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PIACENZA? PARAGONE RIDICOLO

Il fantasma aleggia. Gira che ti rigira si ritorna sempre lì. Qualche temerario (o forse semplicemente realista?) accenna ad alzare il tiro? Stoppato sul nascere. “Niente illusioni, ricordiamoci della retrocessione con Malesani”. Qualche fustigatore delle frasi fatte butta lì che, sì, forse si può azzardare a qualcosa in più di una salvezza? Zittito, magari con tanto di toccatine agli zebedei più partenopee che scaligere. “Voliamo basso, anche con Malesani…”.

Maledetta retrocessione, quella! Il pomeriggio di Piacenza ci perseguita dal 2002. Comprensibile che il trauma continuasse a riverberarsi nei polverosi anni d’inferno, quelli della C, di Cannella, dello spareggio a Busto, dell’eterno limbo vivere o morire. Meno adesso, che dovremmo solo godercela.

Chiudiamola qua una volta per tutte: il fantasma di Piacenza non esiste più. Troppo diversa, particolare e problematica quell’annata per azzardare qualsivoglia paragone con l’attuale. Mondi diversi, distanti anni luce. Allora subentrarono fattori che col calcio giocato non hanno nulla a che spartire, sia dentro la società, sia (di conseguenza) nello spogliatoio.

All’epoca successe di tutto, in primis il ciclone Parmalat (di dominio pubblico solo qualche anno dopo, ma già in atto) che creò qualche problema anche a Pastorello e generò un distruttivo effetto a catena. Il club non poté rispettare alcuni impegni economici coi giocatori, chiuse con mesi di anticipo le cessioni di alcuni di loro (Camoranesi e Oddo in particolare) e comunicò ad altri che non sarebbero rientrati nei piani futuri. La tempesta perfetta. Così la squadra, convinta di essere salva, inconsciamente mollò sul più bello, salvo annusare il pericolo troppo tardi. Infortuni veri, ma soprattutto presunti, la testa già altrove, una vita poco professionale di qualcuno anche fuori dal campo. “Quell’anno chi ci ha creduto sino all’ultimo sono stati Malesani e Mutu e pochi altri”, racconta in privato chi lavorava nel Verona dell’epoca.

Adesso, capite bene, la situazione è diversa. Setti ha costruito una società strutturata, con un obiettivo: consolidarsi in serie A e crescere. La variabile dipendente del business calcistico di Setti è solo una: restare dove siamo. Rimanendo in A anche Setti trae un vantaggio. A differenza di undici anni fa non dipendiamo da altro (su Volpi solo chiacchiere) e questo ci deve tranquillizzare. Gli stipendi vengono pagati puntualmente, i giocatori in prestito secco (l’unico prestito reale, i prestiti con diritto di riscatto sono possibili acquisti posticipati) sono pochi e molti rientrano nei piani societari anche per i prossimi anni. Risultato? Tra club e tesserati c’è fedeltà. Perciò chiudiamola qua e ragioniamo solo da un punto di vista tecnico. Si può ambire a più di una salvezza, o dipendiamo troppo da Toni? Nutrire qualche obiettivo più prestigioso è possibile, o abbiamo una difesa troppo debole? Ecco queste sono domande razionali, ma esorcizzare fantasmi inesistenti è ridicolo.  

    

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