Con i clandestini respingenti non possiamo esserlo (ci vorrebbe uno Stato che funzioni) quindi non ci resta che essere accoglienti. Per forza, per mancanza di alternative. Tuttavia possiamo risparmiarci di essere ipocriti.
Almeno chiamiamoli col loro nome: clandestini appunto, non profughi. “Molti sono già scappati” dalle comunità dei vari comuni veneti, scriveva ieri il Gazzettino. Il profugo vero non scappa perchè sa di poter ottenere il riconoscimento del suo status. Mentre quello tarocco se la da a gambe.
Tra le protesta dei tanti sindaci, la più interessante mi pare quella di Achille Variati, Pd di Vicenza, che al Corriere del Veneto dichiara:” Questo non è il Paese del Bengodi. Il governo deve cambiare metodo ed evitare gli errori del passato” Quali errori? Lo spiega sempre il Corriere: “Degli stranieri arrivati in Veneto con l’emergenza del 2011 meno della metà veniva effettivamente da Paesi in guerra e molti sono scappati via dalle strutture di accoglienza ben prima di una valutazione sull’asilo politico”. E la storia si ripete oggi, Marzo 2014.
Il governo deve cambiare? Renzi viene dalla cultura cattolica, quindi non può che essere accogliente. Per lui il problema non esiste. Alfano conta come il due di Coppe (briscola a Denari).
Dato che siamo tutti accoglienti, per forza. Lo sono anch’io e più degli altri; al punto che suggerisco ai clandestini la formula inappuntabile per essere accolti, coccolati e foraggiati. Dirsi profughi, provenienti da scenari di guerra? Funziona fino ad un certo punto, ma c’è di meglio. Facciano outing, affermino di essere gay perseguitati nei Paesi mussulmani. E a quel punto, tutti, ma proprio tutti gli accoglieranno a braccia aperte e senza alcuna protesta, da Papa Francesco a Variati a tutti sindaci.
Se non aprissero loro le braccia verrebbero infatti accusati di essere omofobi, con un rischio ben più alto di finire loro in carcere rispetto a quello, inesistente, che corrono i clandestini.
PER VEDERE IL VENETO GUARDA LA BBC
Se oggi vuoi vedere e capire cosa succede in Veneto è inutile sintonizzarsi sulla Rai. Devi guardare la Bbc, oppure Russia Today. Devi leggere The Telegraph, Express o The Independent.
Cito quei media stranieri che con grande risalto e altrettanto stupore raccontano l’ondata indipendentista che scuote la nostra regione. Cosa che quotidiani e televisioni nazionali non fanno. Nemmeno i fogli locali, più portati ad ironizzare che a raccontare.
Dico stupore da parte della Bbc, perchè il partito storico della secessione, la Lega, è in piena crisi; e i movimenti indipendentisti veneti sono pervasi dalla sindrome di divisione dell’atomo, ed anche per questo mai hanno raggiunto risultati elettorali significativi. Eppure in due giorni 700 mila veneti hanno partecipato al referendum online sull’indipendenza. Non sono 700 mila? Sono comunque centinaia di migliaia, un fenomeno di massa. Che lascia tanto più stupefatti quanto più si è scettici, cioè increduli sui risultati pratici della consultazione.
Vuol dire che la spinta indipendentista, la delusione per l’Italia “una e indivisibile”, è tanto forte da spingerti anche a compiere rituali di dubbia utilità. Quindi i media dovrebbero capire e raccontare le ragioni di questa ondata indipendentista, ovviamente anche se non le condividono.
Il rapporto con Roma è andato logorandosi ma mano che è cresciuta la pressione burocratica e fiscale senza un’adeguata contropartita. I veneti, individualisti portati a crearsi da soli la propria fortuna, hanno trovato il contratto sociale italiano sempre più insoddisfacente.
Per non parlare della colonizzazione subita nel pubblico impiego: miriadi di medici e insegnati provenienti da altre regioni, senza contropartita: cioè senza un solo medico o insegnate veneto assunto, non dico in Sicilia, ma nemmeno in Lombardia.
Per non parlare dei vertici della pubblica amministrazione. Dove un questore, un prefetto, un procuratore capo veneto non lo trovi nemmeno col lanternino. Per non parlare di Renzi che delle “quote venete” se ne frega e ci riserva il contentino di quattro sottosegretari veneti in ruoli di secondo piano.
Al male antico si è aggiunto quello nuovo: l’euro, che ha messo in ginocchio tutta quella piccola e media produzione veneta che viveva e prosperava con l’export.
E allora via dall’Italia! via da questa Ue! Per andare dove? Dove chissà e si vedrà. Ma la prima cosa, quando stai male in un posto, è il desiderio (magari irrealizzabile) di andartene via.
Queste le ragioni di un’ondata indipendentista che andrebbe, non dico condivisa né cavalcata, ma almeno raccontata e capita. Senza aspettare che sia la Bbc a farlo.
COS’E’ LA DESTRA, COS’E’ LA SINISTRA…
Capita che perfino gli annunci diventino o sembrino realtà, quando la realtà non esiste. Così Renzi, in polemica con la Camusso e la Cgil, ha potuto tranquillamente affermare che “questa manovra è la più a sinistra degli ultimi anni”. Indiscutibilmente vero. Dal momento che la sinistra non esiste più; esattamente come la destra.
Mutuando dal linguaggio religioso neocattolico potremmo dire che l’inferno sì, esiste ancora, ma è vuoto. Esattamente come le antiche categorie politiche di destra e sinistra, che continuiamo ad utilizzare anche se sono ormai vuote.
Aveva capito tutto il grande profeta dei nostri tempi, Giorgio Gaber che già vent’anni fa si domandava “ma cos’è la destra, cos’è la sinistra” e ironicamente rispondeva “fare il bagno nella vasca è di destra, far la doccia invece è di sinistra…tutti i film che fanno oggi sono di destra, se annoiano son di sinistra.” (vedi la Grande Bellezza…)
Oggi contano i risultati, conta produrre benessere per la popolazione governata o, all’opposto, peggiorarne le condizioni di vita e di lavoro. Se questo è il criterio di giudizio, saltano non solo le categorie destra/sinistra, ma rischia di essere rimessa in discussione anche la contrapposizione democrazia/dittatura. Perchè ci sono regimo autoritari che, di fronte alle emergenze poste da una crisi economica senza precedenti, riescono ad adottare contromisure più celeri ed efficaci rispetto alle procedure e ai tempi imposti dai regimi democratici.
Basti pensare con quale rapidità la Cina (detta comunista) è arrivata alla totale liberalizzazione dell’economia.
Stare a discutere oggi, sulle macerie italiane, se serva una ricetta di sinistra o di destra per tentare la ricostruzione, è un puro esercizio retorico. Il piacere di usare ancora parole e categorie del bel tempo antico, tipo fedeltà coniugale o pene dell’inferno…
IL VERO COSTO DELLA POLITICA
Quali siano i veri costi – scandalosi – della politica lo spiega l’economista Mario Baldassarri intervistato da Italia Oggi. Scandalosi anche gli altri, per carità, ma il problema è sempre quello: non scambiare la pagliuzza per la trave.
Baldassarri parla di “Acquisti beni e servizi, forniture, appalti: più o meno 130 miliardi. Più della metà sono fatti dalle regioni con la sanità. Dietro questa voce, 70 miliardi, ci sono tutte le differenze di prezzo che sappiamo: la famosa siringa che da una parte d’Italia costa un euro e da un’altra ne costa cinque. Sa cos’è successo in sei anni e con un’inflazione bassa? Questa spesa è cresciuta del 55% perchè prima valeva meno di 50 miliardi”.
Domanda del giornalista – L’altra faccia dei costi della politica?
Risposta di Baldassarri: “No, sono i veri costi della politica, mi scusi. Perchè tagliando parlamentari e indennità si risparmiano 700 milioni. Ma qui si rubano decine di miliardi, capisce?”
L’ha capito il giornalista di Italia Oggi? L’abbiamo capito tutti noi?
La ragione è semplice. Appalti e forniture nel privato, in anni di inflazione zero, praticamente non sono cresciuti. Perchè l’artigiano che deve rifornirsi di pelli ha tutto l’interesse a contrattare il prezzo migliore in rapporto alla qualità. Mentre al burocrate che gestisce l’appalto pubblico non interessa strappare il prezzo migliore bensì la tangente più consistente. Normalmente commisurata in percentuale all’importo. Dunque più spende soldi pubblici più intasca.
Oggi il Corriere parla in prima pagine di “spese pazze per tre milioni di euro” dei consiglieri regionali lombardi nell’arco di 10 anni. Pagliuzze tanto scandalose quanto patetiche. Emblematico dell’etica pubblica il fatto che consiglieri con stipendi sopra i 10 mila euro al mese si facciano rimborsare impropriamente le spese anche per il gratta e vinci, il biglietto del tram, il caffè…
Possiamo credere che i burocrati siano invece integerrimi servitori dello Stato? Quante intere prime pagine è giusto attenderci che ci raccontino, non le ruberie di 3 milioni in dieci anni, ma di decine di miliardi ogni anno documentate (indotte) da Mario Baldassarri?
O continueranno a prenderci in giro enfatizzando la pagliuzza per nasconderci la trave?
ROMA DELENDA!
Altrochè Cartagine. Roma delenda est! Dovrebbe essere distrutta questa capitale che ogni anno accumula centinaia e centinaia di milioni di debito con la pretesa che siano gli altri a pagarlo. Tutti noi attraverso la fiscalità generale.
Ma cosa crede Roma di essere Venezia? Tanto per ricordare che, quanto a debito, anche noi abbiamo la nostra Roma; che si chiama Venezia, appunto.
Distruggerla, ovviamente, è un sogno non realizzabile. Consoliamoci con le cose precise che ci insegnano le vicende della capitale.
Primo. Il colore dei sindaci non conta nulla (come quello dei governi nazionali): prima Veltroni, poi Alemanno, ora Marino. Tutti uguali, nessuno ha combinato nulla. La differenza non è tra destra e sinistra, ma tra chi fa le riforme e chi tira a campare col clientelismo.
Secondo. Basta con i piagnistei (Renzi dixit), nessuno che si assuma le proprie responsabilità, tutti a prendersela con chi sta sopra. Chi se la prende con la Ue e la Merkel, ignorando le riforme che i nostri governi non hanno mai fatto. Ignazio Marino, incapace di ridurre la spesa del suo comune, se la prende con il governo che non vara il “salva Roma”. Zaia, incapace di utilizzare meglio il cospicuo bilancio regionale (ad esempio tagliando i finanziamenti ai corsi di formazione professionale fasulli) se la prende anche lui con il governo che non gli finanzia le opere di salvaguardia dall’alluvione. Tutti con la scusa buona per nascondere la proprie pecche.
Terzo. C’è una differenza precisa. Da noi, a Padova come a Verona, le ex aziende municipali sono una risorsa. Hanno utili di bilancio e danno una mano ai magri bilanci dei comuni. A Roma sono la causa prima del dissesto del bilancio della capitale; perchè hanno una funzione precipua: erogare più stipendi possibili ai clientes. E nessun sindaco romano interviene.
Quarto. C’è la responsabilità precisa dei cittadini elettori. Nel 2002 l’illustre medico Ignazio Marino fu cacciato a pedate dall’University of Pittsburg Madical Center perchè truccava le note spese. Un imbroglio così evidente che Marino controfirmò la lettera di licenziamento e tolse il disturbo senza tentare alcuna difesa. E questo imbroglione confesso la maggioranza dei romani lo hanno eletto ad amministrare la loro città.
Che Marino la faccia morire. Che gli strangoli con le tasse locali. E’ quello che i romani si sono cercati e si meritano.
RICOSTRUIRE LA SCUOLA
Giustamente nel suo discorso programmatico Matteo Renzi ha inserito tra le priorità assolute – accanto a lavoro, tasse, giustizia e lotta alla burocrazia – la scuola, l’edilizia scolastica.
La nostra scuola va infatti ricostruita anche fisicamente, restituendo cioè un minimo di decoro agli edifici dove avviene l’insegnamento. Edifici oggi troppo spesso degradati, simili a un Cie o a un campo profughi.
La forma diventa sostanza, il contenitore deve essere consono alla funzione che viene esercitata al suo interno.
Nelle chiese di periferia costruite negli anni Sessanta, mattoni e cemento armato, non senti traccia della presenza del divino: più adatte a suonare la chitarra che a pregare. Più adatte ad aggiungerci graffiti che a studiare le nostra scuole…
Quando ho visto la maestosità, l’imponenza degli edifici dei college universitari di Oxford sono rimasto colpito: avevi la sensazione di entrare in un vero tempio della cultura. Come per il fedele entrare a San Zeno o alla basilica del Santo. Impensabile di andarci a cazzeggiare.
Non a caso in molte scuole inglesi è ancora obbligatoria la divisa. Perchè anche l’abito fa il monaco. Anche questa forma diventa sostanza. Nella sua lettera più famosa Macchiavelli racconta che, dopo aver fatto bisboccia in osteria durante il giorno, la sera rientra a casa per dedicarsi alla lettura dei classici ma, prima, si lava e si veste a tono, indossa “abiti regali e curiali” e solo dopo apre i libri e inizia lo studio…Da noi gli studenti universitari si presentano agli esami nelle sessioni estive in braghette corte e canottiera…
Dopo, ovvio, ci vuole anche tutto il resto: professori meglio retribuiti e selezionati con una rigorosa verifica di competenze e capacità didattiche; divieto di accesso agli edifici scolastici per quei genitori “uniti nella lotta” ai figli fannulloni per screditare gli insegnanti. Basta con quella che Susanna Tanaro ha definito “la continua e nefasta ingerenza delle famiglie nella scuola”. Piena autonomia per gli atenei che possano assumere docenti (anche stranieri) pagandoli ciò che dimostrano di valere.
Ma la ricostruzione della nostra scuola ha certo bisogno anche di un passaggio fisico che restituisca decoro e “significato” agli edifici.
Quanto a Renzi non si può imputargli di essere stato vago nel suo discorso programmatico: alle Camere non poteva che delineare a parole uno scenario generale. I fatti, se verranno, li giudicheremo nei prossimi mesi.
ROTTAMARE LA COSTITUZIONE
Rottamare la Costituzione. Questo deve essere il vero obiettivo, il punto di partenza, per Renzi o per un qualunque altro premier che voglia davvero cambiare il Paese e tirarlo fuori dalla palude. Aver rottamato D’Alema, la Bindi, Bersani, lo stesso Letta, è solo un passaggio, magari indispensabile, per arrivare al dunque: cambiare la Costituzione, cominciando a dare più poteri al premier sul parlamento.
C’è un esempio illuminante. Renzi ha un progetto radioso su pubblico impiego e burocrazia: allineare in tutto le regole a quelle del lavoro privato – orario, flessibilità, mobilità interna, welfare – trasformando così “la pubblica amministrazione da erogatrice di stipendi in erogatrice di servizi valutabili sulla base di costi e benefici”.
Inoltre pubblici dirigenti licenziabili, esattamente come i dirigenti privati. Limite di 6 anni massimo oltre il quale nessun burocrate più restare al vertice di comuni, regioni, ministeri, aziende partecipate.
Progetto radioso che implica un importante passaggio culturale per il politico che lo ha fatto proprio: aver compreso che l’interesse generale viene prima della tutela degli interessi del proprio elettorato di riferimento (pubblico impiego per il centrosinistra, popolo dei produttori per il centrodestra).
Progetto che Matteo Renzi sembra aver sposato, ma destinato a restare un libro dei sogni con la Costituzione vigente. Perchè il parlamento può bloccare – a rischio zero – questo come qualunque altro progetto di riforma che vada a ledere i privilegi delle varie corporazioni. Il parlamento lo fa puntualmente, perchè le corporazioni premono e ungono, e perchè il costo è zero: non esiste cioè il rischio di andare a casa, dato che il premier non ha il potere di sciogliere le camere e indire nuove elezioni.
Ce lo avesse, i parlamentari, piuttosto che andare a casa, accetterebbero (perfino) di farsi carico dell’interesse generale, ossia di varare riforme che cancellino privilegi ormai inaccettabili.
Ecco perchè bisogna rottamare la Costituzione. E chi la difende, chi la proclama “la più bella del mondo” (Ma ne hanno almeno letta un’altra? Si chiede Adriano Sofri), in realtà difende lo statu quo: vuole che il Paese resti nella palude.
LA DIFFERENZA TRA NOI E LA SVIZZERA
Le tante discussioni sull’esito del referendum svizzero sull’immigrazione, mi pare abbiano trascurato di sottolineare la differenza abissale che ci separa da questo Paese.
Nella Confederazione elvetica c’è stato uno scontro all’ultimo voto sugli effetti economici delle frontiere aperte.
Magari sbagliando hanno prevalso di un soffio quelli che ritengono più conveniente una progressiva limitazione degli accessi. Magari sbagliando, perchè una serie di dati stanno a dimostrare che la Svizzera ci ha guadagnato dai trattati sottoscritti con la Ue sulla libera circolazione: dal 2002 al 2012 ci sono stati 600 mila nuovi posti di lavoro, 250 mila ad appannaggio dei cittadini svizzeri; il tasso di occupazione degli autoctoni è aumentato dell’1%; i lavoratori stranieri non hanno depredato il welfar perchè versano il 22% dei contributi e ricevono il 16% delle rendite.
Confindustria svizzera è contro le quote perchè le aziende cercano manodopera qualificata e il 90% dei lavoratori stranieri ha un diploma professionale o di scuola superiore. Quindi la scelta protezionistica sarebbe sbagliata. Fatto sta che solo su questo si è discusso e votato: l’incidenza degli immigrati sull’economia, sui posti di lavoro.
E arriviamo alla differenza abissale. Si facesse mai un referendum del genere in Italia, verterebbe su un’equazione completamente diversa: l’incidenza degli immigrati sull’ordine pubblico. Chi da noi invoca la chiusura delle frontiere lo fa anzitutto in nome della sicurezza.
La Svizzera ha il 23% di stranieri: 1 milione e 700 mila su otto milioni di abitanti. Il triplo della percentuale presente da noi, il doppio di Germania e Francia. Nessun Paese europeo ha una percentuale paragonabile. Eppure non c’è un solo svizzero che viva, e quindi che si ponga il problema del rapporto tra stranieri e degrado delle loro città, tra stranieri e furti nei negozi e nelle abitazioni, tra stranieri e bande di predoni.
Il che, per chi voglia capirlo, è l’ennesima dimostrazione che il problema non sono gli stranieri ma noi. Noi che, qualunque fosse il colore del governo, abbiamo governato al peggio il fenomeno dell’immigrazione. Al punto, come ha denunciato il sindaco renziano di Ravenna Fabrizio Matteucci, di aver ridotto “le nostre città ad una polveriera”.
Problema che per gli svizzeri, capace di governare i flussi e incutere deterrenza, non esiste assolutamente. Loro discutono, votano e si domandano solo se gli immigrati siano un vantaggio o uno svantaggio per il proprio tenore di vita.
CHI ORDISCE IL VERO COMPLOTTO
E’ ridicolo, oltre che fuorviante, pensare e dire che Napolitano abbia ordito un complotto contro Berlusconi.
Ridicolo perchè – magari senza riuscirci – il Presidente della Repubblica ha cercato di mettere una pezza al Paese che andava a rotoli (sia pure esercitando prerogative al limite, che nessun altro Capo dello Stato aveva mai esercitato prima).
Ma è soprattutto fuorviante. Serve cioè a non farci vedere e capire che un ben diverso complotto è operativo ormai da decenni. Complotto che ha un obiettivo preciso: indebolire sempre più i partiti, la politica, il potere dei vari governi.
Chi ha interesse ad averlo fatto e a continuare a farlo? Panebianco lo scrive con molta chiarezza oggi sul Corriere: “Lo Stato burocratico-giudiziario” che “ha bisogno di una politica debole”. “La democrazia – spiega Panebianco – è oggi ostaggio delle principali componenti dello Stato burocratico che la controllano e la ricattano. Nulla essa può senza il placet della burocrazia e delle magistrature, amministrative od ordinarie che siano. E poiché quelle sono tutte strutture adibite alla conservazione dell’esistente, i loro vertici non daranno mai alla politica il permesso di introdurre i cambiamenti richiesti dal resto del Paese”
Chiaro? Il complotto lo ordiscono “poteri diffusi anonimi che si sentono minacciati” da qualunque cambiamento, compreso quello che tenta di introdurre Matteo Renzi. Perchè per loro cambiamento significa ridimensionamento del loro potere, dei loro privilegi, dei loro benefici.
Tornando a Berlusconi lo strumento del complotto (non certo l’ideatore) fu Gianfranco Fini che potè impunemente (cioè senza tornare subito alle urne) toglierli un pezzo decisivo di maggioranza, rendendo così il suo governo debole e inconcludente; come tutti i governi devono essere nell’ottica e per l’interesse dello Stato burocratico-giudiziario.
Penebianco arriva a scrivere che anche la Corte Costituzionale fa parte del complotto perché ha confezionato “all’Italia una polpetta avvelenata: se il Parlamento, a causa delle sue divisioni non rimedierà, la politica parlamentare che uscirà con la proporzionale pura sarà ancora più degradata e impotente di quanto già non sia”.
Strumento (inconsapevole) del complotto sono anche quei media che producono lo sputtanamento quotidiano della politica e dei partiti. Ad esempio insistendo per settimane su Batman-Fiorito e le mutande verdi di Cota, per farci credere che i problemi drammatici del Paese siano queste ruberie da scugnizzi; e non l’esproprio della democrazia da parte dello Stato burocratico-giudiziario, a tutela dei suoi privilegi e poteri di ultracasta in confronto ai quali i 300 mila euro arraffati da Batman fanno ridere. (Mastropasqua, per dire, gli stessi media l’hanno archiviato e dimenticato in un paio di giorni).
Partiti e politica sono l’unico strumento che abbiamo in mano noi cittadini per incidere attraverso la democrazia. Mentre nei confronti dello Stato burocratico-giudiziario siamo totalmente impotenti.
Si prova a contrastare il complotto sostendo – scrive sempre Panebianco – chi almeno ci prova, sia pure con limiti e contraddizioni, a cambiare qualcosa: oggi sta provandoci Matteo Renzi.
IN RICORDO DI TEO SANSON
Si sono svolti oggi a Verona, alla basilica di San Zeno, i funerali di Teofilo Sanson, Teo Sanson come tutti lo chiamavano. Un grande imprenditore che è giusto ricordare come emblema di cos’è stata e cos’è un’intera generazione di nostri imprenditori veneti. Partiti dal nulla con grinta, determinazione, intuizione, decisi ad uscire dalla miseria e costruirsi un futuro.
Teo Sanson iniziò con un carrettino dei gelati, un triciclo come ancora si vedono nelle nostre spiagge. Nel 1952 ebbe l’intuizione di salire fino al passo dello Stelvio dove transitava il giro d’Italia. Con la folla entusiasta e accaldata quel giorno i gelati li vendette tutti. Tornato a casa sua madre non poteva crederci e lo apostrofò: “Teo, di la verità, non puoi aver guadagnato tutti questi soldi. Devi averli rubati!”
Da lì cominciò la fortuna di Sanson, con l’abbinata tra gelati e ciclismo (portò a Verona i mondiali su strada) e con la passione anche per il calcio. Da presidente dell’Udinese ruppe il muro delle sponsorizzazioni. La burocrazia calcistica le vietava, quasi fosse uno sport da dilettanti a rischio inquinamento. Ma la burocrazia è cieca, vietava lo sponsor solo sulle maglie. E così Teo mise la scritta “Sanson” sui pantaloncini dei calciatori dell’Udinese. Fu multato, ma il muro era infranto.
Purtroppo spesso la generazione successiva di imprenditori, invece che dal triciclo, è partita dalla Porche o dalla Ferrari che papà gli regalava a 18 anni. Senza stimoli non si va da nessuna parte: nella vita fai meno strada con la Ferrari che col triciclo…Questo lo usano ancora i cinesi che, per grinta e determinazione, ricordano proprio i nostri imprenditori del dopo guerra.
Persone come Sanson che, anche senza esserlo per scelta, sono stati di fatto dei benefattori: capaci di creare ricchezza, lavoro, opportunità. E come tali andrebbero ricordati, superando quell’approccio ottocentesco che tende invece a considerarli sfruttatori.
L’augurio comunque è che oggi Teo Sanson, dalla basilica di San Zeno dopo l’ultimo saluto, sia montato sul suo triciclo e, passando per lo Stelvio, sia salito fino in Cielo.