ZANETTI A VISO APERTO, FINALMENTE UNA CONFERENZA STAMPA VERA

Temperamento, schiettezza e versatilità. Sono le tre parole che prenderei dalla conferenza stampa di ieri di Paolo Zanetti.

Il nuovo allenatore del Verona si è mostrato a viso aperto, spiegando ciò che doveva spiegare, in primis sul piano tattico, cioè che non è un fondamentalista: “Ripartiamo dal 4-2-3-1, ma con margini di adattabilità e la capacità di avere delle modifiche. Contano i principi di gioco e non i sistemi”. Tradotto: mi adeguo alle caratteristiche dei giocatori a disposizione. Snodo fondamentale, questo, con un diesse “fantasista” come Sogliano, che nell’assemblamento delle rosa guarda più al talento individuale e alla personalità del calciatore che alle caratteristiche tattiche. Perciò serve un tecnico che sappia adattarsi al mercato del direttore sportivo e non viceversa.

E proprio sul rapporto con Sogliano, Zanetti è stato chiaro, confermandoci perché è stato lui il prescelto nella rosa di Sean: “Io sono uno diretto e mi piacciono le persone dirette. In questo io e il direttore siamo simili. Il direttore è un libro aperto, ti dice le cose anche scomode, ma preferisco uno scomodo ma vero, a uno che ti dice che sei un grande e poi ti manda a casa dopo quattro partite (il riferimento a Empoli non era causale, nda). Anch’io sono così. Il nostro rapporto, dunque, si manterrà come è stato in questa fase iniziale, improntato alla schiettezza”.   Attenzione, come andrà la relazione Sogliano-Zanetti è probabilmente la madre di tutte le questioni, la variabile dipendente che inciderà più di tutte. Questo perché quando lavori con un uomo totalizzante come Sogliano, ogni giorno sul campo, non puoi essere troppo primadonna o adombrarti di permalosità. Devi, anzi, avere dialettica, capacità di confronto (anche duro) e forza delle tue idee.

E Zanetti è certamente uomo di temperamento e passioni forti. Lo si è evinto anche ieri, sentendolo parlare. Non sono tanto le dichiarazioni ad avermi colpito, ma il tono di esse, la determinazione nel pronunciarle. Zanetti ha fame di rivincita e lo ha detto senza auto-censure, non gli è andato giù l’esonero di Empoli dopo i 43 punti della stagione precedente (“un’impresa sportiva. quella” ha ricordato). Per questo “quando mi ha chiamato il Verona ho sentito il serpente nello stomaco, per venire qui ho rinunciato a proposte economicamente più allettanti, ma non mi interessano i soldi, ho fame e spirito di rivalsa e questo è un club importante, allenare il Verona è una grande responsabilità”. Zanetti poi ha ammesso di sentirsi in sintonia sentimentale con la piazza, altro particolare non banale, perché il Verona storicamente ha sempre fatto bene con allenatori dal forte carattere più che con i giochisti.

Le premesse morali, tecniche e tattiche ci sono, l’impressione è (decisamente) buona. La parola al campo.

…DI ZANETTI E DI ALTRE COSE (CENTRO SPORTIVO)

Paolo Zanetti non è il migliore del mondo, ma è il migliore dei mondi possibili (per il Verona). Nel mazzo di carte che aveva in mano Sogliano, dato il budget, era la scelta più sensata, più di Donati o Inzaghi: perché già esperto, ma ancora tra i rampanti; perché di forte temperamento – come si conviene storicamente alla piazza di Verona – ma non egotico; perché allenatore tout court e non sbiadito di luce riflessa del passato di ex campione; perché tecnico dalla marcata identità tattica, ma non talebano  – vedi la capacità di variare schieramento dalla trequarti in su, dove serve adattarsi ai calciatori di talento. Inoltre, Zanetti ha dimostrato che, se supportato dalla società e da calciatori di qualità, raggiunge gli obiettivi prefissati. Ecco, sebbene nel calcio moderno lo si dimentichi e si conceda eccessiva vanagloria agli allenatori, poi sono i calciatori che fanno la differenza e determinano fortune e sfortune. Baroni si è salvato – e bravo Baroni! – ma nel girone di ritorno disponeva del miglior Serdar (a lungo nel giro della nazionale tedesca), Noslin (ne sentiremo parlare a lungo), Suslov e l’azzurro Folorunsho, più una serie di altri ottimi giocatori di categoria e-o nel giro delle loro nazionali.

Una mia perplessità, poiché sono per il calcio essenziale, veloce, verticale, piuttosto può riguardare la cosiddetta e controversa “costruzione dal basso”, di cui Zanetti si fa portatore. È un’idea tattica che se da un lato permette di far salire gli avversari in modo da colpirli poi sulla trequarti, dall’altro necessità di interpreti, ergo difensori, bravi nel palleggio. Sembra però che Zanetti non la applichi in modo totale e comunque si serve di un centrocampista che si abbassa sulla linea dei difensori.  Questo è un tema che sarà interessante approfondire anche nella conferenza stampa di presentazione del tecnico di Valdagno.

Ci sono gli scettici su Zanetti (ed è comprensibile), ma vorrei aprire una breve riflessione-digressione: noi a volte pensiamo che Verona sia il centro del mondo, in realtà siamo sì un club di serie A, ma economicamente non di fascia media (vedi Torino o Monza), ma piccola. Tradotto: non possiamo ambire a nomi di richiamo, ma arrivare agli emergenti o a chi ha sete di rilancio.   

Bottagisio. Setti dopo 12 anni di presidenza è riuscito finalmente a mantenere la promessa: il Verona ora ha un centro sportivo di proprietà. Sarà la casa delle giovanili e questo dara anche un’identità e un’allure al club, che si dota di qualcosa che rimarrà anche nel futuro. Ma soprattutto quella di Setti è un’operazione immobiliare che rafforza il valore economico e patrimoniale della società. Un passepartout con le banche e un asset da esibire ai potenziali compratori. L’occasione attesa da anni si è manifestata con un’asta fallimentare, come un’asta ha permesso a Setti di comprare la sede di via Olanda. Setti, va detto, è uomo che sa fiutare gli affari. Ma rilancio l’idea di Vighini: sarebbe affascinante in futuro ridare Veronello all’Hellas, intesa la prima squadra. E programmare all’antistadio occasionali sedute di allenamento o le partitelle in famiglia, per concedersi di tanto in tanto alla città. Modernità e identità possono andare in simbiosi.   

IL PARADOSSO: LA SVOLTA GRAZIE AL SEQUESTRO DELLE AZIONI. IL CLUB ORA AL BIVIO DELLA STORIA

Il Verona, nel dicembre 2022, viveva una drammatica e pericolosa fase di transizione sia tecnica che economica. Era da poco finito il ciclo di Juric e Tudor, il bilancio era gravato da ricchi ingaggi pluriennali della rosa e la squadra inchiodata all’ultimo posto in classifica.

La prima svolta.  Setti chiamò Sogliano, che è uomo molto più razionale e intellettualmente raffinato di quello che appare. Prima di quel Natale ci incontrammo una mattina in un bar in borgo Trento e mi rivelò: “Vorrei cambiare almeno 15 giocatori, servirebbero facce nuove per ridare nuovo entusiasmo. È finito un ciclo e non ne è stato aperto uno nuovo. Ma devo procedere con calma, sono appena arrivato e non posso mettere in pratica tutto quello che ho in testa. Inoltre non è fattibile riuscire a sgravare alcuni costi del bilancio in pochi mesi.  Intanto bisogna cercare di condurre in porto la nave”. Da lì solo pochi e mirati accorgimenti conservativi, (Zaffaroni che affianca Bocchetti e l’ingaggio di Duda e Ngonge), ma sufficienti per acciuffare un’insperata salvezza allo spareggio.

Poi l’estate scorsa un mercato con il freno a mano: tanti nuovi innesti, sì, tuttavia sul groppone ancora la vecchia guardia. Insomma, la rivoluzione di Sogliano era rimasta (ancora) incompiuta, i conti erano in rosso e nel frattempo Setti apriva una trattativa con un fondo d’investimento per la cessione delle quote. Non casuale, a quel punto, la scelta pragmatica di ingaggiare un allenatore adatto ad attraversare questa incerta “terra di mezzo” come Baroni, uomo di buon senso e di equilibrio, non rampante e non egocentrico, non il più bravo in assoluto tra coloro che potevano arrivare, ma il migliore in rapporto alla nostra situazione deficitaria. La cambiale da pagare era il doversi arrabattare in mezzo a mille casini: spogliatoio non amalgamato tra nuovi e vecchi, facce spente, giocatori con la testa altrove, incertezza societaria, titubanze di un Baroni che certamente non è un leader maximo o un temerario. Morale? Classifica ancora da tregenda e un altro Natale al buio, con la spada di Damocle del sequestro giudiziario delle azioni del club e la trattativa col fondo d’investimento che saltava.

La seconda svolta. Ecco,  qui si manifesta il paradosso. Del resto, nella storia, sono le grandi crisi ad aprire ai grandi cambiamenti.  La deficienza finanziaria della società e i problemi giudiziari di Setti con Volpi fanno saltare finalmente il tappo. Setti non ha più tempo, non può più procrastinare e deve reperire soldi in fretta. Sogliano così trasforma un (gigantesco) problema in un’opportunità: “Ora cambio tutto, facce, volti e diamo aria nuova allo spogliatoio” mi dice in quei giorni. Il ds realizza finalmente la rivoluzione  che aveva in testa da 13 mesi. Con piena soddisfazione di Baroni, che vede nel cambiamento la strada per la sua legittimazione: “Il mister ora è più sollevato, sente sua la squadra e la ritiene anche più forte tecnicamente” mi rivela Sogliano a febbraio. Il resto è storia nota: il Verona ingrana la quinta, girone di ritorno da decimo posto, 26 punti nelle ultime 21 partite e, a differenza dello scorso anno, salvezza conquistata per meriti tecnici e non demeriti altrui.

Ora la festa. Nei prossimi giorni la grande riflessione: cosa vuol essere il Verona?  Un club che vive alla giornata, rasenta i muri e galleggia affannato e sopravvivente con risicati budget, oppure che decide di fare uno step e diventare di media fascia? È chiaro che la domanda ne presuppone un’altra: cosa farà Setti? Deciderà di continuare da solo, di farsi supportare da un socio, o di cedere tutte le quote?

Siamo arrivati a un bivio della nostra storia. Oggi sostenere una serie A è finanziariamente sempre più oneroso, tra nuovi fondi, ricconi del sud-est asiatico o munifiche proprietà americane che alzano l’asticella economica generale. Ed è un trend destinato a crescere sempre più velocemente – nonostante le resistenze degli storici padroni del calcio italiano – perché il capitalismo globale non conosce inibizioni (e nemmeno regole), il calcio è un po’ una zona franca degli affari e l’Italia (come l’Inghilterra trent’anni fa) oggi è potenzialmente la nuova frontiera di investimenti internazionali, con il business edilizio (leggi nuovi stadi e centri sportivi) come attrattore irresistibile anche (purtroppo) di nuove speculazioni.

Quindi Setti faticherà sempre di più a competere. Il giochetto spendo zero-mi salvo-incasso i diritti tv (o il paracadute) non può durare all’infinito. Un Sogliano non lo trovi facilmente e comunque lo stesso diesse è il primo a sapere che operazioni alla Ngonge, alla Serdar o alla Noslin – che sono state una combinazione di abilità, buone relazioni e fortuna – non si ripetono in automatico. Setti deve decidere cosa fare da grande: continuare a rischiare, mollare la mano, o farsi affiancare?  

LODE AL PAREGGIO, QUESTO BISTRATTATO (ANCHE DA BARONI)

Il calcio di oggi è strano: gli allenatori, fin dalle giovanili, non insegnano più a difendere. E così ogni partita è anticipata dall’invocazione arrogantella e stucchevole del tecnico di turno: “Giocheremo per vincere”, suffragata ormai dall’evergreen banalotto: “Se ci mettessimo a difendere prima o poi il gol lo prenderemmo” (ma perché di grazia? Proprio perché tu non insegni a difendere…). Baroni, purtroppo, non fa eccezione, anzi, è uno degli adepti di questa cultura “giochista”.  

Non si ha più la capacità di strappare anche il punticino, di grattare i muri, sfangarla e farla franca, che nel calcio non sarebbe una vergogna dacché fa parte del dna culturale di questo sport. Peccato grave, specie se sei una squadra che deve salvarsi e quindi fare propria la massima intramontabile che amava ripetere quel raffinato filosofo della realtà che era Thomas Hobbes: “Primum vivere deinde philosophari” .

Il Verona visto con il Torino, ma anche con il Genoa (e perfino con il Milan, quando Baroni ha scelto di giocare uno contro uno a viso aperto) ha palesato mancanza di praticità e concretezza, e incapacità di adattarsi alle circostanze mutevoli della partita. E si è caricato ed è stato caricato di inutili pressioni. Così ha giocato per “vincere” e ha perso, non sapendo pareggiare. Sia da monito per le restanti due giornate e soprattutto per Salerno, lunedì: non carichiamoci a pallettoni di pressioni e aspettative, non facciamoci condizionare da smanie e manie grandiose, non giochiamo con la sindrome dell’ “ultimatum”.  Non è la partita della vita. Non siamo obbligati a vincere, ma abbiamo due risultati su tre a disposizione (e all’Inter ci penseremo poi).   

LA SALVEZZA (QUASI) CERTA, IL TOCCO DI SOGLIANO E LA TENTAZIONE IRRESISTIBILE DI SETTI…

È quasi fatta. E non c’è da stupirsi: il Verona, da quattro mesi a questa parte, ha cambiato marcia: 23 punti in 19 partite, prestazioni e solidità in crescendo e, nel mazzo, due giocatori sopra la media: Noslin e Serdar. Se l’ex nazionale tedesco non sorprende (per lui era questione di condizione mentale e fisica), la storia da raccontare è quella di Noslin, un passato familiare complicato, cresciuto nei sobborghi popolari di Amsterdam, fino a pochi anni fa calciatore di quarta serie olandese e rider. Noslin a 25 anni è attaccante in ascesa: ha talento, fame, umiltà, spiccata intelligenza extra-calcistica e lo raccontano come un ragazzo di una compostezza e un’educazione straordinaria. Dopo Ngonge, un’altra perla di Sogliano, che nei Paesi Bassi sa pescare come pochi e, in generale, è uno di quelli che ama e vede il talento individuale e – budget permettendo – su quello, più che sull’impostazione tattica degli allenatori, costruisce le squadre. Un ds all’antica, non schematico, fantasista: è infatti l’allenatore che poi dovrà assemblare il suo mercato e adattarsi ai giocatori (di qualità), non il contrario.

Al Verona ora basta un punto, con due è sicuro, ma la squadra è in salute, può muovere la classifica sia con Torino, Salernitana e Inter e dunque tranquillamente scrollare le spalle al calendario delle altre, fregandosene di calcoli e “radioline”. Va detto però che in queste ultime tre giornate ci sono una miriade di scontri diretti: Sassuolo-Cagliari, Udinese-Empoli e Frosinone-Udinese (aggiungerei Lecce-Udinese di domenica, i salentini sono virtualmente già salvi ma non possono far avvicinare l’Udinese). Quasi certo che le due che retrocederanno con la Salernitana (le più a rischio sono Sassuolo, Empoli e Udinese) non raggiungeranno i 35 punti.

A salvezza matematica potremo riaffrontare il discorso societario: riproponendo una questione di cui avevamo già scritto su questo spazio il 20 marzo: la razionalità suggerirebbe a Setti di vendere il club, ma l’emotività, lo status e la perpetua riproposizione del business incasso-spendo zero-mi salvo sono una tentazione irresistibile per rimanere in sella. Una cosa è certa: finché è in serie A, è Setti che decide se e a quali condizioni passare la mano. 

IL VERONA HA QUALITÀ ED È PADRONE DEL SUO DESTINO

Ora però la smetteremo di dire che il Verona è scarso e che tutte le altre sono più forti. Va bene il cuore, la capacità di soffrire, la grinta, ma nel Verona c’è anche e soprattutto qualità individuale. Quella fa la differenza, perché a calcio devi innanzitutto saperci giocare. È un’ovvietà, ma a Verona spesso la trascuriamo, presi come siamo a parlare di tutto fuorché di pallone e di tecnica. Sta di fatto che Baroni nello scontro della vita con l’Udinese si è potuto concedere il lusso di mettere in panchina Suslov, Duda, Bonazzoli e Vinagre in un colpo solo. Poi, chiaro, senza la giusta miscela tra temperamento e accortezza tattica non vai da nessuna parte, infatti qui avevamo sottolineato come quel mix fosse colpevolmente mancato contro il Genoa e pure contro il Milan, quando si è giocato lancia in resta e si sono palesate troppe distrazioni e leggerezze individuali (sciagurato sul piano tattico anche il primo tempo di Bergamo).

Ribadiamo: il Verona basta a se stesso, dunque per salvarsi deve limitarsi a restare concentrato e coerente nel a fare ciò che sa, senza complicarsi la vita, cercare virtuosismi o astruse formule. Baroni è bravo finché resta nel “suo” calcio, meno ogniqualvolta cerca (o è costretto a cercare) evasioni o mutamenti che si rivelano esiziali.

L’11 marzo, ospite di Supermercato in esterna, auspicavo che il Verona potesse arrivare a 31 punti dopo la partita con l’Udinese. Missione compiuta, siamo a regime, con la classifica che meritiamo (i punti persi e guadagnati si sono compensati). Allora immaginavo però che avremmo lasciato indietro qualche avversaria in più e invece il Lecce ha ripreso a correre, il Cagliari si è tirato fuori dalla melma e l’Empoli ha mantenuto la testa sopra la sabbia. Pertanto si potrebbe alzare la quota salvezza rispetto ai preventivati 35 punti, anche se molto dipenderà da Frosinone e Udinese che sono quelle che inseguono. Ma ora, a cinque partite dalla fine, è inutile stare qui a rimuginare e non vale la pena nemmeno elaborare tabelle. Piuttosto partirei da un dato di fatto che è una consapevolezza: il Verona ha raccolto 20 punti nelle ultime 17 partite, una buona media frutto di un cammino equilibrato, regolare (cinque vittorie, cinque pareggi, sette sconfitte). Significa che la squadra, al netto di qualche calo di tensione, è generalmente solida e non propensa a colpi di testa o harakiri improvvisi. Questo offre buone sensazioni per la volata finale. Il Verona è padrone del proprio destino.   

INCAZZATI E GRUNGE, SOLO COSÌ CI SALVEREMO

Mettiamocelo in testa. Non siamo la Berliner Philharmoniker o la London Symphony Orchestra. Non possiamo perderci in virtuosismi tecnici, la vanità è un lusso che non ci è concesso.  Il Verona deve badare al sodo, essere pratico, immediato, un po’ sporco. Ecco, continuando nella metafora musicale, più grunge e meno raffinato. Ergo, non esiste buttare via punti vitali per palle perse con leggerezza in pieno recupero, per la mollezza nei contrasti in area di rigore e per banali errori di impostazione nella nostra metà campo. Non possiamo neppure pensare di giocare a viso aperto con il Milan (non ne abbiamo i mezzi atletici, oltre che tecnici), o di sprecare tutte le energie nel primo tempo arrembante con il Genoa. Non dico di essere sparagnini, non è nella mentalità di Baroni, tuttavia più pragmatici sì.

C’è poi un limite tattico che è insito nel nostro allenatore, che ha dei meriti inconfutabili per i risultati del girone di ritorno, ma concettualmente rimane di fondo un monotematico, che fatica ad adattarsi all’avversario e a leggere le partita in corso d’opera. Non è un caso che ci abbia messo un girone intero a trovare la quadra tattica del Verona (perdendo mesi con un modulo in cui non credeva) e che ancora si perda in alcuni dettagli sostanziali  appena è costretto a cambiare lo spartito – in alcune partite ha abbassato il baricentro della squadra mettendo mediani o difensori al posto di attaccanti, con il Genoa nel secondo tempo l’ha infoltita di punte e mezze punte; una mancanza di coerenza che è indice di confusione.

Ribadisco che la squadra tecnicamente è all’altezza del compito a cui è chiamata, cioè non retrocedere. Abbiamo ritrovato due giocatori che in tempi non sospetti indicavo come decisivi:  Serdar, tornato ai suoi livelli di profilo internazionale, e Bonazzoli, che può essere il nostro uomo salvezza. Il punto perso col Genoa, può essere recuperato, l’importante è trovarsi a 30-31 punti dopo lo scontro diretto con l’Udinese.  Tuttavia occorre non inseguire menate, limitandoci a fare le cose che sappiamo fare. Vale per Baroni e i giocatori (il Davidowicz di turno non può impostare).  Basta essere centrati (tatticamente) e concentrati (nelle mezze palle, nei duelli individuali). E resteremo in serie A. 

CARO SETTI, È ANCORA TEMPO DI AZZARDI?

Con la grande pax Setti e Volpi il Verona torna a essere società tecnicamente vendibile. Con i conti pure più leggeri dopo il risanamento di gennaio, realizzato grazie a un mercato in uscita che ha portato nelle casse del club 40-45 milioni di euro. Ciò non significa ovviamente che Setti venderà tutte o parte delle quote, ma che potrà farlo se vorrà.

La domanda cruciale è: Setti desidera davvero vendere? La trattativa quasi chiusa a dicembre, prima del sequestro delle azioni, con il fondo anglo-americano suggerirebbe di sì. E altri indizi raccolti confermerebbero la sua intenzione di fare un passo indietro a giugno (almeno parziale, quindi cessione della maggioranza delle quote e ruolo operativo). Qualcuno dice che Setti, dopo aver passato nei mesi scorsi seri guai finanziari, ora si rende conto di non poter continuare a giocare al limite delle proprie possibilità.  

Questo razionalmente. Tuttavia sappiamo che certe scelte hanno anche un carico emotivo: a Setti piace far calcio, è a suo agio nell’ambiente, esserne parte lo vive come status sociale e le amicizie con chi conta in Lega – leggi i Lotito, De Laurentis e Galliani – sono ancora solide. Inoltre c’è il business. Il Verona per Setti è stato ed è ricca fonte di reddito. Si può rinunciare a tutto questo? Peraltro, proprio il carpigiano continua a dimostrare che si può spendere poco, ottenere plusvalenze (da cui riceve ulteriori bonus) e restare in serie A (il Verona ha buone chances di confermarsi per il sesto anno consecutivo), categoria che dà una valanga di milioni in diritti tv e introiti (il fatturato del bilancio 2022-23 è stato di quasi cento milioni…). La serie A è una gallina dalle uova d’oro, altroché.

Affinché il “giochetto” del massimo risultato con il minimo sforzo abbia possibilità di continuare, però, bisogna affidarsi a manager alla Sogliano, capaci di portare qui giovani talenti e di rilanciare i calciatori esperti. Ma comunque non è detto che ti vada sempre bene, come non è detto che Sogliano rimanga a scatola chiusa, ergo senza garanzie tecniche, e si sia in grado di assumere una figura simile a lui. 

Il bivio è lì. Se da un lato Setti, da uomo pratico, forse è il primo a rendersi conto di aver rischiato l’osso del collo, dall’altro l’adrenalina che dà il calcio, il suo modo di fare business, i soldi e i rapporti che ci girano attorno, sono comunque argomenti “sensibili” per chi, figlio di un elettricista e di una casalinga, partito da autista e poi magazziniere, in oltre trent’anni di vita imprenditoriale ha costantemente tenuto il piede sull’acceleratore (nei tempi d’oro Setti era arrivato a sedere contemporaneamente in 13 cda) e ha saputo spesso correre sul filo anche con una certa disinvoltura. Ma è ancora tempo di “azzardi”? E fino a quando?

TRE MESI FA NON L’AVRESTI VINTA. 12 PUNTI IN 11 PARTITE NON SONO FORTUNA. E SU SETTI (CHE CRITICO DA 10 ANNI) NESSUNO MI DIA LEZIONI

È una mezzofondo, mica i cento metri. E noi qua a farci mangiare vivi dall’emotività (spesso negativa), o a menarla con ridicole velleità estetiche. È più una questione da social che da stadio, dove ieri in ventimila hanno spinto il Verona. Epperò i social, che è sbagliato sminuire, creano massa critica e danno pure l’idea dell’aria che tira. Ieri sera ho letto molti giudizi negativi dei tifosi gialloblu: vittoria fortunata, prestazione scialba, così non ci salviamo eccetera eccetera. Idem dopo Bologna, dove invece il Verona semplicemente aveva trovato un’avversaria ingiocabile.  

Chiariamoci, il Verona ha raccolto 12 punti nelle ultime 11 giornate. Un bottino più che dignitoso per chi, causa Setti e i suoi pesanti problemi finanziari e giudiziari, vive nell’affanno e deve grattare perfino i muri per salvarsi. Un bottino che non è figlio della fortuna, ma di una squadra in netta ripresa e che non è più la babele del girone d’andata. Per dire, la partita di ieri tre mesi fa non l’avremmo mai vinta perché allora non avevi la stessa solidità in mezzo al campo (il reparto che conta) e quella capacità rabbiosa di pressare alto e di andare a guadagnarti un gol “di rapina”.

Insomma, non è fortuna. Capisco che dopo il sacchismo e, in tempi più recenti il guardiolismo, per qualcuno il calcio si misura con il parametro estetico dello “spettacolo”. Ma il calcio, unico sport che si gioca interamente con i piedi, è antropologicamente gioco “irregolare”, che non segue dei canoni logici men che meno estetici. Il calcio è anche carpe diem: difenditi con ordine e poi cogli l’attimo. Il calcio è la ricerca della verticalità per arrivare in porta nel minor tempo e con la minor fatica possibile, perché il suo unico senso è fare gol e non prenderlo. Vincere “giocando male”, come si suol dire, non è fortuna, ma forza, qualità (non nell’assoluto, altrimenti il Verona vincerebbe la Champions, ma riguardo alla partita di ieri).

La verità è che in parte dell’ambiente si respira pessimismo. È comprensibile che esista un pregiudizio negativo sulla squadra dopo la campagna vendite di gennaio, percepita dalla tifoseria come l’ennesimo tradimento morale di Setti. Tuttavia distinguerei Setti dalle questioni di campo. Perché nonostante le cessioni (quella davvero dolorosa è Ngonge) il Verona non si è indebolito al punto da essere condannato. Perché Sogliano – diesse “fantasista”, un borderline capace di mischiare le carte ed esaltarsi nella fatica, ai margini, quando saltano gli schemi e occorrono intuito, velocità di pensiero e idee –  ha pescato ancora una volta bene con Swidersky, Noslin e Dani Silva. Perché Serdar, calciatore di livello internazionale, lo hai recuperato alla causa. Perché Suslov nel frattempo è emerso. Perché Bonazzoli, vedi ieri, con i piedi che ha può essere determinante anche nella sua insopportabile indolenza. Perché Baroni, seppur in ritardo e dopo mesi di errori e confusione, da un po’ ha trovato la quadra.

Di Setti continuo a pensarla come la penso da anni, quando (non mi riferisco ai tifosi) in tanti erano in coda con il numerino a ruffianarselo in cambio di qualche strapuntino (quindi non accetto lezioni da nessuno). Sono rimasto due anni fuori dallo stadio (ne scrisse Vighini, che ringrazio, per quanto mi riguarda ho sempre preferito il silenzio perché ero direttamente coinvolto e poi non credo che alla gente interessino le vicende personali). Verona merita di più e di meglio e con questo presidente vivremo sempre nella provvisorietà, con chiari di luna finanziari e poca trasparenza nella gestione. Quante volte l’ho scritto? Ma questa mia opinione non mi condiziona nel valutare la squadra.  Che non so se si salverà (è una bagarre sanguinosa, ci sono mille squadre in due punti), ma quantomeno so che se la può giocare.          

I 50 GIORNI DECISIVI

Mi interessa poco di Bologna e non starei perciò a vivisezionare la (non) prestazione. Per qualità tecnica, caratteristiche tattiche e doti atletiche, la squadra di Motta – a differenza della forte ma compassata Juventus di Allegri – rimane “ingiocabile” per il Verona. Non significa giustificare alcunché, ma guardare in faccia la realtà ed evitare pericolose onde emotive e inutili isterismi.

Il Verona, ora, deve concentrarsi esclusivamente sul mini-campionato che si apre domenica al Bentegodi con il Sassuolo e si conclude il 21 aprile ospitando l’Udinese. In mezzo le trasferte di Lecce, Cagliari e Bergamo e gli impegni casalinghi con Milan e Genoa. Sette partite di cui quattro (Sassuolo, Lecce, Cagliari e Udinese) sono scontri diretti e una (Genoa) è alla portata. Mi sembra pleonastico aggiungere che in questi 50 giorni ci giochiamo la salvezza.

Il Verona, nonostante il passaggio a vuoto di Bologna, ci arriva sufficientemente competitivo. A centrocampo, quindi nel reparto determinante, Baroni ha trovato l’assetto e dispone di qualità e quantità. Ed Empoli a parte, le concorrenti non stanno meglio, anzi. Forse è poco, comunque può essere sufficiente. Certamente non entusiasma, ma questo è.