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L’ATTO D’AMORE DI MARTINELLI

La storia di Giovanni Martinelli al Verona nasce il 30 gennaio del 2009 da un atto d’amore. Quello per suo figlio Diego, morto dieci anni prima in un incidente stradale e tifoso dell’Hellas. Giovanni Martinelli comprò il Verona, dopo una lunga rincorsa (ci provò già ai tempi di Pastorello), proprio in omaggio al figlio scomparso. Parto da qui, perché questo spiega molte cose avvenute poi. Spiega la tenacia e la costanza con cui Martinelli tirò fuori dalle secche (finanziarie e sportive) il club. L’irrazionalità per cui un imprenditore così oculato potesse sborsare fior di quattrini per una società di calcio dissestata e di cui, sino ad allora, non era stato neppure granché tifoso. La ribellione alla fusione col Chievo, che in un primo momento avallò, salvo poi far saltare il tavolo a cose (praticamente) fatte.

C’è un emozionante contrasto nella storia di Martinelli al Verona. L’amore per il club che di giorno in giorno cresceva man mano che la malattia debilitava e rimpiccioliva il suo corpo. Una storia di presenza e di coraggio. Il coraggio di mostrarsi in pubblico nonostante il visibile male: un gesto non banale per uno come lui, abituato a comandare e non certo a farsi compatire. Un gesto che nella sua essenza spiega tutto del personaggio: la missione, lo scopo erano più importanti di qualsiasi narcistica vanità.

Martinelli (forse) è stato il presidente più importante della storia del Verona. (Forse) più di Giorgio Mondadori, il patron della prima serie A. (Forse) più del mitico Saverio Garonzi, l’uomo che lanciò il Verona stabilmente ai massimi livelli. (Forse) addirittura più di Tino Guidotti, il presidente dello scudetto (ma il proprietario era Nando Chiampan). Certo, l’uomo di Sandrà – tanto minuto nel fisico e bonario nei modi, quanto deciso e determinato nella tempra – il Verona non l’ha portato al tricolore e neppure in serie A, ha “solo” (si fa per dire) compiuto un miracolo che non risulterà mai in nessun albo d’oro: l’ha salvato da morte certa.

Quando nel gennaio del 2009 Martinelli acquistò il Verona dal povero Arvedi, infatti, il club era praticamente in bancarotta, privo di liquidità in cassa, spogliato nel patrimonio (i giocatori erano quasi tutti in prestito) e sommerso dai debiti. Martinelli tentato inizialmente dalle sirene della fusione (un desiderio più subìto che voluto a onor del vero), si fece perdonare cogli interessi: azzerò i debiti e spese fior di quattrini per farci uscire dall’inferno della serie C. Ci riuscì al secondo tentativo (dopo che il fallimento del primo avrebbe ammazzato un toro), coadiuvato dalla bravura di Mauro Gibellini (subentrato al borioso Bonato) e soprattutto dal carisma e dalla “follia” incazzata di un Andrea Mandorlini all’epoca con le stimmate del Savonarola.

Martinelli stabilizzò il Verona in cadetteria, gettando le basi societarie e tecniche (blindò Rafael, Maietta, Jorginho, Gomez, Hallfredsson e lo stesso Mandorlini) per il salto in A, poi avvenuto grazie a Setti e Sogliano. Come tutti i grandi, quelli autentici (Lucio Battisti, Mina, Edberg, Platini, Prost), Martinelli ha saputo fermarsi al momento giusto, ne prima ne dopo. Un po’ la malattia che già avanzava, un po’ l’orizzonte di nuovi investimenti per lui insostenibili, capì che non poteva dare di più a una piazza che agognava la serie A. L’ultimo suo capolavoro è stato il congedo, cioè scegliere a chi cedere (Setti) e come (tenendosi il 10% delle quote per qualche mese, come garanzia morale).   

Si è guadagnato la posterità in eterno, Martinelli. Riposi in pace e felice, ha vissuto per lasciare il segno. Non lo dimenticheremo.

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