IL LAVORO TRA SVIZZERA E ITALIA

Diciamo che svizzeri ed italiani vivono il lavoro in maniera diversa. Diciamo così e ci fermiamo qui per prevenire accuse di razzismo.
Fatto sta che due svizzeri su tre (66,5%) hanno respinto il referendum, promosso da sindacati e partiti elvetici di sinistra, che proponeva di regalare loro due settimane di ferie in più all’anno: sei al posto di quattro.
Quasi una sorta di referendum in materia fiscale, che da noi sono vietati per evitare approvazioni a furor di popolo. Gli svizzeri invece, a larga maggiorana, l’hanno respinto. Perchè – questo il ragionamento prevalso – in tempo di crisi bisogna impegnarsi e lavorare i più, non di meno.
Sia chiaro che l’etnia non c’entra – mica siamo razzisti – fatto sta che la percentuale dei no scende precipitosamente, dal 66% al 50%, dove? In Canton Ticino, nella Svizzera italiana…
Proviamo adesso ad immaginare come avrebbero votato ad un referendum analogo quei 77 dipendenti della Regione Veneto (non Regione Sicilia) di stanza a Rovigo, 77 su 115 in tutto, che sono finiti sotto processo per assenteismo…Abbiamo idea di quante bisogna combinarne, ed accumularne di assenze, per finire sotto processo qui in Italia? (non in Svizzera…)
Oppure facciamo lo sforzo di chiederci come avrebbero votato quei 41.503 che “sono professori o maestri che però non insegnano, non vanno in classe. Sono distaccati presso altri ministeri oppure in permesso sindacale”. Una notiziola irrilevante, e per questo quasi ignorata dai nostri media, che ci da Lucrezia Stellacci, il nuovo capo dipartimento del ministero dell’Istruzione.
La quale Stellacci spiega così la mancata assunzione dei 10 mila precari della scuola: perchè ce ne sono già oltre 40 mila pagati senza che nemmeno fingano di insegnare! E, tanto per completare il quadro, aggiunge: “Solo alle superiori abbiamo 35.800 classi con meno di 10 studenti”. Capite quant’è sotto organico il corpo docenti? Capite perchè la scuola pubblica non può espletare la sua funzione?…
Ve li immaginate in Svizzera tutti questi distacchi sindacali, tutte queste classi sovraffollate? C’è una qualche differenza. Non diciamo, per carità, che gli svizzeri sono più seri; che, quanto a lavoro, sono superiori a noi italiani. Mica siamo razzisti…

FIRMARE IL TSO PER BOSSI

Farfugliando, come sempre, e mostrando il medio, come sempre, Umberto Bossi ha detto che Mario Monti rischia la vita, che se viene qui al Nord gli sparano. Il ministro Cancellieri lo accusa di “istigare all’eversione”.
Non scherziamo. Magari (da un certo punto di vista) fosse eversivo… Perchè dovrebbe essere vivo e vitale. Oggi invece Umberto Bossi istiga, non all’eversione, ma solo alla compassione: è vergognoso, è osceno, vedere i resti di quello che fu un grande uomo politico lasciato ancora libero di farfugliare qualunque sciocchezza; libero di guidare il più grande partito del Veneto e (quasi) dell’intero Nord.
Altrochè comandante Schettino! Qui abbiamo un disabile grave, una persona seriamente malata, e quindi non più nel pieno possesso delle sue facoltà, al timone della Costa Concordia-Lega Nord. Ce lo lasciamo per avere la certezza che porti il suo partito al naufragio, ad infrangersi sugli scogli elettorali?
Dovrebbero chiederselo anzitutto quei dirigenti leghisti del Veneto, in primis il presidente Luca Zaia, che non si schierano, che pensano di restare alla finestra per vedere quale cadavere passerà sotto, se quello di Tosi o quello di Gobbo. Non capiscono che l’unico che vedranno passare sarà il cadavere della Lega (con appesa anche la loro poltrona).
Il problema è uno solo: firmare il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, ad Umberto Bossi che lo costringa ad abbandonare la scena politica e a concentrarsi sulla sua salute.Ovviamente non ci pensano le donne e gli uomini del “cerchio magico”; i quali non guardono più in là del loro naso perchè sanno che, uscito di scena il Senatùr, loro sono tutti a casa. Ma qualcuno deve farlo, proprio per rispetto al Bossi che fu.
Quando vedo il Trota e/o la Martini far da stampella ad un Umberto che avanza tremebondo, mi vengono in mente le ultime apparizioni sul palco dello zombie di Leonid Breznev, ormai ridotto ad un vegetale, distrutto dalla malattia…Tale e quale: lo stesso terrore, non della secessione ma della sucessione!
Nella storia politica italiana esiste un preciso precedente, quello di Antonio Segni, il padre di Mariotto, uno dei grandi leader dc del dopo guerra.
Nel 1962 Segni viene eletto Presidente della Repubblica. Due anni dopo, il 7 agosto del 1964, è colpito da ictus cerebrale. Anche lui, proprio come Bossi, non vuole mollare, vuole restare al Quirinale. Perchè i malati gravi nemmeno si rendono conto del loro stato, restano aggrappati al ruolo come alla vita. Ma – recita la biografia di Antonio Segni – “il 6 dicembre del 1964 fu costretto a dimettersi”
Non so se fu la Dc, se furono le Istituzioni, se fu la seconda carica dello Stato, l’allora presidente del Senato Cesare Merzagora: fatto sta che il Tso a Segni qualcuno lo firmò. Lasciò il Quirinale, divenne senatore a vita e morì 8 anni dopo nel 1972.
Oggi direi che il coraggio di mettere la firma sul Tso per Bossi spetta anzitutto a Roberto Maroni. Se davvero ama il suo capo, il suo antico compagno di avventura politica non può lasciarlo là, esposto, in balia dei corvi e delle iene che lo spolpano.
Costringere Bossi a ritirarsi è doveroso come rispetto, dicevo, per quel grande uomo politico che – dal nulla, avendo contro i media e l’intero establishment – seppe dare uno sbocco politico alle istanze del Nord e portare la Lega a conquistarsi un ruolo e uno spazio precisi. Il suo ricordo e le sue gesta non consentono un viale del tramonto tanto indecoroso, avvilente per lui utile solo alle iene che lo circondano.

FACCETTA NERA E L’AMORE RAZZIALE

La notizia dei cinque tifosi del Verona che lo scorso Dicembre cantarono Faccetta nera allo stadio di Livorno, e che per questo sono stati ora inquisiti, conferma che nel nostro Paese esistono limiti precisi alla libertà di espressione. Limiti imposti dalla Legge Mancino che punisce l’istigazione all’odio razziale.
Piaccia oppure no, la legge esiste e quindi va applicata. L’odio razziale pure esiste e talora si manifesta in modo virulento. Ma solo chi ignora le parole della canzone può immaginare che contenga questa istigazione. Chiunque si prenda la briga di scaricare il testo dalla rete, può constatare che Faccetta nera è l’esatto contrario: è cioè un inno all’integrazione razziale e – per dirla tutta – alle unioni miste tra i maschi italiani e le “belle abissine”, all’amore razziale se così vogliamo chiamarlo…
Sgombriamo anzitutto il campo dall’equivoco di ritenere questa canzone l’inno del fascismo che era Giovinezza. Mentre Faccetta nera era il canto della guerra all’Etiopia, della “conquista dell’impero”. Una conquista che non fu certo un pranzo di gala per i conquistati; ma che la retorica del colonialismo (di tutto il colonialismo, non solo di quello italiano) presentava come una liberazione dalla schiavitù, una “promozione” a miglior civiltà…
E proprio da qui parte Faccetta nera con la prima strofa: “Se tu dall’altopiano guardi il mare/ Moretta che sei schiava tra gli schiavi/ Vedrai come in un sogno tante navi/ E un tricolore sventolar per te”. Il tricolore sventola per lei, per la “bell’abissina”, perchè sta arrivando la flotta dei suoi liberatori.
I quali liberatori tutto le dichiarano fuorchè odio o discriminazione razziale. “ La legge nostra – precisano – è schiavitù d’amore/ Il nostro motto è libertà e dovere”. Insomma si mettono quasi in ginocchio, vien da dire, di fronte alla “Faccetta nera, piccola abissina/ Ti porteremo a Roma, liberata./ Dal sole nostro tu sarai baciata/ Sarai in camicia nera pure tu”.
Chiaro? Anche la camicia nera, cioè anche l’iscrizione al partito, erano pronti a darle! E non pensavano di tenerla segregata da amante nascosta e impresentabile in qualche capanna africana: erano pronti a portarla a Roma, a mostrarla a tutti pubblicamente, perfino a concederle subito la cittadinanza italiana!
Non si può infatti interpretare diversamente il ritornello conclusivo: “Faccetta nera/ Sarai romana/ La tua bandiera/ Sarà sol quella italiana!/ Noi marceremo/ Insieme a te/ E sfileremo avanti al Duce/ E avanti al Re!”
Al di là delle interpretazioni e (delle ironie), è un fatto storico che Faccetta nera, dopo l’esplosivo successo iniziale, fu abbandonata e progressivamente censurata dal regime fascista che, all’emanzione delle leggi razziali nel 1938, arrivò a proibirne la trasmissione alla radio: proprio perchè l’esaltazione della “bell’abissina”, il palpabile desiderio di amplesso multietnico, risultava sconveniente e contaminante per la purezza della razza ariana…
Concludendo con le toghe livornesi, nessuno pretende che conoscano le vicende storiche delle canzoni d’era fascista. Ma che almeno avessero fatto la fatica di leggersi il testo prima di denunciare per istigazione all’odio razziale chi canta Faccetta nera.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI MONTI

“Avanti con o senza il sindacato”. Romano Prodi, da saggio democristiano prudente, avrebbe evitato perfino di pensarlo; fosse scappato detto a Berlusconi, ne sarebbe scaturito un mese di sciopero generale con dieci milioni di manifestanti ai Fori Imperiali. Mario Monti può affermalo (e forse perfino farlo) senza che succeda nulla o quasi.
Questo dimostra che il primo risultato certamente già conseguito dal premier è una rivoluzione culturale; sono cioè caduti i tabù, almeno quelli linguistici. E così anche la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia può dichiarare a ruota: “Sì al licenziamento dei fannulloni. Invito i sindacati a non proteggere ladri e assenteisti cronici”.
Chi prima avrebbe osato dire pubblicamente che esistono fannulloni, ladri, assenteisti cronici! E per giunta protetti dai sindcati?
Grazie a Monti oggi si può quantomeno discutere con un minimo di serenità – sui grandi quotidiani, nei talk show televisivi – evitando l’accusa di blasfemia che fino a ieri scattava come un riflesso pavloviano. Si comincia a comprendere la differenza tra la consultazione, che è corretto praticare con ogni rappresentanza sociale, e la concertazione che va invece respinta se significa subire veti e diktat a difesa di un interesse particolare che contrasta con quello generale.
Intendiamoci: la posizione dei sindacati, di tutti i sindacati, è comunque e sempre legittima. E’ vergognosa, è un autentica abdicazione, la posizione di quei governi (direi tutti fin’ora quelli repubblicani) che rinunciano a rappresentare gli interessi generali, a fare sintesi, subendo l’imposizione del tornaconto corporativo.
Vale ad ogni livello. Ci sono le istanze dei magistrati, ma ci sono anche sei milioni di cittadini in attesa di giudizio. Ci sono quelle dei giornalisti, ma c’è anche un’opinione pubblica cui andrebbe garantita un’informazione almena un minimo corretta. Ci sono le istanze dei medici o dei professori che vanno però contemperate col diritto alla salute e alla pubblica istruzione.
Nessuno discute il diritto-dovere dei sindacati di difendere il posto di lavoro dei loro iscritti. Ma può Monti ignorare che siamo l’unico paese europeo ad avere il triplo di disoccupati tra i giovani, 29%, rispetto al 9% della disoccupazione totale? Questa è la dimostrazione incontestabile (per chiunque non sia in malafede) che esiste una diparità di tutele tra chi è già entrato nel mondo del lavoro e chi cerca di entrarci.
Ed un governo, che si faccia carico dell’interesse generale, non può che porsi l’obiettivo di spalmare in modo più equo le tutele oggi possibili. Se il sindacato lo accetta, meglio; altrimenti si procede anche senza il suo benestare.
Gli economisti liberali Alesina e Giavazzi ricordano che andrebbe introdotta un’ulteriore equità, nel nome dell’uguaglianza tra dipendenti privati e pubblici. Bisognerebbe cioè che anche lo Stato potesse ridurre i propri organici tramite l’erogazione di un sussidio di disoccupazione, come potrà fare (a quanto pare) il datore di lavoro privato.
Ma per questo passo ulteriore, per equiparare dipendenti pubblici e privati, non basta una rivoluzione culturale: bisognerebbe che Mario Monti diventasse Mandrake…

BOBO E BOSSI LADRI DI PISA IN VENETO

La sostanza di mosse e mossette con cui Bossi e il cosiddetto “Cerchio Magico”, tentano di fare lo sgambetto alla riconferma di Flavio Tosi a sindaco di Verona – non posso impedire di ricondidarti, ma almeno cerco di vietarti la presentazione della tua lista civica – sono riconducibili ad un obiettivo evidente a chiunque capisca l’abc dei giochi politici: mantenere la colonizzazione della Lega Lombarda sulla Lega Veneta; garantisi che i leghisti veneti restino ciò che sono diventati dopo l’eliminazione di Franco Rocchetta e Fabrizio Comencini (con la conseguente ascesa di Paolo Gobbo): ascari silenti dei lumbard.
Rispetto a questo obiettivo è fondamentale che i leghisti veneti non abbiano un loro leader degno di tale nome. Quindi si cerca di ostacolare la riconferma di Tosi a sindaco di Verona e – soprattutto – si impedisce con ogni mezzo (e stuolo di commissari) la celebrazione del congresso “nazionale” della Lega del Veneto. Spazio, credito ed investitura invece a chi ha consensi risibili nella base del partito e tra gli elettori veneti, ma può vantare un pedigree da “Lumbard Servant”: la Martini, i Bricolo, i Gobbo.
A conferma del teorema il fatto che l’unico altro legista veneto di razza (Piave) che gode di un consenso autentico, nonno Giancarlo Gentilini, ha anche lui le palle piene della colonizzazione lombarda, ed ha già annunciato una “Lista Gentilini” a Treviso sull’esempio della “Lista Tosi” a Verona.
La questione interessa i leghisti e non solo, perchè mai prima si era visto realizzare nella politica italiana un simile progetto di riduzione ad ascari dei veneti o di un grande partito di una qualsiasi altra regione italiana. Pensiamo a quanto era autenticamente federalista la vecchia Dc: Bisaglia, Rumor e Fracanzani comandavano in Veneto, Marcora e Mazzotta il Lombardia, Andreotti in Lazio, De Mita e Gava e Pomicino in Campania…
Poi c’era la direzione nazionale dove si componevano gli equilibri. Ma serebbe stato impensabile che Mazzotta andasse da Bisaglia e dirgli e imporgli chi in Veneto andava candidato al Parlamento o in Regione. Cosa che invece, tramite il Gobbo compiacente, Bossi e i lombardi hanno fatto e vogliono continuare a fare.
Penso alla Dc, ma con il Pci era la stessa cosa. E perfino i comunisti veneti, che poco contavano nel loro partito, mai avrebbero accettato di farsi “ascarizzare”. Pensiamo oggi agli equilibri interni al Pd, e alle due regioni chiave Emilia e Toscana, paragonabili per peso partitico alla Lombardia e al Veneto della Lega. Ve lo vedete l’emiliano Bersani che va a spiegare a Renzi che non può presentare una sua lista civica? Otterebbe solo un tso firmato dal sindaco di Firenze…
Tornando alla Lega oggi il vero nodo da sciogliere si chiama Roberto Maroni che, sulla carta, guida l’alternativa al “Cerchio Magico”, pur continuando a proclamare che Bossi non si tocca. Non si tocca perchè, per quanto in disarmo, potrebbe sempre servire? Magari servire a liberare il campo dai rivali in vista della sucessione…
Maroni non è un cuor di leone, questo è certo. Però è navigato, ed è anche lui un lombardo. E’ certo anche che non sta spendendosi per difendere a spada tratta quel Tosi che – tra l’altro – ha anche una ventina d’anni meno di lui…Il sospetto è che Bobo e Bossi facciano come i ladri di Pisa: di giorno fingono di litigare, ma di notte vanno assieme a rubare lo spazio politico autonomo della Lega del Veneto.
Sempre viva il federalismo! Purchè i leghisti veneti non osino rivendicarlo nei confronti dei lombardi…

IMMIGRATI E CITTADINANZA

Sono favorevole allo jus soli, cioè a conferire la cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia. Tutti i problemi di ordine pubblico e governo dell’immigrazione sono reali e drammatici, ma non c’entrano: tant’è che gli indicibili casini di questi anni li abbiamo patiti non ostante sia in vigore lo jus sanguinis…
Ben venga la cittadinaza se serve a integrare e stabilizzare tutti quelli stranieri (larga maggioranza) che per noi sono una risorsa irrinunciabile.
Ciò detto leggo che la Provincia di Pesaro ed Urbino ha concesso la cittadinana onoraria ai figli degli stranieri. Capirai! Quella “onoraria”, cioè il nulla. A meno di non voler considerare qualcosa le pugnette e la demagogia…
Dopo di che Napolitano plaude all’iniziativa della Provincia di Pesaro ed Urbino. Cioè fa da sponsor alla cittadinanza (e alla demagogia sulla cittadinanza), che però può essere introdotta solo con una legge che solo il parlamento può approvare, non certo con decreto presidenziale.
Dopo di che anche Fini si schiera per la cittadinanza, ed anzi la considera una priorità. Così ho il sospetto di essermi sbagliato…ed anche la certezza che Fini voglia tagliare tutti i ponti col suo elettorato d’un tempo.
Intanto Giovanni Sartori fa una proposta alternativa: invece della cittadinanza dare agli immigrai la residenza permanente, trasferibile ai figli, ma pur sempre revocabile in caso di reati.
Evitare così le inutili burocrazie dei rinnovi, garantire tutte le opportunità di vita lavoro e inserimento, escludendo solo quel diritto di voto che potrebbe essere il preludio alla nascita di un partito islamico.
Alternativa pragmatica ed interessante. Voi cosa dite?

IL BICCHIERE DI MARIO MONTI

 Nel giudizio sull’operato del governo Monti è l’eterna storia del bicchiere. Sulle liberalizzazioni, volendo, è fin troppo facile vederlo mezzo vuoto; vien da dire che la montagna ha partorito il topolino.

Emblematico il caso dei notai che contiene l’equivoco di fondo, identico per altro a quello dei farmacisti: il problema non è liberalizzare il numero, cioè nella fattispecie notarile creare altri 500 privilegiati, ma liberalizzare la funzione, cioè sancire che tanti altri soggetti – dagli avvocati, ai commercialisti, ai consulenti del lavoro, ai segretari comunali – possono svolgere le stesse mansioni, facendo così crollare le tariffe. In America, terra della libertà, non ci sono tanti notai: semplicemente non esistono.( E i farmaci li compri in qualunque bottega).

Ma se invece guardiamo ai precedenti governi degli ultimi vent’anni, dobbiamo dire che il bicchiere è mezzo pieno. Perchè Mario Monti in due mesi ha fatto quello che né Prodi né soprattutto Silvio Berlusconi – il liberale, liberalizzatore per definizione – avevano nemmeno iniziato a fare.

Senza dimenticare il messaggio politico, che sottolineava ieri sul Corriere Francesco Giavazzi. Monti ha dimostrato che “non è vero che in Italia non si può fare; non è vero che l’Italia è bloccata dalle corporazioni”. Che le corporazioni si ribellino a tutela dei loro privilegi è comprensibile ed anche legittimo. L’importante è che il governo non ceda loro, dando priorità all’interesse generale.

Nel nostro Paese c’èra un comandamento non scritto, ma ben impresso nella mente di ogni politico: chi tocca le pensioni muore. Mario Monti le ha toccate, anzi ha reso operativa una riforma poderosa, con pesantissimi costi sociali (come tutte le riforme vere), e non è morto pur avendo infranto uno dei due massimi tabù italiani.

Rimane da infrangere l’altro tabù, quello dell’articolo18. Da rimuovere per due motivi fondamentali. Una questione di equità tra generazioni, tra padri iper protetti contrapposti a figli totalmente precarizzati. E poi perchè è la sola via per rilanciare sul serio la produttività, andando a colpire i tanti evasori dal lavoro totali e parziali; cioè ristabilendo il principio che lo stipendio bisogna guadagnarselo ogni mese, pena il “bastone” del licenziamento.

L’obbiettivo vero, serio, è quello di sancire la totale libertà di divorzio anche nei rapporti di lavoro, così come è stata sancita nei rapporti sentimentali (misura che ha comportato la moltiplicazione dei rapporti di coppia, non il loro crollo…); eliminando così pure l’incomprensibile distinzione tra aziende sopra e sotto i 15 dipendenti. Ma, anche in questo caso, consapevoli che non siamo la terra della libertà, possiamo accontentarci di un bicchiere mezzo pieno, ossia di iniziare a rimuovere il tabù.

E Mario Monti può farlo anche perchè – dettaglio non secondario – tutta la grande informazione, stampata e televisiva, è con lui. Come confermato ieri da Lucia Annunziata. Con Berlusconi ospite fu l’incarnazione del giornalista cane da guardia del potere: abbaiò al punto di farlo scappare. Ieri invece sembrava un pechinese che scodinzola e lecca il premier in loden.

MONTI DA DEL CORNUTO ALL’ASINO

 Quando dice che gli evasori fiscali mettono le mani in tasca ai cittadini Mario Monti sta dando del cornuto all’asino.

Chi infatti mette per primo le mani in tasca ai cittadini è lo Stato, sono i governi come il suo che continuano ad aumentare le tasse; che, come calcola oggi il Corriere economia, ci costringeranno nel 2012 a lavorare una settimana di più dell’anno scorso per pagare tasse e contributi, spostando il Tax Freedom Day dal 14 al 19 Giugno.

Lo Stato riesce a mettere le mani in tasca perfino agli evasori fiscali; i quali evasori totali non lo sono mai perchè, se vogliono fare il pieno, comprarsi la Nutella piuttosto che un felpa, le imposte indirette le pagano pure loro. Quando poi lo Stato non fornisce un equo controvalore di servizi rispetto ai soldi che preleva dalle tasche dei contribuenti – ed è il caso italiano – allora si comporta da delinquente più colpevole ancora di chi svicola le tasse.

Dopo di che l’evasione fiscale è un grave problema. Diamo anzi per scontato che sia il più grave di tutti. Domanda: chi deve risolverlo? Siamo forse noi cittadini contribuenti? Non mi sembra. Ma allora perchè Mario Monti viene in televisione a dirci che l’evasore mette le mani in tasca ai cittadini? Pensa forse di risolvere il problema con le prediche? Perchè – invece di perder tempo a predicare – non riforma l’Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza che così pochi frutti concreti hanno prodotto? Perchè non impone al Parlamento di varare leggi antievasione più severe? (Ergastolo agli evasori! Altrochè solo le manette)

Personalmente credo che il primo strumento per combattere l’evasione sia la riduzione della pressione fiscale, ma è indubbio che ci vuole anche una deterrenza efficace. Se – ad esempio – la deterrenza lo Stato è incapace di esprimerla nei confronti dei ladri, non andrà mica a prendersela con i derubati per l’aumento dei furti?…Qui sembra quasi che l’evasione fiscale sia colpa di chi paga le tasse. Quando invece è responsabilità prima dei governanti, passati e presenti, che consentono agli evasori di evadere. Ai ladri di rubare, agli stupratori di stuprare, agli scansafatiche di prendere lo stipendio senza lavorare.

Personalmente credo che l’evasione da lavoro faccia danni incommensurabili, più gravi ancora di quella fiscale. Facciamo anche qui un esempio con il mondo da cui proviene il prof. Mario Monti. Oggi l’attestato di laurea è carta straccia, dimostrata dal fatto che non garantisce occupazione alla larga maggioranza dei neolaureati. Carta straccia mascherata dal valore legale del titolo di studio, che giustifica la soppravvivenza del 95% dei nostri atenei che andrebbero invece rasi al suolo.

Docenti universitari che, una volta entrarti in ruolo, tali restano fino alla pensione: sia che insegnino per tre ore alla settimana, sia che eludano un compito tanto gravoso; sia che ricerchino sia che non pubblichino alcunchè; sia che evitino anche la fatica degli esami orali, ormai sostituiti in molte facoltà dai test scritti che vengono corretti automaticamente dal computer. Questa vergognosa evasione dal lavoro è forse colpa dei docenti universitari? No. Fossi uno di loro, farei anch’io una beata minchia come molti di loro.

La colpa è di un sistema, è di uno Stato che non sa o non vuole combattere l’evasione da lavoro esattamente come non ha mai combattuto quella fiscale.

Ecco perchè Mario Monti e i tanti buoi che prima di lui hanno pascolato a Palazzo Chigi (e, oso dire perfino, sono saliti al Quirinale) fanno ridere quando danno dal cornuto all’asino.


I CONSUMI, LA LEGNA E L’EREMITA

 

 

Natale non era ancora terminato che già ieri, nel giorno di Santo Stefano, prima i siti e poi i telegiornali della sera ci garantivano che era stato a luci spente. Crollo venticale dei consumi: meno 18% per il cenone e l’abbigliamento, meno 24% per l’arredamento, penalizzati perfino i giocattoli dei nostri bimbi con un meno 3%.

Giustamente il Tg di Mentana osservava che sono cifre buttate là a caso, perchè qualunque serio rilevamento ricchiederebbe giorni e giorni di raccolta dati. Ma lo sgangherato giornalismo all’italiana ha fretta e deve dare in pasto quei dati che sono imposti dall’approccio catastrofista dei tempi correnti.

Probabile che i consumi siano calati rispetto al Natale 2010. Certo l’effetto prodotto dai dati diffusi ora: li faranno crollare ulteriormente. Perchè chi ha speso senza pensarci troppo, sentendo che l’andamento generale è (sarebbe) al risparmio, è indotto a fare altrettanto cioè a chiudere i cordoni anche della sua borsa.

Ovvio che, se i consumi calano, non può aumentare la produzione. Calerà anche lei facendo aumentare la cassa integrzione e/o la perdita di posti di lavoro. In ogni caso riducendo la disponibilità economica delle famiglie e quindi facendo ulteriormente crollare i consumi. E avanti sempre più in questa perversa spirale che ci risucchia dentro al baratro.

Non distingui più tra causa ed effetto. Sembra proprio la storiella della legna e dell’eremita che ricordava Adriano Sofri.

Un distaccamento di soldati viene mandato in autunno ad accamparsi in montagna a metà costa. Il comandante, in vista dell’inverno, ordina di accatastare un po’ di legna. Poi si ricorda che, in cima al monte, c’è un eremita famoso per saggezza e conoscenza, e manda un messaggero ad interrogarlo su come sarà l’inverno. “Feddo”, risponde l’eremita. Al che il comandante ordina di accatastare altra legna e poi interroga nuovamente l’eremita che risponde: “L’inverno sarà molto freddo”. Ulteriore raccolta di legna, nuova ambasciata su dall’eremita che sentenzia: “Sarà di un freddo eccezionale!”. I poveri soldati continuano così a ramazzare più legna possibile, finchè al comandante viene in mente di domandare al vecchio saggio da dove venga la sua certezza sul freddo eccezionale. E l’eremita riponde: “Perchè mai ho visto accatastare così tanta legna come stanno facendo laggiù all’accampamento”.

Ditemi voi se non sta succedendo lo stesso: più lanci allarmi sulla crisi, più si riducono i consumi, più si va in recessione, più la crisi si aggrava.

Certo, all’orgine ci sono gli sprechi e gli sperperi di uno Stato irresponsabile, di uno Stato omertoso che non ha mai spiegato come spende i soldi incassati dai cittadini, che ha distribuito privilegi a raffica alle mille caste della società italiana. Eppure – a giudizio comune – i fondamentali dell’economia italiana restano migliori di quelli spagnoli. Eppure la Spagna ha uno spread sotto i 350 punti e noi invece sopra i 500.

Come si spiega? Vien da pensare alla legna e all’eremita: noi abbiamo accatastato ben cinque manovre, confermando così all’eremita-speculatore che l’inverno dell’economia italiana fosse di un freddo mai visto prima. Mentre la Spagna ha scelto di tenere quelle elezioni che, secondo in nostro eremita del Colle, sarebbero la madre di tutte le catastrofi e hanno invece prodotto la primavera iberica…

COLPIRE LO STATO NON EQUITALIA

 I brigatisti degli anni di piombo avevano le idee molto più chiare degli (pseudo) anarchici odierni: i primi infatti colpivano “al cuore dello stato”, mentre i secondi sono ridotti a colpire un povero funzionario di Equitalia.

Siamo a livello dell’automobilista che litiga col vigile urbano che ha piazzato l’autovelox, ignorando che il vigile obbedisce solo al sindaco che gli ordina da fare cassa. Allo stesso modo Equitalia è solo il braccio armato di uno stato affamato di imposte. Tanto più affamato in quanto non sa debellare il verme solitario (delle dimensioni di un drago) che divora risorse senza mai saziarsi.

Equitalia applica tassi da usuraio e tratta i cittadini con metodi da Bravi di don Rodrigo. Ma obbedisce solo agli ordini.

La soluzione sarebbe quella di colpire al cuore, con le riforme liberali, uno stato elefantiaco, costoso, oppressivo. Ma il condizionale è d’obbligo perchè nessuno lo farà. C’è poco da illudersi che lo stesso Mario Monti inizi un percorso davvero virtuoso.

Anche perchè, a farci perdere di vista la realtà, c’è l’altro mito: che basti colpire al cuore l’evasore. Dopo di che tutto potrebbe continuare come sempre, con lo stesso stato colabrodo che assume per clientelismo, che non controlla la produttività, che manda in pensione a qualunque età, che se ne frega di garantire le condizioni per gli investimenti limitandosi a berciare contro “la fuga dei capitali all’estero”.

La lotta all’evasione è questione complessa e certamente lunga. Tant’è che, se vuoi far cassa subito, devi aumentare le accise sui carburanti. Complessa perchè c’è tutto l’ampio capitolo di un sommmerso che, con la brusca riemersione, schiattarebbe solo d’embolia aggravando i problemi sociali invece che garantire gettito fiscale. Ma, anche ammesso di recuperare tutti i 275 miliardi di evasione presunta, cosa ne facciamo?

Cosa facciamo con questi soldi? Continuiamo a sprecare con una spesa pubblica sempre più fuori controllo? Oppure riduciamo le aliquote ai milioni di contribuenti onesti che pagano tasse tanto più spropositate in rapporto alla qualità scadente dei servizi ottenuti in contropartita? Se vogliamo smettere di sodomizzare i contribuenti dobbiamo, dovremmo, riformare lo stato.

Chi blatera di manette agli evasori, su modello americano, ogni volta dimentica di aggiungere che negli States l’aliquota fiscale più alta è fissata al 25% del reddito! Dimentica soprattutto che lo strumento più efficace di lotta all’evasione consiste nell’abbassare le aliquote: pagare meno per pagare tutti, non viceversa.

Purtroppo, con un minimo di retrospettiva storica, vediamo che l’obiettivo si allontana invece di avvicinarsi: nel senso che era più liberale l’Italia degli anni Cinquanta, mentre quella del nuovo millennio è sempre più statalista. E così, per non prendere atto del fallimento, c’è chi cerca una soluzione amputando la mano al funzionario di Equitalia e chi vagheggia di colpire al cuore l’evasore.