkovec, Di Gaudio, Gustafson, Colombatto, Marrone. Deve essere emozionante…

“Eh ma è un campionato mediocre” (luogocomunismo 2.0.). Pensa che furbi noi invece che con Lee,  Di Carmine, Balkovec, Di Gaudio, Gustafson, Colombatto, Marrone abbiamo pure la puzza sotto il naso.

“Quando un giorno non ci sarò più il Verona avrà un patrimonio più solido, uno stadio e un centro sportivo” (Maurizio Setti il 10 gennaio alla Gazzetta dello Sport). Campa cavallo. Di fatto una dichiarazione di eternità. Che poi come fa lo stadio a essere patrimonio del Verona se rimane del Comune? Qual è il senso logico, Setti?

“Io speravo di essere un presidente anonimo” (Maurizio Setti sempre alla Gazzetta). Io, visti i risultati, speravo invece di avere un presidente (suo) omonimo.

“Grosso? Ha una testa superiore” (ancora Setti alla Gazzetta). Ricorda molto il sempre settiano “Pecchia? Farà una grande carriera”. Ne azzeccasse una…

“Grosso crede in quello che fa” (di nuovo Setti alla Gazzetta). Non vorrei fosse questo il problema…

“Il gruppo è unito, segue Grosso” (luogocomunismo evergreen, “in tutti i luoghi e in tutti i laghi”). Solo io sogno un gruppo diviso, spaccato, rotto che non lo segue per niente?

“L’anno scorso commisi un errore a non cambiare l’allenatore” (Setti in conferenza stampa a Peschiera il 9 febbraio).  E quest’anno lo sta ricommettendo. Oltre il perseverare. Più che diabolico. Meraviglioso, no?

E mentre la serie A (diretta) sfugge e quella indiretta appare una chimera, faremo il nuovo stadio.  Lo ha detto Berthold, che non ricordavo come costruttore di stadi. Sarà un caso, ma a Verona non lo abbiamo mai rimpianto…

Che avrebbe detto Troisi? Pensavo fosse amore e invece era…un arcovolo. O forse, davvero, non ci resta che piangere.

 

 

IL PARADOSSO DELLA NOSTRA DEBOLEZZA

Il paradosso sta tutto nella buona prova di ieri sera. Il Verona migliore ha giocato alla pari con un Brescia minore. A parità di resa infatti abbiamo prodotto uno sforzo maggiore. A parità numerica di occasioni il migliore in campo risulta il nostro portiere, che ha sfoderato 3-4 parate determinanti. Il Brescia quelle occasioni le ha create con la tecnica. Le nostre possibilità sono state ugualmente pericolose, eppure più affannate, carambolate e meno costruite (fa eccezione il gol di rara bellezza confezionato da Zaccagni-Faraoni).  La discriminante si chiama qualità: noi Tonali, Torregrossa e Donnarumma insieme, per dire, non li abbiamo.

I corazzieri della crassa retorica, presuntuosi e ignari di calcio, per i quali forse bastano i nomi in ordine sparso, l’hanno menata fino a oggi. “Siamo la corazzata” dicevano. Ma quale? Dove? Quanta presupponenza. Quanta incapacità di andare a fondo nell’analisi. Ci si concentrava (giustamente) su Grosso per dimenticare una squadra costruita con i piedi. E’ Di Carmine che ci deve fare la differenza? L’avete visto? O forse il volenteroso ma inconcludente Lee? “Eh ma gli allenatori avversari dicono che siamo i più forti” sento dire . E voi ve la bevete? Si chiama captatio benevolentiae. Cose già viste e sentite.

Ma “se avessimo giocato così con Padova (due volte), Venezia, Cremonese, Crotone, Ascoli (due volte)…” è il refrain di stasera. E grazie! Ma secondo voi è una triste fatalità? La verità è che il Verona non avrebbe mai potuto giocare “così” contro quelle squadre, perché di fronte a difese chiuse non ha mai mostrato la qualità, il dinamismo e la continuità necessarie per aprirle e perforarle. Una volta può essere un caso, cinque, sei, sette volte è un limite. Il Brescia invece si è schierato più aperto e ti ha dato la possibilità di giocare “così”. Come il Pescara, ricordate? Pillon, dopo il 3-1 subito, a sua insaputa scoperchiò il nostro vaso di Pandora: “Stasera ho sbagliato io, abbiamo fatto la partita, alzandoci troppo e prestandoci al contropiede del Verona” disse. Presi dall’euforia del momento, ce la siamo scordata troppo in fretta quella frase.

Il Verona, lo dico da tempo, è squadra da quarto-quinto posto. Per le caratteristiche tecniche del suo insieme. Per l’allenatore che non dà nulla in più e ad aprile non ha ancora trovato la quadra. La (bella) prestazione con il Brescia non fa altro che rafforzare questa realtà.

Ora il treno per la serie A diretta si allontana forse definitivamente. Emozionalmente dispiace, ma calcisticamente è giusto così. Anche vincendo a Palermo (fatto per ovvi motivi tutt’altro che scontato) il rischio è di trovarsi a 5-6 punti dal Lecce dopo il nostro turno di riposo, a cinque giornate dalla fine.

Una cortesia però: non venitemi a dire che abbiamo perso punti per strada. Noi eravamo questi. Noi siamo questi.

 

PARLANO DI IMMOBILI E POCO DI CALCIO

Una verve commovente. Chiamatela mentalità. “Non si può sempre vincere” butta lì Fabio Grosso dall’alto dei suoi 1237 punti in classifica e delle sue 113 vittorie consecutive. Non scomodate però quell’insigne pedagogo che fu de Coubertin, più modestamente è dai tempi del grest o dei campi estivi che non sentivo frase siffatta. “Non si può sempre vincere” dicevano paternalisticamente a chi perdeva, accompagnando la consolatoria chiosa con una beffarda pacca sulla spalla.

La malinconia del Verona sta tutta nell’ipse dixit del suo allenatore, che da settembre ci mostra il solito impalpabile spartito. Lui però è l’allenatore più adatto a questa società. Anzi, è il tecnico ideale. Società che vuole lo stadio (Berthold oggi sul Corriere di Verona dichiara che l’idea nacque nel 2017 parlando con Barresi) e non compra uno straccio di regista vero a gennaio. Società che acquista la sede, pensa a centri sportivi, fa store, ma pare tenere il calcio sullo sfondo (questo dicono i risultati degli ultimi anni). Del resto lo ha dato da intendere lo stesso Setti – che certo tra mille difetti non è un ipocrita – l’anno scorso, nella celebre conferenza stampa nella sua azienda di Carpi: “Il bilancio viene prima dei risultati”. Prima, non assieme. Una differenza decisiva.

In tutto questo (immobiliare)  parlar d’altro, en passant, la serie A sfugge. Ma sono dettagli. “Niente di serio” avrebbe detto Giacomo di Aldo Giovanni Giacomo. “Non si può sempre vincere” ha detto Grosso. E questa fa già più ridere.

 

 

LA MEDIOCRITÀ DI GROSSO È QUELLA DI SETTI

Mediocre coerenza. Il Verona conferma il copione: squadra senza spina dorsale, costruita male e allenata peggio. In un moto di compassione la settimana scorsa avevo puntato mezza fiche sulla speranza, sebbene ieri su Telenuovo prima della partita avevo ammonito: “Perugia è un po’ pochino per parlare di svolta”.

Passando dalla compassione all’utopia speravo di essere smentito, anche se razionalmente non ho mai visto il bicchiere mezzo pieno perché la squadra è questa. Intendo, se non hai un regista e devi mettere il dannoso Marrone in difesa – credendoti Liedholm e  scambiando l’ex barese per Di Bartolomei – per fargli impostare il gioco, significa che che hai dei limiti strutturali. Se non hai un terzino decente dove vuoi andare? Poi Grosso, al solito, ci mette il carico: Bianchetti, che in B sarebbe un gran difensore centrale capace di fare reparto da solo, viene sacrificato sulla fascia destra; l’inconsistente e indolente Laribi riproposto non si sa come e perché; ma è soprattutto il cambio di Balkovec-Di Gaudio con 4 giocatori spostati di ruolo in un colpo solo la perla del sabato del Bentegodi. Roba da farmi venire istantaneamente la labirintite acuta.

Il Verona non esce dal guscio del suo campionato deludente. E’ una squadra da quarto posto al massimo (ringraziando la scarsezza generale), che in questi mesi non è mai riuscita a frequentare la zona promozione come sarebbe stato suo dovere. Il problema non è nemmeno la classifica (saremmo ancora in corsa, anche se le concorrenti hanno una o due partite in meno), ma l’andamento costante nella sua impalpabile mediocrità.

Una mediocrità che è anche e soprattutto della società che, nella consueta e consumata (ma ormai stanca) arte di parlar d’altro, celebra la sede nuova (sono soddisfazioni!). Setti, che non riesce nemmeno a esonerare il suo allenatore, evidentemente non è più in grado di fare calcio ad alti livelli. Altro che stadio nuovo.

 

LA SPERANZA È CHE NON SIA TARDI

Era una pagina bianca il Verona. Nessun afflato. Nessuna emozione. Nessuna parola. Lo spartito era sempre quello: mediocrità in serie, la solita melina sull’allenatore (resta-va-resta con dietrofront e Cosmi già tecnico in pectore), e la consueta vittoria scaccia-crisi al bivio decisivo. A creare un po’ di divertissement ci si è messo , per parafrasare Battisti, “quel gran genio del D’Amico”, con una conferenza stampa su cui per carità di patria (e pure cristiana) era meglio maliconicamente tacere.

Ho voluto fare un esperimento sociale: non scrivere nulla finché nulla era da scrivere. Compresa la vittoria con il Venezia che – come ha giustamente detto  Vighini – è stata una piccola luce. Ma non mi sembrava ancora abbastanza, troppo discontinuo questo Verona, che a mio avviso aveva trovato da tempo la sua giusta dimensione e la sua esatta collocazione (5°-6° posto). Il mio era anche un esperimento simbolico, utile a registrare il gigantesco solco che si è scavato tra società e ambiente. Il mio silenzio era lo stesso dei tanti vuoti allo stadio Bentegodi nelle ultime partite casalinghe. Il mio non dire era lo smarrimento verso qualcosa (il Verona squadra e società) che, per una serie di motivi più volte sviscerati, non è più il “nostro” Verona da tempo.

La (convincente) vittoria di Perugia – esame probante per una serie di motivi – cambia le carte in tavola? Non lo so. Tecnicamente, se analizziamo il calcio nella sua essenza, potremmo pensare di sì. Oggi pare di vedere un’altra squadra: più centrata e dinamica. Rimango però ancora perplesso: non vorrei che fossimo un po’ in ritardo. Nove partite da giocare sono tante, ma anche poche. Tante, se l’Hellas ingrana la quinta e fa un filotto di vittorie in modo da poter riagganciare almeno il secondo posto. Poche, se ci sarà ancora qualche incidente di percorso, che sarebbe pure fisiologico (nel qual caso il fallimento sarà da imputare al ritardo accumulato nei mesi precedenti) con Brescia, Palermo, Benevento e Pescara da affrontare.

Una parola su Grosso. Non lo ammetterà mai, ma credo che l’essere stato messo concretamente in discussione gli abbia fatto bene. La precarietà ha dato a un allenatore accademico, professorale, pregno di teoria e troppo mite, quel qualcosa in più in termini di concretezza, nervo e motivazioni. Ma ancora non basta. Lui e il Verona hanno tanto da farsi perdonare. L’allenatore e i suoi ragazzi meritano una tregua, ma la chiusura del cerchio della pace può essere solo la serie A. Per Setti ovviamente non basta solo il risultato sportivo:  il presidente dovrebbe spiegare cosa vuole fare del Verona in futuro e con quali risorse. Ma su questo ci torneremo.

 

 

SICURI CHE GROSSO SIA LA PRIORITÀ DI SETTI? RAGIONIAMO…

Vai avanti tu che a me viene da ridere, direbbe Totò.  I balbettii del ds D’Amico che a fine partita si ferma a rispondere alle domande dei tifosi (sforzo moralmente apprezzabile, beninteso) stridono con i soliti silenzi e soprattutto con il consueto immobilismo di Setti, che come sua abitudine preferisce far mettere la faccia agli altri.

D’Amico, povero, a cui tocca dire le solite due-tre banalità ai tifosi che educatamente lo incalzano (finalmente domande vere, tessera da giornalisti ad honorem, magari nel frattempo la togliamo a qualcun’altro). Tipo l’evergreen “il gruppo è unito” eccetera eccetera.  Ma l’ex assistente di Fusco, figlio della meritocrazia settiana (retrocedi e ti promuovo),  ci ha regalato anche qualche perla da collezionismo del grottesco: “Abbiamo due giocatori forti per ogni ruolo”. Ecco, appunto, vai avanti tu che a me viene da ridere…

La cosa meravigliosa (si fa per dire) è che ormai ci perculano pure gli allenatori avversari. Castori, per dire, ha svelato ieri il segreto di Pulcinella, dicendo esattamente ciò che il sottoscritto spiegava ad agosto dopo l’esordio con il Padova: “Il Verona soffre le squadre aggressive e che corrono molto. Palleggia molto e giocando in orizzontale consente all’avversario di chiudersi e ripartire”. E infatti l’unica partita nella quale abbiamo “convinto” è stata con il Pescara, quando Bepi Pillon ammise onestamente di aver sbagliato tattica con un atteggiamento spregiudicato che lasciava spazio ai nostri contropiedisti.

Il punto è che se il sottoscritto ci è arrivato ad agosto  – quando scrivevo pure che non eravamo da A  perché la rosa era assemblata male (e infatti giochiamo con due centrali che sono centrocampisti e abbiamo preso un terzino sinistro solo a gennaio) – ovviamente non voglio credere che non l’abbia capito Setti, che ha tanti difetti ma non è stupido. Eppure Setti solo nei giorni scorsi ha detto di aver la massima fiducia in Grosso. Aggiungo: come ce l’aveva in Pecchia. Stesse parole. Identiche frasi. Déjà vu.

Il punto è che siamo sempre lì: se viene “prima il bilancio” (cit.), significa che il calcio viene dopo. E – deduco – se Grosso rimane non è questione di fiducia o non fiducia, ma che Setti probabilmente ha altri pensieri e priorità (gestionali, magari che so – ipotizzo – di rendere il Verona vendibile). Se non partiamo da questo presupposto (cioè del “prima il bilancio”), ci avveleniamo per nulla, parlando del nulla. Cioè di calcio.

 

 

 

 

 

 

ASPETTIAMO E COMPATTIAMOCI

Stanca recita. Il copione è sempre quello. Partite orribili, conferenze stampa inascoltabili. E’ così da due stagioni e ormai ci hanno preso per sfinimento. E allora non ci arrabbiamo più da un pezzo, i sentimenti sono più profondi e sedimentati: mestizia, impotenza, frustrazione. Siamo inermi, spogliati di ogni possibilità, disarmati. Delusi no, ma solo perché non ci illudiamo più. Il copione ormai lo conosciamo tutti a memoria e ognuno prevede già ciò che succederà. Che serve illudersi?

Setti è riuscito in quello che nessun presidente della storia del Verona è mai arrivato: isolare se stesso e il club dall’ambiente e dalla città che quel club rappresenta. Il Verona come lo intendiamo noi è sospeso, ferito, alberga altrove. Il Verona come lo intende lui non ci riguarda e non riguarda più nessun tifoso, radicale o moderato che sia. Due mondi separati, paralleli, che non s’incroceranno mai. Ieri sera molti abbonati sono rimasti a casa. Lo stadio era una desolazione. Intorno c’è solo cupezza, indifferenza.

Giornalisticamente poi mi chiedo se vale la pena parlare ancora di calcio dopo una stagione e mezzo surreale, lunare, dove il calcio sembra solo un corollario. Fa abbastanza ridere sentire parlare di esonero o meno di Grosso. Dopo il teatro del grottesco consumato  da Setti con l’affaire Pecchia non mi aspetto nulla in tal senso e, anzi, non mi pongo nemmeno il problema. Per me Grosso può tranquillamente andare avanti e non sprecherò mezza riga d’inchiostro per lui. La lingua di Dante è troppo preziosa per mettere qualsiasi sigillo sull’imbarazzante conferenza di ieri sera. Mi sembra chiaro che con lui in serie A non ci si va, non è adatto, come non è all’altezza la squadra, che poi è solo lo specchio dell’inadeguatezza del suo presidente.  Lo scrivevo a settembre perché parlavo in camera caritatis con autorevoli addetti ai lavori. Non capisco come non ci sia arrivato Setti…

Ma siamo sicuri che non andare in A sia proprio un male nel medio-lungo periodo? E, soprattutto, allora che fare? Aspettare e compattarsi. La sofferenza e la mediocrità di oggi possono diventare l’àncora di salvezza di domani.  Con un’altra società. Forse questo infinito e tormentato travaglio è una specie di tassa da pagare per un futuro luminoso. Ci sarà. Sono fiducioso e non è solo speranza…

 

BLABLABLA

Ora, ci parleranno ancora dello stadio, o del centro sportivo, o –  fantasia per fantasia – pure delle piramidi (Faraoni già ce l’abbiamo), perché no?

Trucco evergreen: la consueta arte di parlar d’altro, i soliti blablabla privi da tempo di ogni credibilità. Armi di distrazione di massa, nei secoli dei secoli sempre quelle. Che palle! Siete un libro aperto, prevedibili come gli accordi di Ligabue. Giusto qualche reggi-microfono può innalzarvi. Ecco le vostre (misere) soddisfazioni.

Setti ha dichiarato che lascerà il Verona con lo stadio e il centro sportivo. Campa cavallo…Insomma le buone notizie non vengono mai sole.

Il responsabile di due retrocessioni indecorose, le peggiori della storia del Verona, è lui. Il responsabile di una squadra fuori dalla zona A da mesi, nonostante il dovere (economico e morale) di salire, è ancora lui. Il responsabile di una società senza investimenti degni di nota e di un progetto tecnico è sempre lui, Maurizio Setti. Colui che con enfasi solenne e sicumera aveva promesso il consolidamento in A. Obiettivo fallito ieri e oggi, e (presumibilmente) anche domani se come scrive Verona col Cuore (fino a oggi mai smentita nel merito), che ha analizzato anche l’ultimo bilancio (chiuso in perdita), “mancano le risorse per l’effettivo consolidamento della squadra”.

Possiamo pure inscenare teatrini su Grosso, come l’anno scorso su Pecchia. O infierire sull’inesperienza di D’Amico, come la passata stagione sull’inadeguatezza di Fusco. Ma, pur con mille ragioni, gireremmo a vuoto.

Il responsabile sta sopra, tra Carpi, Mantova, Milano e (poco) Verona.  Mi chiedo se la presidenza di Setti abbia ancora senso.

 

L’ANNO CHE VERRÀ… (SETTI VENDERÀ?)

Il Verona saluta un anno disastroso sotto tutti i profili. Tecnico e gestionale. Tecnico, per la seconda retrocessione vergognosa in tre stagioni. Gestionale, perché il mercato di indebolimento di un anno fa (e quello dell’estate precedente) – nel momento in cui avresti dovuto lottare per salvarti – grida ancora vendetta. Senza dimenticare il mancato esonero di un allenatore (Pecchia) inadeguato alla categoria. Fatti a cui è seguita l’epigrafe settiana su qualsiasi sogno di gloria, cioè di un Verona stabilmente in serie A (come promesso nel 2012, quando Setti divenne presidente): “Prima viene il bilancio” disse la scorsa primavera Setti. Inteso, prima della permanenza in A.

Un disastro. Lasciando poi perdere, per carità di patria, le vicende dei rapporti con quella parte di stampa critica. Si è  cominciato con l’allontamento dallo stadio del sottoscritto (a marzo), per finire alle querele a Vighini e Micheloni. Vicende che non sono private, dal momento che noi svolgiamo una funzione pubblica. Vicende, altresì, che attestano la debolezza del “potere” settiano, che non ha un vero e solido progetto e men che meno argomentazioni.

Ed è da qui che parte la riflessione sull’anno che verrà. Setti quali intenzioni ha? Lui dice che vuole tornare in serie A. Bene, dunque sull’immediato che mercato farà a gennaio? Con l’organico attuale (e il tecnico attuale) il Verona sta scherzando con il fuoco. Lo conferma la classifica. Ma assodato che per Setti Grosso non si tocca, allora servono almeno due innesti in difesa: un centrale e un terzino sinistro. E forse pure un regista in mezzo.

Ma il discorso è più ampio e conduce alla domanda chiave: in caso di promozione, Setti sarà in grado di garantire la serie A? Le ultime due esperienze dicono di no e, allo stato attuale, è difficile pensare che la prossima stagione sarebbe diversa. Diciamolo con franchezza: se torniamo in A, o Setti cambia dieci giocatori (e ne prende di buoni, dunque investe) e alza il livello del suo management (e dunque investe), altrimenti rischiamo di battere i record (negativi) di punti di Gardini-Bigon-Mandorlini-Delneri nel 2015-16 e Barresi-Fusco-Pecchia nella scorsa annata.

E se non dovessimo salire in A, che farà Setti? Non avrà più il paracadute (hanno tolto quello bis) e senza i contributi di diritti tv e appunto paracadute finora non lo abbiamo mai visto all’opera (se non nella sua prima stagione, ma quella era ancora l’epoca degli investimenti…). Setti, che ha detto che il Verona si deve autofinanziare (tradotto: lui non ci mette un soldo): amministrerà le finanze con la sola mutualità (che significa forte ridimensionamento tecnico anche in B), o comincerà seriamente a pensare di passare la mano? Perché se Setti – come ha dichiarato – pensa che il Verona valga 70 milioni di euro, a me sembra chiaro che allo stato attuale non abbia poi tutta questa voglia di vendere.Ma senza paracadute ragionerà ancora così?

Considerazioni sparse e di cui abbiamo pieno diritto. Perché se il Verona si autofinanzia, come ha detto Setti, lo fa direttamente (abbonamenti) e indirettamente (pay tv e sponsor) per buona parte grazie alla sua gente. Perciò è sacrosanto fare anche i conti in tasca e ricordare (sempre, ogni giorno) la “promessa madre” di Setti, ad oggi disattesa: il consolidamento in A.  Se Setti non è più in grado di mantenerla, mi sembra legittimo chiedergli di fare un passo indietro.

 

 

 

 

PAZZINI, SETTI, SENECA E LE “LEZIONI” DI GROSSO

Ora sembrerebbe perfino tutto ovvio. E infatti lo è. Tranne (sembra) che per Grosso, che in sala stampa – tra un congiuntivo sbagliato e l’altro – minimizza QUEL fatto, IL fatto, che vive, luccica ed esplode fragoroso di luce propria. Parla (tanto, troppo) d’altro, Grosso. Dei giovani, dell’anima, del gruppo, dell’ambiente ostile e banalità varie. Pure della stampa, che – dice il nostro, improvvisandosi professore di giornalismo che neanche Bob Woodward, Carl Bernstein, Indro Montanelli e Leo Longanesi insieme – deve essere meno pessimista. Roba da Pulitzer, ecco spiegata dopo secoli la funzione del quarto potere: non essere pessimista. L’avesse saputo, che so, Oriana Fallaci, ecco forse si risparmiava un sacco di guai.

Pazzini non è dibattito, è sentenza. Inappellabile, indiscutibile. Dinanzi a lui si tace e ci si inchina. Ecco, forse non lo insegnano più a Coverciano, dove  la “new generation” di allenatori che sembrano tutti uguali (è il fordismo standardizzato tecnico-tattico, bellezza!) probabilmente crede di avere inventato il calcio e in un riflusso tardivo di sacchismo mette il modulo davanti ai giocatori, in un avanzo di anti-luddismo pone la macchina davanti all’uomo, in un’illusione di guardiolismo scimmiotta Guardiola mentre Guardiola ha già cambiato.

Grosso dice che lui non prende ordini. Non capisco l’esigenza di doverlo specificare. Gli crediamo e ne prendiamo atto, ci mancherebbe, ma Pazzini è un caso che Setti, volente o nolente, trascina da due stagioni. Lo ha creato e alimentato lui, inopinatamente e inspiegabilmente. E ancora oggi il presidente non dà spiegazioni. Come peraltro su mille altre cose.

Resta la bellezza stasera del “nostro Verona” (Pazzini per spirito, umiltà ed educazione lo rappresenta appieno) che torna a sorridere e a vincere. Resta pure la sensazione che “l’altro Verona”, quello che non ci appartiene (sapete a cosa e chi mi riferisco), un po’ intimamente rosichi.  Resta la rivincita di un vecchio campione che con la classe (in campo e fuori) ha zittito – ancora una volta – le oche starnazzanti, servili, conformiste. E pure contorsioniste, talmente si dannano per difendere l’indifendibile.

“La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità” scrisse Seneca. Pazzini non solo deve giocare, ma deve essere messo nelle condizioni migliori di giocare. Magari anche con Di Carmine (i due sono complementari). Non credo che a Coverciano insegnino un solo modulo…