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LA BELLEZZA E L’INFERNO

 

La vita spesso è un paradosso. Il dramma può celarsi nella commedia e viceversa. Lo insegnano anche a teatro. La bellezza e l’inferno – prendendo spunto da un bel libro di Roberto Saviano – mischiati e sovrapposti. Ricordate il gol di Morante con la Pro Patria? Esplose il Bentegodi. Impazzii di gioia, nel mio solito posto in curva sud. Idem dopo il gol di Zeytulaev a Busto Arsizio. Eppure mi venne da pensare, qualche anno dopo a freddo, che quei momenti di esaltazione siano stati in un certo senso la punta dell’iceberg di undici anni di inferno. Gioire, esaltarsi, godere per una salvezza in C1. Nacque in quei giorni la reale consapevolezza: ma come eravamo messi? Cos’eravamo costretti a subire? Cosa festeggiavamo a fare? Eppure il popolo del Verona, altro paradosso, si è unito e compattato proprio in quei giorni bui, come non era accaduto nemmeno in epoche più gloriose. Il popolo del Verona nella sofferenza è stato un monolite. La bellezza di un popolo e l’inferno di un mondo (quello della terza serie),  riprendendo Saviano e la dicotomia del titolo.

Adesso siamo a un sospiro dalla serie A, fuori da ogni stucchevole e italiana scaramanzia (“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, Giorgio Gaber). Ci sarà tempo per ragionarci su, per analisi tecniche, per pensare alla squadra dell’anno prossimo (la serie A è un altro mondo e il Verona non sarà costruito per essere una spanna sopra a tutte nella corsa salvezza, come lo è stato quest’anno in quella promozione). Per discutere del budget di Setti, delle strategie di Sogliano, della posizione di Mandorlini (che moralmente merita di restare, ma senza gli equivoci di quest’anno tra lui e la società, la A non perdona), se Cacia, bomber sublime in B, vale la massima serie oppure no (legittimo discuterne senza che l’interessato s’incazzi a favor di telecamera?).   

La serie A significa tante cose. In primis ridare  dignità, anche fisica e di luogo (restituire la propria casa), al Verona. Significa non sentire più la bella avvocatessa torinese, conosciuta a Nizza in viaggio due anni fa, schernirmi: “Ma il Verona che fine ha fatto?” (io involontariamente profetico e volontariamente orgoglioso risposi “riparliamone fra due anni”). Significa riportare una città nella massima serie, con tutto il carico di passione e di gente che ne segue – non solo quella che va allo stadio, o guarda la squadra in tv (a Verona ama il Verona anche chi non si interessa di calcio, altro paradosso). La serie A significa vedere scene da (ieri) pomeriggio al bar: i butei con cui hai condiviso l’adolescenza e la prima giovinezza allo stadio abbracciarti, piangere, brindare, imprecare di felicità, sventolare i bandieroni e cantare. Esaltati? No, ultimi giapponesi romantici in un calcio che dovrebbe guardarli in faccia, ammirarli e vergognarsi un po’ di se stesso per quanto è marcio di cinismo, disincanto e avidità. La serie A significa, non dimenticare, ma fare pari e patta con il “dramma” di Piacenza. Ricordate quel pomeriggio e quella sera? Ecco, possiamo tutti rimetterci il cuore in pace e sorridere.

Undici anni, è cambiato il calcio e anche il mondo (non in meglio). Forse siamo cambiati anche noi.  Il Verona ha toccato l’inferno, adesso abbiamo diritto alla bellezza. “A chi conosce la bellezza della libertà e della libertà di vivere o amare, e non sopporta il puzzo del compromesso, della corruzione, della devastazione della propria terra” scrive Saviano e, chissà perché, oltre a tante cose più importanti del calcio, penso a Pastorello e Cannella. Siamo sopravvissuti a loro, possiamo ancora aver paura? No, voliamo alto e godiamoci la bellezza. “La bellezza salverà il mondo” afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij. Quella gialloblù di sicuro.

 

  

     

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