Molto originale davvero la giustificazione data dal sindaco di Roma Ignazio Marino dopo il masso lanciato contro il pullman dell’Hellas: opera di quattro scalmanati – ha detto – che non rappresentano la città. Già è sempre così, quando succede nelle grandi città è colpa di poche teste calde, una esigua minoranza di facinorosi.
Peccato che la regola non valga per Verona. Quando accade qui le quattro teste calde, i facinorosi diventano l’emblema e la prova della “Verona violenta e razzista”. Immediatamente viene criminalizzata l’intera città, senza alcun distinguo.
Ha ragione il sindaco Tosi quando dichiara che se fosse successo a Verona “sarebbe stata messa sotto accusa l’intera città”. Su Roma invece si sorvola anche quando la violenza ha una chiara connotazione razzista, come accaduto lo scorso anno con i tifosi del Tottenham aggrediti e accoltellati, dai laziali, in quanto ebrei ( Tottenham è la squadra del quartiere ebraico di Londra).
Altro che i “buuu” a Balotelli vanamente attesi sabato scorso al Bentegodi…
Ma è ora di prendere atto che il vero problema, endemico e cronico, del calcio italiano è la violenza fisica. Non quella verbale. Esiste anche la seconda, e più che ai “buuu” e ai fischi penso agli insulti razzisti. Però dovrebbe esserci un senso delle proporzioni.
Se la leghista Dolores Valandro – giustamente – è stata condannata ad un anno per l’invito a stuprare la Kyenge, quanti anni di galera dovrebbero scontare i tifosi romanisti che hanno scagliato il masso? Masso che, se colpiva l’autista del pullman dell’Hellas, poteva provocare una strage?
Violenza fisica sulla quale invece sorvoliamo per concentrarci su quella verbale. La violenza politica – dei no tav, dei no global – la trattiamo alla stregua di una forma di dissenso democratico. Quella calcistica la addebitiamo a quattro fanatici che “non rappresentano che loro stessi”. Mentre sono la rappresentazione perfetta di un Paese che, di fronte alla violenza come alla criminalità diffusa, non sa esercitare la deterrenza.
In Inghilterra la Thatcher ha stroncato gli hooligans (al loro confronto gli ultras di Roma e Lazio sono dilettanti del crimine…). Li ha stroncati in un battibaleno. Per lo stesso motivo non esiste un quel Paese la criminalità diffusa dei clandestini (e nemmeno degli inglesi). Anzi: non esistono i clandestini. Possono esserci, ci sono, i terroristi islamici. Ma questa è un’altra storia.
Noi invece la deterrenza la esercitiamo con le chiacchiere, i decreti legge, la burocrazia. Cioè non la esercitiamo.
Abbiamo burocratizzato al massimo gli ingressi agli stadi: tornelli, tessera del tifoso, biglietti da acquistare in banca. Risultato: entra lo stesso di tutto – dai fumogeni, alle spranghe, alle bombe carta – in compensano entrano sempre meno spettatori, demotivati ad andarci oltre che dalla violenza anche dalle inutili burocrazie.
Certo, abbiamo stadi vecchi e inospitali, rovinati da piste per l’atletica mai utilizzate. Ma anche qui non cediamo agli equivoci: fossero anche moderni, ospitali e attrezzati con tutto il contorno di bar, negozi e ristoranti, la gente normale, le famiglie, continuerebbero e non andarci finchè resta il pericolo concreto di finire preda della violenza degli ultras.
SFOTTO BALOTELLI. SONO RAZZISTA?
Il comportamento del popolo dell’Hellas, sabato al Bentegodi durante Verona-Milan, ha generato un serio problema interpretativo della legge Mancino sull’istigazione all’odio razziale. Niente “buuu” all’indirizzo del calciatore nero-italiano, nessun fischio, solo applausi. Più super Mario sbagliava un passaggio, più tirava alta una punizione, più i tifosi della curva e dell’intero stadio lo applaudivano gridando:” Mario, Mario! Bravo, bravo!”
Insomma lo sfottevano, lo prendevano in giro. E qui sorge il problema. Si può sfottere un nero, o si può farlo solo con un bianco? Chi lo fa col nero è un razzista che gli manca di rispetto ed istiga all’odio nei suoi confronti? Ripenso a Mourinho che cacciò Balotelli dall’Inter sostenendo che “aveva un solo neurone”. Magari di un calciatore bianco (chessò: di Boriello) puoi dirlo. Ma come la mettiamo se cambia il colore della pelle?
In attesa di lumi dalla Cassazione, sentiamo cosa pensano i frequentatori del blog.
Personalmente applaudo al popolo dell’Hellas che ha avuto l’intelligenza di sfottere, non tanto Balotelli, quanto la becera retorica antirazzista dei media che in tutti i modi (senza riuscirci) avevano cercato di drammatizzare la vigilia del match.
Becera retorica. Perchè il razzismo è una cosa molto, molto seria come ci hanno dimostrato i drammi e le pulizie etniche del Novecento: Hitler agli ebrei e Stalin ai kulaki non è che facessero “buuu”, li hanno sterminati in quanto appartenenti ad una razza e ad un ceto sociale ritenuti inferiori.
Questo è il razzismo. Che tutt’ora si manifesta ad esempio con i cristiani che quotidianamente vengono sterminati in alcuni Paesi in quanto cristiani, cioè appartenenti ad una religione inferiore.
Per viltà ignoriamo il vero razzismo, facciamo finta che non esista. Media ed istituzione, nazionali ed internazionali, trovano assai più comodo e meno pericoloso farsi belli (farsi le pippe) con il “razzismo” da stadio. Che metto tra virgolette perchè mai ho sentito grida e fischi preventivi indirizzati a calciatori di colore persone serie, ma unicamente a quelli – neri o bianchi – con carenza di neuroni.
NON C’E’ PANE? DATEGLI INSALATA!
L’ultimo dato di Confindustria sul crollo dei consumi mi ha ricordato Maria Antonietta quando diceva rivolta al popolo affamato di Parigi: “Non c’è pane? Dategli brioches!”
Secondo l’associazione degli imprenditori anche il popolo italiano del 2013 sarebbe ridotto così male da non potersi più permettere nemmeno di comprare il pane e la pasta. Allarme: crollano perfino gli acquisti dei beni primari!
Peccato che il popolo – cioè la generalità dei cittadini, fatti salvi i poveri veri che pure ci sono – possa permettersi le brioches, ossia le insalatine prelavate e confezionate in busta dei supermercati. Che costano tre volte la pasta: meno di 50 cent. il mezzo chilo di pasta, 1 euro e 20-1 e 30 la bustina con un paio d’etti di insalata. Con la pasta puoi mangiare per tre giorni, l’insalatina la consumi con un pasto.
Dopo l’allarme di Confindustria, ripreso dai media, una nostra giornalista è andata dai fornai a intervistare sia i panettieri che i loro clienti. I primi confermavano: si vende meno pane. I secondi spiegavano: carboidrati? Ma siamo matti! Bisogna stare a dieta per calare la pancia e mettere il costume, in questi mesi tutti ci dicono che si deve mangiare soprattutto frutta e verdura!
Prodotti che, appunto, costano come il pane (in effetti piuttosto caro) e molto più della pasta.
Questo per dire quanto sia stupido ( e controproducente) il catastrofismo di chi arriva a dipingerci come un popolo di affamati ridotti ad acqua (del sindaco) e senza nemmeno il pane. Quando invece possiamo ancora permetterci le brioches. E stiamo regolarmente intasando le autostrade verso il mare, i monti, il lago.
Ripeto. Non che non ci sia la crisi, che investe soprattutto il mondo dei dipendenti privati e degli autonomi. Ma ci sono gli ammortizzatori sociali, i risparmi, il tessuto famigliare. Che fretta c’è di dipingerci alla fame? Minimo aspettiamo che arrivi sul serio. Cosa ottengono Confindustria e certi media a deprimerci prima del tempo? Autolesionismo puro.
PAPA FRANCESCO COL BAGAGLIO A MANO
Sono tante le immagini che hanno colpito nello storico viaggio di Papa Francesco in Brasile. Oggi tutti i media mostrano quelle della messa conclusiva sulla spiaggia di Copacabana con oltre tre milioni di fedeli. Per non parlare della preghiera flash mob, con prelati e vescovi che ballano e cantano guidati dal rapper brasiliano.
Ma forse la più emblematica è quella della partenza: Francesco immortalato mentre sale in aereo portandosi il bagaglio a mano come l’ultimo turista di un volo low cost.
Il Papa ha fatto della semplicità il suo emblema. Niente appartamenti vaticani, mangia alla mensa assieme agli altri parlando con chi capita. Certo. La Chiesa aveva bisogno di questo bagno di umiltà. Purchè non si arrivi a confondere la semplicità con la banalità. Forse, il Vicario di Cristo in terra, un segretario che gli porti la borsa può permetterselo senza dare scandalo…
E le nostre magnifiche chiese – piene di storia, di opere d’arte e di sfarzo – cosa ne facciamo? Chiudiamo San Pietro, la Basilica del Santo, San Zeno, perchè sono troppo ricche, e andiamo a pregare in un capannone di periferia per essere e mostrarci più francescani?
Credo che una certa “sacralità”, l’abito, il linguaggio, la forma non guastino nemmeno nel mondo laico. A partire dalla politica dove oggi tutti si fingono francescani.
Laura Boldini non mangia al ristorante di Montecitorio ma alla mensa dei dipendenti. Può starci. Ma, quando si preoccupa di darne notizia all’Ansa e ai media, la domanda sorge spontanea: presidentessa ma ci sei o ci fai? Perchè la sobrietà di certi politici è da tempo una finzione a beneficio dei gonzi. C’era l’onorevole Peppone, il deputato del Pci, che partiva da Roma in prima classe salvo passare in terza all’ultima stazione prima del suo paese per farsi vedere popolare dai suoi elettori. C’erano i capi della Dc sempre molto attenti a girare il territorio in vecchie Fiat che non inducessero il sospetto di arricchimenti illeciti. Puro teatro.
Oggi i parlamentari tra di loro si chiamano “cittadino” o “eletto” al massimo “deputato”. Hanno cancellato quel “onorevole” di cui andavano così fieri in passato. Sono forse più onorevoli oggi che hanno rinunciato alla qualifica? Hanno recuperato credito agli occhi dei cittadini o stanno perdendo quello residuo?
Da giovane giornalista qualche volta andavo a Roma e sentivo un’emozione per la maestosità del luogo: entravo a Montecitorio come nel tempio della nostra democrazia. Oggi per come vestono, parlano, si atteggiano i nostri rappresentanti potrebbero anche loro tenere le sedute in un capannone dismesso alla periferia di Roma.
I nostri fraticelli della politica: tutti in bicicletta, tutti morigerati, tutti con lo scontrino.
Non che la semplicità guasti, anzi ce n’è bisogno. Ma evitando gli eccessi perché altrimenti diventa banale e falsa.
SANT’AGOSTINO E I PRODOTTI CINESI
Dai giocattoli per bambini ai “giocattoli” per adulti. L’ultimo sequestro di prodotti cinesi ha offerto questa novità: marchingegni hard per giochi erotici.
A Padova c’è l’Ingross della mercanzia prodotta in Cine che da qui viene distribuita in tutto il Veneto. Gli interventi, i sequestri, della Guardia di finanza sono all’ordine del giorno. I finanzieri fanno il loro dovere perchè – secondo la normativa vigente nel nostro Paese – sono prodotti fuori legge, contraffatti e pericolosi per la salute.
Tuttavia è inevitabile pensare a Sant’Agostino che si illudeva di svuotare il mare con il secchiello. Possono i sequestri stroncare un mercato di queste dimensioni? Mercato che prospera sulla concorrenza di prezzi molto più bassi. Difficile crederlo. Anzitutto, se sequestro deve essere, dovrebbe avvenire non dentro il territorio nazionale ma al confine: dormono forse le autorità portuali dove ogni giorno sbarcano centinaia di container provenienti dalla Cina? Dormono o sono indotti a dormire?…
Ma il secchiello non basta né per le merci né per gli uomini. Anche l’America ha rinunciato a illudersi di fermare la clandestinità con i rimpatri: ben che vada ne rimpatri dieci e ne arrivano altri mille. (Il che non toglie che il clandestino che delinque vada perseguito con il massimo rigore). Non si cava il ragno dal buco, non si svuota il mare col secchiello.
Sia per le merci che per gli uomini servono misure strutturali che vadano oltre la pura repressione. Parlando di merci ci vuole un diverso accordo internazionale con la Cina; ragionevole, basato sulla reciprocità, e che non si illuda di impedire la libera circolazione.
La giustificazione di certe nostre misure protezioniste fa francamente ridere: ci vuol tutta per credere che il giocattolo cinese faccia venire il cancro al bambino che dovesse metterlo in bocca…
Abbiamo calcolato il pericolo delle ritorsioni? Di una Cina che decida di chiudere il suo enorme mercato ai nostri prodotti? Quando il nostro Paese può sopravvivere e tornare a crescere solo rilanciando l’export.
Una problematica globale che non stiamo affrontando. E intanto continuiamo a mettere il secchiello in mano ai Sant’Agostino in divisa come se potessero risolvere loro la questione.
LA KYENGE E I BECCHINI DELLA LEGA
La stupidità, la capacita di farsi del male, che dimostrano certi dirigenti della Lega davvero non conosce limiti.
Si illudeva chi pensava archiviata una stagione con il pensionamento del vecchio leader Umberto Bossi (che almeno aveva l’attenuante della malattia). I suoi epigoni, anche se schierati con Maroni, si dimostrano eredi più che degni.
Parlo di Roberto Calderoli che non trova di meglio che paragonare il ministro Kyenge ad un orango. Poi, cercando di scusarsi, insiste: dicendo che lui è amico degli animali, che il suo non è un giudizio politico ma estetico. E quindi ribadisce la somiglianza somatica…
Qui in Veneto Daniele Stival pensa di essere spiritoso e dice che è offensivo per gli oranghi il paragone con il ministro congolese… Discorsi degni di un ubriaco la sera al bar. Non certo di persone che hanno la pretesa di far politica, che siedono nelle istituzioni l’uno da vicepresidente del Senato, l’altro da assessore regionale.
Giustamente il presidente Napolitano di sdegna e parla di “imbarbarimento della vita civile”. E’ inaudito il tono, le offese razziste, la volgarità. Ma più ancora mi lascia allibito la stupidità politica: questi, Calderoli e Stival, sono gli autentici becchini della Lega Nord; stanno seppellendo i resti del loro partito.
Anche in questa occasione a dimostrare buon senso, e senso politico, è il sindaco di Verona, nonchè segretario veneto della Lega, Flavio Tosi. Il quale da un lato ha subito condannato Calderoli dicendo che “l’offesa personale non va usata né nella vita né nel confronto politico”. Ma soprattutto arriva al nocciolo della questione osservando che così facendo “ha spostato il tema su cose che sono offensive e di nessuna utilità, quando il problema dell’immigrazione è un problema vero di cui bisogna parlare”.
Questo è il nocciolo dell’autolesionismo di certi leghisti: c’è un tema caldo, sentito da tantissimi cittadini, affrontato male per l’incapacità di governarlo – quello dell’immigrazione appunto – e, se sai far politica, puoi usarlo anche in termini di consenso. Mentre, se sei un ubriaco capace solo di vomitare insulti, fai semplicemente il gioco della Kyenge che, qualunque tesi possa sostenere o progetto ventilare, non può più essere oggetto di eventuali critiche perchè i Calderoli e gli Stival le hanno confezionato lo schermo di una solidarietà unanime. Paragonandola ad un orango le hanno regalato l’immunità. Autentiche aquile.
Se vogliamo non sono aquile nemmeno gli avversari politici di Calderoli e Stival che ora invocano le loro dimissioni. E perchè mai farli dimettere? Meglio lasciarli a completare l’opera di becchini della Lega Nord…
MARCHIONNE: DI DIRITTI SI MUORE
E’ evidente che la Fiat, non sta per lasciare, ma ha già lasciato l’Italia. Il core business, Chrysler in testa, è ormai altrove. D’altronde questo – al di là di un po’ di comprensibile melina – era l’obiettivo di Sergio Marchionne: dal suo primo giorno di lavoro al Lingotto non ha fatto altro che progettare e costruire la fuga dalla casa automobilistica degli Agnelli dal nostro Paese.
I motivi sono vari: i tribunali, la Fiom, l’assistenzialismo, le tasse e la burocrazia. Tutto però è riconducibIle ad un dato culturale che lo stesso amministratore delegato Fiat ha così riassunto: “Diritto al posto fisso, diritto al salario garantito, al lavoro sotto casa, a urlare e a sfilare, a pretendere. Se continuamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”.
Lui di morire non ha intenzione e per questo se ne va. Perchè ha capito tutto. Ha fatto la sintesi di quanto qui non funzione sotto il profilo lavorativo, e non solo.
Diritti, diritti, diritti: alla casa, al lavoro, alla salute, alla pensione. Questa è la parola d’ordine. E poi ci meravigliamo che gli immigrati continuino a rivendicarli anche loro. Come se noi italiani dessimo un esempio diverso. Come se la nostra parola d’ordine fosse il dovere: dovere di cercarmi un lavoro, dovere di guadagnarmi lo stipendio, dovere di osservare le leggi, dovere di provvedere a me stesso e alla mia famiglia invece di pretendere la pappa fatta dallo Stato…
Uno Stato con risvolti etici a corrente alternata: che tuona (a parole) contro l’evasione fiscale e tollera (anzi pianifica) l’evasione dal lavoro, cioè lo stipendio intascato a prescindere da qualunque verifica di produttività.
Tralasciando le considerazioni economiche e sociali, dovremmo almeno tener presente il dato soggettivo e individuale: tutti questi diritti producono il diritto ad una vita inutile, piatta, mortificante e noiosa. Che solo questo assicurano alla fine il posto fisso, il salario garantito, l’automatismo nella carriera.
Nessuno stimolo a migliorarsi, a progredire, nessuna soddisfazione nel raggiungere mete successive. Una vita che vale ben poco la pena di vivere quando l’unica tensione deriva dal guardare l’orario che scorre in attesa di passare a cazzeggiare dal posto di lavoro, al piano bar, agli hobby, al villaggio vacanze.
E la responsabilità prima non è del singolo, dall’imboscato in comune, in redazione o in azienda. Lui è solo la vittima. La responsabilità è di un modello diseducativo nefando: continuando a vivere di soli diritti, di diritti si muore.
FACCETTA NERA, FACCETTA BIANCA
Le faccette nere finiranno con farci “neri” noi, faccette bianche.
Se avevo un dubbio me l’ha tolto la faccetta nera con cui ho parlato questa mattina. Lo chiamo così perchè alla domanda sul suo Paese d’origine mi ha risposto “vengo dall’Abissinia”.
E’ un uomo che lavora per la ditta che raccoglie i rifiuti nel mio comune. Lo incrocio da anni, qualche volta abbiamo bevuto un café, ma non avevamo mai discusso con calma prima di oggi.
Lui comincia a dirmi che questo nostro Paese è un disastro; che non sappiamo nemmeno usare la democrazia, che siamo incapaci di darci un governo dato che abbiamo diviso i voti in tre parti uguali. Assurdo. Poi aggiunge che ha deciso di andarsene via dall’Italia.
Credevo pensasse a qualche altro Paese Europeo: la Svizzera, la Germania, l’Inghilterra. “No – mi precisa – io torno in Africa”.
Vedendomi stupito, mi spiega che la sua prima scelta è l’Angola, il Paese africano che nell’ultimo anno ha avuto la crescita più alta del pil, oltre il 14%, con materie prime importanti come il petrolio e dove c’è l’esplosione dei consumi e degli scambi commerciali (gli angolani sono colonizzatori di ritorno: oggi stanno comprandosi mezzo Portogallo!).
Aggiunge che non è niente male nemmeno la sua Etiopia: pil +13%; un presidente, morto l’altr’anno, che ha investito molto nell’istruzione. E – spiega – “quando la scuola funziona, i giovani non hanno più motivo per andarsene. Oggi abbiamo aziende ad alta tecnologia che producono anche le componenti per gli iPad”.
Parentesi: cosa significa investire nell’istruzione? Assume insegnanti a cazzo, perchè sono poveri precari, cioè scambiarla per un’agenzia per l’impiego? O selezionare nel modo più rigoroso un ceto di docenti, preparati e ben pagati, che avrà il compito di formare, non solo la classe dirigente, ma tutta la struttura lavorativa portante di un Paese che voglia avere un futuro: ingegneri, tecnici, medici, avvocati, operai specializzati, etc. etc. Noi abbiamo seguito la prima strada, l’Etiopia la seconda.
Chiusa parentesi e torniamo alla faccetta nera. Un uomo, partito dalla miseria, che ha già trovato un lavoro stabile qui da noi, ma che ambisce a migliorarsi e fa un ragionamento molto interessante: inutile puntare su Paesi maturi come Svizzera e Germania, dove magari trovi stipendi e servizi migliori di quelli italiani, ma sono comunque già assestati, c’è scarsa mobilità sociale; l’opportunità per un autentico salto di qualità lo offrono i Paesi emergenti, quelli che stanno conoscendo uno sviluppo esplosivo: Angola o Cina o Etiopia, appunto.
Due domande. La prima: quanti sono da noi i dipendenti, pubblici e non, che avendo già un lavoro stabile decidono di fare reset e ricominciare da capo, ragionando sui Paesi dove più sta crescendo il pil?
Quanti sono i nostri figli che, dopo essere emigrati in un Paese ed essersi inseriti, sono pronti ad emigrare nuovamente per rimettersi in gioco ripartendo da zero?
Rispondete alle due domande e avrete la dimostrazione matematica che le faccette nere non possono che farci “neri” noi, faccette bianche.
Ultima postilla: l’ho chiamato un uomo, avrà 30 anni, è un uomo. I nostri li chiamiamo ragazzi, anche a 40 anni, perchè restano ragazzi. Ragazzi a vita; ma troppo spesso impreparati ad affrontarla, la vita.
IL SOFFITTO BASSO SOFFOCA I TALENTI
Pierluigi Magnaschi, direttore di Italia Oggi, nel suo ultimo editoriale parla di “una nuova emigrazione che è perfino gioiosa”. Gioiosa nel senso che non è indotta dalla miseria, che non nasce dalla costrizione e dal dolore come avveniva fino agli anni Cinquanta del secolo scorso.
Oggi – spiega Magnaschi – gli italiani che vanno a lavorare all’estero sono giovani e meno giovani, non i disoccupati, ma le persone preparate, spesso poliglotte, che hanno già un lavoro in settori molto innovativi e che “scelgono di emigare perchè credono di trovare all’estero migliori possibilità di realizzazione professionale e personale”.
Fa l’esempio di una società che opera nel cosiddetto quaternario a Milano, la città più internazionale d’Italia, dove su 60 dipendenti negli ultimi mesi due sono emigrati negli Stati Uniti, uno ad Hong Kong e uno in Australia.
Pensano di trovare maggiori soddisfazioni professionali in quei Paesi dove ognuno è sindacalista di se stesso, cioè tratta la propria retribuzione in base alla competenza che offre, sapendo di essere precario a vita, cioè di avere contratti della durata media di 18 mesi che verranno rinnovati o meno in base ai risultati.
Uno di questi emigranti gioiosi spiega che va via perchè l’Italia è una nazione “ con il soffitto basso”, che tende a soffocarti; e va all’estero perchè vuole invece respirare a pieni polmoni (stessa sensazione che provo anch’io, da semplice padre-turista, quando vado a trovare mia figlia che vive e lavora a Londra: atterro e mi si aprono i polmoni).
Una nazione col soffitto basso. Sintesi perfetta del nostro Paese soffocato dalle tasse, dalla burocrazia, dai regolamenti, dalle caste dove mai entri per merito ma solo per parentela famigliare e/o politica. Appiattito dai contratti nazionali di lavoro che umiliano il talento.
Tasse che non sono tanto l’Irpef, ma l’iva su tutti gli acquisti, le bollette dove le imposte pesano quanto i consumi, il pieno di carburante, la previdenza, col risultato finale di uno Stato che “incamera il 70% della tua busta paga”, scrive Magnaschi.
Un Paese dove è vietato tutto ciò che non è esplicitamente consentito. E non viceversa come negli Usa, in Inghilterra, in Australia dove tutto è consentito tranne l’esplicitamente vietato.
Quelli della mia età, che hanno un avvenire dietro le spalle, un po’ respirano consolandosi con la buona qualità della vita delle nostre città, della provincia veneta. Ma chi ha talento, chi ha una vita davanti, non può che sentirsi soffocare dal soffitto italiano che si abbassa sempre di più. Per loro fortuna il mondo globalizzato offre l’emigrazione gioiosa.
MARINA, IL RENZI DI SILVIO
Per quanto siano afflitti e sdegnati, elettori e dirigenti del Pdl non possono non prendere atto della realtà: la fine politica di Silvio Berlusconi è arrivata, non dalle urne, ma per via giudiziaria. Pur sempre di fine si tratta.
La sentenza Ruby sta infatti per essere seguita da una valanga di altri procedimenti dall’esito scontato. Così come sembra scontato che la stessa Cassazione confermerà l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, cioè la morte politica appunto.
(Esito inevitabile anche perchè, come ho avuto occasione di osservare, non esiste oggi un Palmiro Togliatti capace di imporre la pacificazione nazionale attraverso l’amnistia per i nemici politici. Non esiste e basta, non far parte della realtà dell’Italia 2013, inutile pensarci)
Nel giorno del diluvio, del Giudizio Universale Ambrosiano, il popolo di centrodestra può però consolarsi con la nascita dell’erede politico che fin’ora gli era mancato. E’ (sarebbe) Marina Berlusconi che – Bisignani dixit – già nella fatale serata di Lunedì, durante la cena ad Arcore, è (sarebbe) stata incoronata ad erede dall’intera famiglia, allargata alla fidanzata Francesca Pascale.
Un’incoronazione accolta con entusiasmo dalle parlamentari del Pdl che l’hanno subito definita “la nostra Renzi”. Non è la prima volta che viene fatto il suo nome, la novità è che questa volta non c’è stata nessuna smentita. E sembrerebbe la conferma che papà Silvio ha deciso.
Comunque vada, a prescindere dai precedenti dell’altra Marina, la Le Pen, erede anch’essa e con successo dell’estrema destra francese; a prescindere anche dalla regola sempre più confermata, nelle mansioni più svariate – dalla politica, all’impresa, alla cultura – che è la figlia primogenita l’autentica erede del padre; a prescindere da tutto questo, Marina Berlusconi sembra proprio avere tutte le carte in regola: donna, con gli attributi, determinata, preparata, capace di interpretare un ruolo pubblico, nemmeno troppo vamp. Insomma una giovane Lady di Ferro per la destra italiana che fin qui ha visto l’estinzione naturale degli aspiranti delfini, da Casini a Fini e via dicendo.
Una futura competizione per la premiership tra lei e Matteo Renzi rappresenterebbe il rinnovamento totale della nostra politica; una sfida capace di consolidare davvero il bipolarismo.
Vien da pensare che con Matteo e Marina in campo non ne resti (di consensi) per nessun altro, o quasi. Staremo a vedere.