Pagarli, ma lasciarli a casa. E’ questa la linea del Piave. L’ultima, realistica, trincea difensiva. Non si può infatti pensare di licenziare gli eserciti di pubblici dipendenti, di burocrati, che sono stati assunti negli anni. Non puoi farlo perchè devono mangiare, non sanno fare lavori veri, e quindi non puoi più negare loro lo stipendio se non vuoi affrontare la rivolta sociale. Ma, appunto, puoi almeno lasciarli a casa per evitare che facciano danni.
Danni di questo tipo. Mi raccontava un ristoratore che, dovendo spostare il freezer dalla posizione invernale a quella estiva, lui deve (dovrebbe) farsi fare da un professionista il disegno della nuova collocazione e poi presentarlo all’Asl per l’approvazione! In caso contrario rischia sanzioni che vanno dalla multa alla chiusura del locale!
Ora la cosa più vergognosa è che il tutto viene spiegato alla luce delle “sacre” ragioni dell’igiene e della sicurezza alimentare. Mantre è una procedura ignobile, vergognosa, concepita solo per consentire a certi professionisti di lucrare e per fingere che gli stuoli di burocrati inutilmente assunti alle Asl abbiano qualcosa da fare. Anzi: per fornire loro uno strumento di ricatto nei confronti di ristoratori e pubblici esercenti.
Ecco perchè, come ho scritto di recente a proposito dei filmati di Striscia all’Asl di Verona, i più seri sono quelli che timbrano il cartellino e se ne vanno via; quelli che non fingono di lavorare e non fanno danni “lavorando”. Quelli che paghiamo e se ne stanno a casa.
Il caso del ristoratore vale quello del meccanico costretto a seguire e pagare le lezioni di prontosoccorso. E sono solo due dei mille altri esempi di pratiche e passaggi burocratici concepiti solo per depredare ed esasperare chi ancora ha voglia di lavorare sul serio e di produrre.
Inseriamoci adesso nel contesto europeo. Se persino i tedeschi, culturalmente rigorosi, sono stanchi del rigore della Merkel e le hanno tolto il voto, figuriamoci noi italiani che culturalemte siamo ben poco rogorosi, per non dire cialtroni…Il che non toglie che sia una follia pensare che l’austerity è finita, che possiamo tornare a spendere e spandere per finanziare la crescita col denaro pubblico ed uscire così dalla crisi.
L’Europa, e il rigore tedesco, centrano ben poco. Se un Paese importa più di quello che esporta. Se ha un debito pubblico che sfiora ormai i duemila miliardi di euro e che neppure Monti è riuscito, non dico e ridurre, ma nemmeno a contenere (essendo aumentato anche nell’ultimo trimestre). Se questo Paese non sa controllare la spesa pubblica né combattere l’evasione fiscale e quindi continua ad aumentare la tasse dirette ed indirette strangolando così i consumi e le attività economiche, questo Paese può essere in Europa o in Africa o in Australia: è comunque destinato a fallire per le proprie colpe, non per colpa della Merkel.
Poco conta ricontrattare le regole dell’Unione europea. Conta, conterebbe, molto di più lasciare a casa quello stuolo di burocrati, mandare al macero legge e regolamenti, che – dietro l’ignobile paravento del nostro bene, della nostra salute, del benessere collettivo – sono solo un ostacolo al lavoro e alla produzione.
FLAVIO SPIEGA IL TRIONFO DI FLAVIO
Flavio spiega il trionfo di Flavio. E non adesso che, a giochi fatti e bocce ferme, sono capaci tutti (o quasi). La cosa interessante è che lo fece già un anno fa.
Stiamo parlando di Flavio Zanonato, sindaco Pd di Padova, che un anno fa andò a trovare i suoi amici del Pd veronese in festa a Montorio. E chiese loro: “Avete il campo base?”. Momento di sconcerto tra i democratici scaligeri i quali non sanno che Zanonato ha la tessera del Cai da quand’era ragazzo e quindi usa il linguaggio della montagna.
Seguì spiegazione su questa falsariga. Per scalare una vetta difficile, qual’è la competizione con un sindaco molto popolare come Flavio Tosi, ci vuole un campo base: vale a dire un candidato, un programma e un piano di comunicazione concepito per far conoscere e apprezzare l’uno e l’altro agli elettori. Il segretario del Pd scaligero, Enzo D’Arienzo, dovette ammettere, imbarazzato, che un anno fa il centrosinistra a Verona non aveva nulla di tutto questo: né candidato sindaco, né programma, né piano di comunicazione. Al che Zanonato chiosò: “Allora avete già perso!”
Una profezia che si è puntualmente avverata oggi, cioè il 6 e 7 Maggio di un anno dopo.
Chi, come Flavio Zanonato, conosce le regole della competizione politica sa benissimo che non puoi scegliere un candidato pochi mesi prima e buttar giù un programma senza tutto il tempo (e la strategia comunicativa) necessario a farli conoscere. O meglio: puoi anche farlo, ma la sconfitta è garantita.
Zanonato lo ha capito un anno fa. Non lo capiscono invece nemmeno ora i veronesi sconfitti che attribuiscono la debacle alle cause più strampalate ed extrapolitiche. Bertucco, ad esempio, sostiene che Tosi ha vinto grazie ad una “esorbitante esposizione mediatica nazionale”. Non si accorge di scambiare la causa con l’effetto: nel senso che uno non diventa sindaco di Verona perchè è andato in tivvù da Santoro o da Lerner, ma ci va perchè ha dimostrato di essere un sindaco capaci di affrontare i problemi.
Esattamente come Zanonato, dopo aver risolto via Anelli, venne invitato ad ogni talk show nazionale in cui si parlasse di immigrazione e sicurezza. Ma questo, quando ti metti in competizione con un sindaco uscente popolare, devi averlo messo in conto e devi, a maggior ragione, saper elaborare una controstrategia comunicativa altrettanto efficace.
Non puoi aspettare che ci pensi l’Espresso con l’ultimo articolo giustizialista (o con la rimasticatura dell’ultimo articolo giustizialista che ha fatto Stella sul Corriere): non si vince una competizione elettorale con “l’aiutino”, con il Viagra delle Procure! La vinci se sai far politica.
L’altra accusa rivolta a Tosi era quella di di aver messo ovunque i suoi uomini, di aver distribuito tutte le poltrone ai tosiani. Come se Zanonato negli enti padovani ci avesse messo…i leghisti! Così fan tutti: tutti i sindaci mettono uomini di loro fiducia nelle stanze dei bottoni, e poi i cittadini li giudicano in base ai risultati. Holland, tanto per capirci, in Francia non lascerà nemmeno un usciere scelto sa Sarkozy.
Tornando al “campo base”, la lezione di Zanonato vale per tutti. Ed in particolare per chi ha un partito da ricostruire partendo dalle macerie: cioè dai resti fumanti del Pdl di Verona ridotto – dalla gestione dei Giorgetti (ex An) – ad avere un terzo dei voti che An aveva a Verona, la metà di quelli che aveva perfino il vecchio Msi…
In conclusione nel trionfo di Tosi contano di certo i suoi meriti ma anche – e non poco – i demeriti dei suoi avversari (politici?).
IL POSTO FISSO SPIEGATO DA STRISCIA
Posto fisso=fancazzismo. A chi avesse un dubbio sulla validità di questa equazione, lo ha chiarito e dissolto Striscia la notizia con i filmati che documentano il comportamento dei dipendenti dell’usl di Verona: chi timbra il cartellino e va al bar oppure va a fare la spesa oppure risale in macchina e se va per i fatti suoi.
A Verona, non a Palermo.Non c’è Nord e Sud. Tutto il mondo, cioè tutto il pubblico impiego, è paese. Lo è perchè può contare sul posto fisso e lo stipendio pagato a prescindere. E mi vien da aggiungere che quelli che salgono in macchina e se ne vanno sono i più seri: perchè almeno non restano in ufficio a far finta di lavorare. (Che, anche volendo lavorare, non ci riesci. Dato che ovunque ci sono almeno il doppio degli eddetti che servono…)
Dopo di che, se vogliamo essere seri tutti noi, dobbiamo ricordare che è l’occasione che fa l’uomo ladro. Cioè che – fossimo dipendenti dell’usl o di altri settori del pubblico impiego, avessimo il posto fisso garantito anche nel settore privato – ci comporteremmo esattemente come gli “immortalati” da Striscia. Quando nessuno può controllarti né sanzionarti, quando comunque non rischi di perdere il lavoro e lo stipendio, diventi giorno dopo giorno sempre più cialtrone.
In modo encomiabile Maria Bonavina, direttore generale dell’usl di Verona, ha chiesto a Striscia di acquisire i filmati per denunciare i responsabili. Peccato che non serva a nulla; peccato che mai gli assenteisti vengano puniti, cioè licenziati. Stella e Rizzo hanno documentato che nemmeno il guardiano di Pompei, condannato per stupro di una turista americana, fu licenziato: fu solo spostato a guardia di un altro sito archeologico…
Stando così le cose, il fancazzismo non può che prosperare. Va capito che qualunque appello al senso del dovere, all’etica personale è inutile o largamente insufficiente (le eccezzioni non fanno la norma). Specie nei nostri tempi in cui le istituzioni – stato, religione, scuola, famiglia – hanno di fatto rinunciato ad educare alla morale civile.
D’altra parte, se l’uomo fosse naturalmente buono e onesto, non servirebbe lo stato, le leggi, i tribunali e le carceri. Mentre servono perchè l’uomo è naturalmente un delinquente, e quindi sono indispensabili la deterrenza preventiva e, se non basta, la punizione. Così se l’uomo fosse naturalmente laborioso potremmo anche concedergli il posto fisso o l’art.18…Siccome, invece, tende ad essere e comportarsi come i dipendenti dell’usl 20 immortalati da Striscia, l’attuale “articolazione” del mercato del lavoro pubblico (e privato) è un’autentica follia che garantisce solamente inefficienza e costi fuori controllo.
Ma la responsabilità, sia chiaro, non è degli assenteisti. E’ di una classe politica che, per demagogia, ci ha istigato a trasformarci noi tutti da uomini in assenteisti.
A LONDRA C’E’ IL MONDO SENZA “PORTOGHESI”
Lo scorso fine settimana sono andato a Londra che è stata e resta la capitale del mondo; e che quindi continua a riunire il mondo. Là in un minuto vedi passare tanti tipi umani quanti a Verona o a Padova nemmeno in un anno: orientali di ogni nazione, ebrei ortodossi con cappello nero e i riccioli che scendono, donne arabe con giubbetti damascati, donne mussulmane completamente celate dal burqa integrale, donne che mostrano tutto o quasi, africani con gli sgargianti abiti tribali, inglesi senza calze e in maniche corte anche se soffia il vento, italiani vocianti a iosa
Manca una sola etnia, molto diffusa invece nelle nostre città: quella dei “portoghesi”, di chi sale a sbafo sui trasporti pubblici. A Londra non ne esiste uno che non paghi il dovuto. E senza bisogno di schierare l’esercito. Basta un autista che faccia il suo dovere, cioè che controlli chi sale sui famosi autobus rossi a due piani, verificando se striscia sull’apposito scanner il biglietto o la scheda dell’abbonamento.
Se non lo fa l’autista ferma il bus, non riparte. E, a quel punto, o il “portochese” mancato scende di sua iniziativa oppure lo fanno scendere (anche a calci nel sedere) gli altri passeggeri i quali, avendo pagato la corsa e dovendo recarsi al lavoro o altrove, non accettano che il mezzo pubblico resti fermo a tempo indeterminato per colpa di un furbetto.
In questo semplice modo Londra ha azzerato i “portoghesi”. Peccato che il metodo da noi non sia esportabile per almeno due motivi. Primo: i sindacati sosterebbero che l’autista, già stressato dalla guida, non può fare anche il controllore; minimo serve un integrativo aziendale…Secondo: i nostri passeggeri politicamente corretti inizierebbero ad inveire dicendo che è roba da razzisti pretendere che il povero immigrato, con tutto quello che già soffre, paghi anche il biglietto dell’autobus…
A Londra c’è il Mondo. Ognuno vive come vuole, si veste com vuole, prega chi vuole, inveisce contro chi vuole (allo Speaker’s Corner). Ma poi esistono le regole, e tutti devono rispettarle. Tutti devono lavorare. Tutti devono pagare le tasse e anche il (costosissimo) trasporto pubblico. Non esiste, tanto per fare l’esempio più banale, che uno straniero (o un inglese) metta i suoi panni ad asciugare davanti alla cattedrale di st. Paul, come accaduto a Padova sulla cancellata della Cappella degli Scrovegni.
A Londra c’è la libertà e c’è lo Stato. C’è l’anarchia controllata dallo Stato: che è la garanzia del massimo della tua libertà individuale finchè non va a confliggere con la libertà altrui.
Da noi -sulla carta – tutto è regolamentato e normato. Manuali e stuoli di burocrati spiegano e limitano anche l’utilizzo dei servizi igienici da parte dei cittadini. Risultato pratico: si evadono le tasse, si evade il lavoro, si aggirano infinite leggi, si può stuprare la convivenza civile nelle città; non si riesce nemmeno a far pagare il biglietto del bus.
SOLDI AI PARTITI MA NON SOLO
Il contesto, esplosivo, è quello della crisi economica: licenziamenti nel settore privato, calo generale del tenore di vita, aumento della pressione fiscale, mancanza di prospettive di ripresa. E’ in questo contesto che esplode la rabbia contro gli stipendi dei parlamenari e dei consiglieri regionali, contro i soldi pubblici elargiti ai partiti e da loro utilizzati per fini diversi dall’attività politica. Da tutti loro. (Alzi la mano e scagli la prima pietra il partito che non ha la sua “casa di Montecarlo”).
La rabbia cresce, diventa vento impetuoso dell’antipolitica, quando i politici ciurlano nel manico e fingono di credere che i cittadini esigano controlli puntuali sull’utilizzo dei finanziamenti, quando è invece lampante che vogliono la loro totale cancellazione. Che non accettano più leggi truffa che cambino solo il nome da “finanziamento” a “rimborso”, per giunta aumentando l’importo come avvenne nel 1993…
Dopo di che va anche detto che sono cifrette. Cifrette i 289 milioni l’anno distribuiti ai partiti a fronte dei 40 miliardi di euro che, come spiegava Sergio Rizzo sul Corriere, potremmo risparmiare se solo la nostra burocrazia fosse contenuta nel numero ed efficiente come quella tedesca!
Voglio dire: che non venga fuori che gli unici sprechi di denaro pubblico sono quelli elargiti ai partiti! Che differenza fa con le decine di migliaia di stipendi inutilmente pagati ai dipendenti del Comune di Palermo? Oppure a tutti quegli insegnanti che hanno classi di 11-12 alunni? Oppure allo stuolo di magistrati che garantiscono la giustizia più lenta e sgangherata d’Europa? Oppure ai tutori dell’ordine delle varie polizie che sono il doppio dell’organico della Germania (con 80 milioni di abitanti)?
Carto: fa ridere la Pivetti, che non vuole rinunciare ai privilegi di remoto ex presidente della Camera, perchè dice di voler tutelare i posti di lavoro dall’autista, della scorta, della segretaria. Ma è esattamente per la cosiddetta “tutela del posto di lavoro” che continuiamo a pagare lo stipendio a metà pubblici dipenenti che – ragionassimo in termini di esigenze reali – potrebbero tranquillamente essere lasciati a casa. E allora perchè non tutelare anche il posto a qualche decina di migliaia di funzionari di partito continuando a foraggiare i partiti stessi? Dove sta la differenza?
Dopo di che è sacrosanto il risentimento nei confronti dei politici e dei partiti. Ma non per le cifrette che si pappano direttamente, bensì per le cifrone che continuano ad elargire grazie a scelte politiche dissennate. Cifrone che vangono a prelevare dalle nostre tasche con tasse dirette ed indirette sempre più asfissianti.
In conclusuone la soluzione non arriva certo da una riformetta e nemmeno dalla completa cancellazione dei soldi pubblici a qualunque titolo dati ai partiti. Ma solo da riforme strutturali, che investano tutto il pubblico impiego, così radicali che è difficile immaginare se, quando e a che prezzo (di sangue) potranno mai vedere la luce.
UN’OFFICINA A SPINEA NEL 1957
Mi raccontava un amico di suo zio che, terminati i due anni di militare, nel 1957 voleva aprire un officina meccanica per le moto.
Andò dal segretario del proprio comune (Spinea) a chiedere cosa ci voleva per poterlo fare, ottenendo questa risposta: “Apri, lavora e ciapa schei!”
Non serviva nulla, nessuna pratica burocratica, nessun corso di formazione in Camera di commercio. Solo la voglia di lavorare e la capacità di intraprendere. Non significava che non ci fossero regole e controlli; non voleva dire che potevi fare un centro estetico al posto dell’officina. Ma era chiaro l’interesse comune: far partire subito una nuova attività economica.
Mi racconta oggi un altro amico, che ha un’autofficina a Vo’ euganeo, di aver dovuto frequentare – oltre a tutto il resto, oltre a pratiche e burocrazie infinite – perfino un corso di pronto soccorso e rianimazione perchè, si sa mai, se un cliente stramazza al suolo in officina, invece che chiamare la Croce Rossa, bisogna sapergli fare la respirzione bocca a bocca…Nemmeno in Unione Sovietica erano arrivati a tanto!
E’ chiaro perchè in quegli anni, successivi al 1957, la Lira vinceva l’Oscar, terminava la nostra massiccia emigrazione (iniziata cent’anni prima, dopo l’unità d’Italia…), lasciavamo la Pellagra nei campi ed esplodeva il tenore di vita dei veneti e degli italiani? E’ chiaro perchè oggi siamo in piena recessione? Bastasse cancellare l’art. 18! Abbiamo burocrati che programmano e falsi volontari pagati perfino per organizzare corsi di pronto soccorso a beneficio dei meccanici. E meccanici costretti a perdere tempo per frequentarli.
Si diceva ai tempi dell’Alfa Sud: sarebbe conveniente pagare gli operai e lasciarli a casa, evitando che vadano in fabbrica a pocurare danni ulteriori producendo quei catorci invendibili di auto. Oggi sarebbe il meno pagare stuoli di burocrati se almeno stessero a casa invece che impegnarsi ad ostacolare, a castrare, a inibire il lavoro e la produzione.
Questa mentalità burocratica, bizzantina, borbonica (scegliete il termine che più vi aggrada) ha permeato l’intero Paese. E’ il fulcro dell’impossibilità di governare. Ha contaminato perfino l’esecutivo dei bocconiani. Bocconiani così sgangherati da essere incapaci perfino di introdurre l’Imu in modo semplice, chiaro e praticabile. (Che abbiano bisogno di frequentare un corso di pronto soccorso fiscale?…)
Se ci pensate e tanto inverosimile quanto significativo. Vuoi, devi tornare a tassare le case? Se sai governare lo fai in modo semplice ed efficace. Invece Monti & c. si sono persi tra detrazioni, aliquote varibile a discrezione dei comuni, passaggio dai vani ai metri quadri, revisione degli estimi catastali. Credevano forse di avere a che fare con i tedeschi, la loro efficienza, il loro senso dello stato? Non hanno capito, i bocconiani, dove operano e con chi? Risultato: nemmeno capaci di mettere le mani in tasca agli italiani. Unica, magra, consolazione…
Spinea, Italia del 1957. La nostra Età dell’Oro perduta per sempre.
MARIO MONTI LA LADY…DELLE TASSE
“Monti come la lady di ferro” ha scritto il Wall Street Journal sostenendo che “il suo mandato può diventare grandioso”. Può, appunto. Ammesso che non molli di un centimetro sulla riforma del mercato del lavoro e – soprattutto – che impugni l’accetta contro la spesa pubblica. Allora sarà degno di essere paragonato a Margaret Thatcher. Se invece continuerà solo ad aumentare le tasse, il paragone giusto è con i leaders del vecchio Partito laburista (pre Blair) o con Barack Obama.
La Cgia di Mestre ha calcolato che nel decennio 2001-2011, mentre la ricchezza prodotta procapite diminuiva in termini reali del 5%, la spesa corrente aumentava di ben 142 miliardi! Basta questo dato per capire che, in barba all’euro e ai controlli europei, stavamo e stiamo facendo dritti dritti la fine della Grecia. (Basta questa cifra per capire che la Seconda Repubblica ha fatto esplodere il debito ben più della, famigerata, Prima Repubblica)
E’ uno dei tanti dati contenuti in un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere che indica in modo dettagliato tutta la spesa pubblica che può e deve essere tagliata. Eccone un altro di ecclatante: “i nostri costi di amministrazione generale rappresentano il 18,4% del totale delle uscite, sei punti più della Germania. Se soltanto spendessimo come i tedeschi per far funzionare la burocrazia, risparmieremmo una quarantina di miliardi l’anno”
Ci sono poi i 44 miliardi l’anno di sussidi alle imprese pubbliche e private “soldi che non accrescono l’efficienza aziendale né la concorrenza. Da anni parlano di metterci mano ma nessuno lo fa”. Rizzo ricorda ancora che, archiviato il federalismo, sono finiti sul binario morto anche i costi standard; col risultato che la stessa prestazione sanitaria in una regione costa metà in un’altra il doppio. Col risultato che ogni siciliano per i dipenenti della sua regione spende 353 euro l’anno e “ogni lombardo, invece, di euro ne spende 21: un diciassettesimo”
Qui Rizzo scrive un insattezza. Perchè i 353 euro l’anno non vengono presi dalle tasche dei siciliani, ma della nostre: cioè dai cittadini di quelle regioni come il Veneto che garanticono un saldo fiscale attivo (pagano più tasse dei trasferimenti che ricevono)…Mentre tutte le regioni a statuto speciale l’hanno ampiamente passivo.
Sull’altro fronte Sergio Rizzo ricorda che il governo Monti ha già inasprito le aliquote massime dell’irpef, incrementato le addizionali locali, reintrodotto l’imposta sulla casa, rincarato le accise sulla benzina, e varato un primo aumento dell’iva in attesa del secondo già in programma per l’autunno. Tasse, solo tasse, sempre e solo altre tasse. Di tagli veri nemmeno l’ombra.
Quindi al momento Mario Monti è la lady…delle tasse. Se mai impugnerà l’accetta e si avventerà sulla spesa, allora potrà diventare la lady di ferro de noaltri.
IL LAVORO TRA SVIZZERA E ITALIA
Diciamo che svizzeri ed italiani vivono il lavoro in maniera diversa. Diciamo così e ci fermiamo qui per prevenire accuse di razzismo.
Fatto sta che due svizzeri su tre (66,5%) hanno respinto il referendum, promosso da sindacati e partiti elvetici di sinistra, che proponeva di regalare loro due settimane di ferie in più all’anno: sei al posto di quattro.
Quasi una sorta di referendum in materia fiscale, che da noi sono vietati per evitare approvazioni a furor di popolo. Gli svizzeri invece, a larga maggiorana, l’hanno respinto. Perchè – questo il ragionamento prevalso – in tempo di crisi bisogna impegnarsi e lavorare i più, non di meno.
Sia chiaro che l’etnia non c’entra – mica siamo razzisti – fatto sta che la percentuale dei no scende precipitosamente, dal 66% al 50%, dove? In Canton Ticino, nella Svizzera italiana…
Proviamo adesso ad immaginare come avrebbero votato ad un referendum analogo quei 77 dipendenti della Regione Veneto (non Regione Sicilia) di stanza a Rovigo, 77 su 115 in tutto, che sono finiti sotto processo per assenteismo…Abbiamo idea di quante bisogna combinarne, ed accumularne di assenze, per finire sotto processo qui in Italia? (non in Svizzera…)
Oppure facciamo lo sforzo di chiederci come avrebbero votato quei 41.503 che “sono professori o maestri che però non insegnano, non vanno in classe. Sono distaccati presso altri ministeri oppure in permesso sindacale”. Una notiziola irrilevante, e per questo quasi ignorata dai nostri media, che ci da Lucrezia Stellacci, il nuovo capo dipartimento del ministero dell’Istruzione.
La quale Stellacci spiega così la mancata assunzione dei 10 mila precari della scuola: perchè ce ne sono già oltre 40 mila pagati senza che nemmeno fingano di insegnare! E, tanto per completare il quadro, aggiunge: “Solo alle superiori abbiamo 35.800 classi con meno di 10 studenti”. Capite quant’è sotto organico il corpo docenti? Capite perchè la scuola pubblica non può espletare la sua funzione?…
Ve li immaginate in Svizzera tutti questi distacchi sindacali, tutte queste classi sovraffollate? C’è una qualche differenza. Non diciamo, per carità, che gli svizzeri sono più seri; che, quanto a lavoro, sono superiori a noi italiani. Mica siamo razzisti…
FIRMARE IL TSO PER BOSSI
Farfugliando, come sempre, e mostrando il medio, come sempre, Umberto Bossi ha detto che Mario Monti rischia la vita, che se viene qui al Nord gli sparano. Il ministro Cancellieri lo accusa di “istigare all’eversione”.
Non scherziamo. Magari (da un certo punto di vista) fosse eversivo… Perchè dovrebbe essere vivo e vitale. Oggi invece Umberto Bossi istiga, non all’eversione, ma solo alla compassione: è vergognoso, è osceno, vedere i resti di quello che fu un grande uomo politico lasciato ancora libero di farfugliare qualunque sciocchezza; libero di guidare il più grande partito del Veneto e (quasi) dell’intero Nord.
Altrochè comandante Schettino! Qui abbiamo un disabile grave, una persona seriamente malata, e quindi non più nel pieno possesso delle sue facoltà, al timone della Costa Concordia-Lega Nord. Ce lo lasciamo per avere la certezza che porti il suo partito al naufragio, ad infrangersi sugli scogli elettorali?
Dovrebbero chiederselo anzitutto quei dirigenti leghisti del Veneto, in primis il presidente Luca Zaia, che non si schierano, che pensano di restare alla finestra per vedere quale cadavere passerà sotto, se quello di Tosi o quello di Gobbo. Non capiscono che l’unico che vedranno passare sarà il cadavere della Lega (con appesa anche la loro poltrona).
Il problema è uno solo: firmare il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, ad Umberto Bossi che lo costringa ad abbandonare la scena politica e a concentrarsi sulla sua salute.Ovviamente non ci pensano le donne e gli uomini del “cerchio magico”; i quali non guardono più in là del loro naso perchè sanno che, uscito di scena il Senatùr, loro sono tutti a casa. Ma qualcuno deve farlo, proprio per rispetto al Bossi che fu.
Quando vedo il Trota e/o la Martini far da stampella ad un Umberto che avanza tremebondo, mi vengono in mente le ultime apparizioni sul palco dello zombie di Leonid Breznev, ormai ridotto ad un vegetale, distrutto dalla malattia…Tale e quale: lo stesso terrore, non della secessione ma della sucessione!
Nella storia politica italiana esiste un preciso precedente, quello di Antonio Segni, il padre di Mariotto, uno dei grandi leader dc del dopo guerra.
Nel 1962 Segni viene eletto Presidente della Repubblica. Due anni dopo, il 7 agosto del 1964, è colpito da ictus cerebrale. Anche lui, proprio come Bossi, non vuole mollare, vuole restare al Quirinale. Perchè i malati gravi nemmeno si rendono conto del loro stato, restano aggrappati al ruolo come alla vita. Ma – recita la biografia di Antonio Segni – “il 6 dicembre del 1964 fu costretto a dimettersi”
Non so se fu la Dc, se furono le Istituzioni, se fu la seconda carica dello Stato, l’allora presidente del Senato Cesare Merzagora: fatto sta che il Tso a Segni qualcuno lo firmò. Lasciò il Quirinale, divenne senatore a vita e morì 8 anni dopo nel 1972.
Oggi direi che il coraggio di mettere la firma sul Tso per Bossi spetta anzitutto a Roberto Maroni. Se davvero ama il suo capo, il suo antico compagno di avventura politica non può lasciarlo là, esposto, in balia dei corvi e delle iene che lo spolpano.
Costringere Bossi a ritirarsi è doveroso come rispetto, dicevo, per quel grande uomo politico che – dal nulla, avendo contro i media e l’intero establishment – seppe dare uno sbocco politico alle istanze del Nord e portare la Lega a conquistarsi un ruolo e uno spazio precisi. Il suo ricordo e le sue gesta non consentono un viale del tramonto tanto indecoroso, avvilente per lui utile solo alle iene che lo circondano.
FACCETTA NERA E L’AMORE RAZZIALE
La notizia dei cinque tifosi del Verona che lo scorso Dicembre cantarono Faccetta nera allo stadio di Livorno, e che per questo sono stati ora inquisiti, conferma che nel nostro Paese esistono limiti precisi alla libertà di espressione. Limiti imposti dalla Legge Mancino che punisce l’istigazione all’odio razziale.
Piaccia oppure no, la legge esiste e quindi va applicata. L’odio razziale pure esiste e talora si manifesta in modo virulento. Ma solo chi ignora le parole della canzone può immaginare che contenga questa istigazione. Chiunque si prenda la briga di scaricare il testo dalla rete, può constatare che Faccetta nera è l’esatto contrario: è cioè un inno all’integrazione razziale e – per dirla tutta – alle unioni miste tra i maschi italiani e le “belle abissine”, all’amore razziale se così vogliamo chiamarlo…
Sgombriamo anzitutto il campo dall’equivoco di ritenere questa canzone l’inno del fascismo che era Giovinezza. Mentre Faccetta nera era il canto della guerra all’Etiopia, della “conquista dell’impero”. Una conquista che non fu certo un pranzo di gala per i conquistati; ma che la retorica del colonialismo (di tutto il colonialismo, non solo di quello italiano) presentava come una liberazione dalla schiavitù, una “promozione” a miglior civiltà…
E proprio da qui parte Faccetta nera con la prima strofa: “Se tu dall’altopiano guardi il mare/ Moretta che sei schiava tra gli schiavi/ Vedrai come in un sogno tante navi/ E un tricolore sventolar per te”. Il tricolore sventola per lei, per la “bell’abissina”, perchè sta arrivando la flotta dei suoi liberatori.
I quali liberatori tutto le dichiarano fuorchè odio o discriminazione razziale. “ La legge nostra – precisano – è schiavitù d’amore/ Il nostro motto è libertà e dovere”. Insomma si mettono quasi in ginocchio, vien da dire, di fronte alla “Faccetta nera, piccola abissina/ Ti porteremo a Roma, liberata./ Dal sole nostro tu sarai baciata/ Sarai in camicia nera pure tu”.
Chiaro? Anche la camicia nera, cioè anche l’iscrizione al partito, erano pronti a darle! E non pensavano di tenerla segregata da amante nascosta e impresentabile in qualche capanna africana: erano pronti a portarla a Roma, a mostrarla a tutti pubblicamente, perfino a concederle subito la cittadinanza italiana!
Non si può infatti interpretare diversamente il ritornello conclusivo: “Faccetta nera/ Sarai romana/ La tua bandiera/ Sarà sol quella italiana!/ Noi marceremo/ Insieme a te/ E sfileremo avanti al Duce/ E avanti al Re!”
Al di là delle interpretazioni e (delle ironie), è un fatto storico che Faccetta nera, dopo l’esplosivo successo iniziale, fu abbandonata e progressivamente censurata dal regime fascista che, all’emanzione delle leggi razziali nel 1938, arrivò a proibirne la trasmissione alla radio: proprio perchè l’esaltazione della “bell’abissina”, il palpabile desiderio di amplesso multietnico, risultava sconveniente e contaminante per la purezza della razza ariana…
Concludendo con le toghe livornesi, nessuno pretende che conoscano le vicende storiche delle canzoni d’era fascista. Ma che almeno avessero fatto la fatica di leggersi il testo prima di denunciare per istigazione all’odio razziale chi canta Faccetta nera.