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FUORI. MERITATAMENTE

Comincio con i complimenti: al Torino, ma soprattutto al Pescara di Zeman, tornato in serie A dopo aver entusiasmato tutti per tutto l’anno con un calcio bellissimo, spettacolare e sempre col piede sull’acceleratore. Mi sembra doveroso anche complimentarsi con chi, ai playoff, ci è arrivato, o dimostrando più regolarità nel rendimento stagionale (vedi Verona, Sassuolo e pure Varese, da un certo momento in poi) o sfruttando, come ha fatto il Padova l’anno scorso, la spinta positiva della rimonta (Sampdoria).

Passiamo al Padova. Dire che a Nocera è andata in scena una disfatta è dire poco. Io la partita intera non l’ho vista, ma mi è bastato vedere la modalità con cui sono stati presi i tre gol per capire che i giocatori sono scesi in campo senza alcuna voglia di fare l’impresa. Senza testa. Senza cuore. Senza voglia. Senza attributi. A buttare benzina sulla rabbia per il mancato traguardo (e bastava davvero il minimo sforzo per raggiungerlo, mica bisognava andare a piedi sulla luna!) gli altri risultati: eravamo tutti convinti che il problema fosse che il Varese non avrebbe mai perso a Verona e il Pescara non avrebbe mai espugnato il campo della Sampdoria. Balle: le dirette concorrenti hanno spianato la strada al Padova, è stato proprio il Padova a mancare di brutto l’appuntamento con il recupero della propria dignità di squadra.

Di chi è la colpa? Di tutti. Nessuno escluso. Seppur con percentuali e posizioni differenti. Provo ad entrare nel dettaglio.

1) MARCELLO CESTARO. Il presidente è quello che ha meno colpe di tutti. Perché ha speso milioni di euro e ha sempre cercato di fare “di tutto e di più” per il suo Padova. L’unica azione di cui, secondo me, non ha valutato fino in fondo le conseguenze è stato l’inserimento di Luca Baraldi a gennaio in società. Non fraintendetemi: il presidente ha tutto il diritto di affidarsi ad una persona che lo aiuti a ridimensionare i costi di una società che finora gli ha chiesto immensi sacrifici restituendogli, in proporzione, pochissime soddisfazioni. Solo che se inserisci questa figura a campionato in corso devi anche valutare se si integra perfettamente con il resto del gruppo di lavoro. Cosa che non è successa con Rino Foschi, che non ha gradito le ingerenze “tecniche” di Baraldi sia nel mercato di gennaio sia quando Baraldi si è messo a cercare un altro allenatore per sostituire Dal Canto all’indomani della sconfitta casalinga col Pescara per 6-0. Si è venuto a creare un clima che, alla squadra, non ha fatto bene. E si è diffusa, sempre nella squadra, l’idea di una “smobilitazione” in corso. Cosa che, a rigor di logica, avrebbe dovuto spingere i giocatori, specie quelli in scadenza, a dare il centodieci per cento per meritare la riconferma e che, invece, ha sortito l’effetto contrario.

2) RINO FOSCHI. La rosa che il direttore sportivo ha messo a disposizione di Dal Canto è senz’altro di prim’ordine. Giocatori come Cacia, Lazarevic, Milanetto, Marcolini e Schiavi, tanto per fare qualche esempio, la scorsa estate ce li hanno invidiati tutti. Tant’è che nelle classifiche stese dai quotidiani e dalle tv nazionali il Padova era ai primi posti. Di sicuro ai playoff con questo gruppo ci si doveva arrivare. Si tratta però di una rosa sbilanciata e piena di doppioni: ci siamo resi conto ben presto che Lazarevic non era El Shaarawy, che Drame non era El Shaarawy e che avevamo un problema sulla corsia esterna di sinistra dell’attacco. Esterno di destra inoltre c’era il solo Cutolo: quando Aniello ha attraversato un momento di flessione (ed era normale che succedesse, mica uno può fare 42 partite tutte da 10 e lode!) Dal Canto si è ritrovato, suo malgrado, a dover cambiare modulo, provando ad adattare un po’ di gente a fare il finto trequartista. Lì il gioco si è inceppato e non si è più ripreso. A gennaio, a mio modo di vedere, c’era bisogno di ingaggiare un difensore di carattere innanzitutto ma anche di un esterno d’attacco per proseguire nel 4-3-3 che era il vestito ideale per questa squadra. Invece Foschi ha portato a casa Bentivoglio, ovvero un giocatore in un ruolo in cui il Padova era più che coperto tra Italiano, Milanetto e, volendo, pure Marcolini. Ci siamo ritrovati con un sacco di centrocampisti e, non dimentichiamocelo, con 4 punte centrali 4. Questo ha creato non pochi problemi di gestione a Dal Canto.

3) ALESSANDRO DAL CANTO. Arrivo al tanto attaccato e criticato mister. L’ho difeso fino all’ultimo a spada tratta e, insieme a me, lo ha fatto la maggior parte della stampa padovana. Non ci siamo messi d’accordo, ve lo posso assicurare, semplicemente abbiamo fatto tutti lo stesso pensiero. Ci siamo detti: proviamo per una stagione a dare fiducia dall’inizio alla fine allo stesso tecnico, a creare un progetto vincente, a farlo lavorare nella massima serenità, permettendogli anche di sbagliare, visto che è giovane e deve farsi le ossa. In fin dei conti ne sono passati di allenatori per Padova che poi altrove hanno fatto bene e qui abbiamo bocciato, cerchiamo di non avere fretta. Purtroppo l’atteggiamento compatto della stampa non ha portato ai risultati sperati. Ci sono cose in cui ho difeso e continuerò a difendere Dal Canto: si è ritrovato a gestire una rosa abbondante in certi ruoli e carente in altri e a gennaio non è stato posto rimedio a questa situazione: ecco perché ha dovuto cambiare spesso formazione e non sempre è stato facile prendere la decisione giusta. Ce ne sono altre di fronte alle quali invece sono rimasta male tanto quanto i tifosi: ho sempre ammirato il carattere di Dal Canto, schietto, diretto, non ipocrita, coerente. Nell’ultimo periodo però questa parte della sua personalità gli ha preso a tal punto la mano che si è trasformata in profonda antipatia. Sono convinta che non era nelle sue intenzioni rendersi antipatico, eppure ci è riuscito benissimo. Chiudersi nelle sue certezze lo ha messo nella situazione di commettere errori di valutazione e di pronunciare frasi che gli hanno scavato la fossa ancora di più agli occhi del pubblico, tipo quella alla vigilia della partita della vita di Nocera: “non dobbiamo avere fretta, il gol partita può arrivare anche all’ultimo minuto”. No, mister, cavolo! Dovevi scendere in campo con sette punte e dire che contro la Nocerina, squadra in lotta per evitare la retrocessione e con 30 punti meno di te in classifica, si doveva archiviare la pratica subito. Si doveva subito far capire alla squadra avversaria che a comandare saremmo stati noi.

4) I GIOCATORI: in campo ci vanno sempre e comunque loro. Se un minimo di orgoglio lo avevano ieri lo tiravano fuori. Punto e stop. Certo poi possono raccontare la storia che se il mister non ti motiva al punto giusto loro questi sono. Ma è difficile credere che preferiscano perdere la faccia come è successo ieri piuttosto che ritrovare da soli dentro di sè un po’ di mordente. Visto che sono dei professionisti.

Aggiungo, infine, che il cacio sui maccheroni di questa situazione è stata la faccenda del calcioscommesse. Che ha influito eccome sugli umori e sugli equilibri dello spogliatoio. Fin dal giorno in cui è apparso il primo articolo sul giornale riguardante l’argomento.

 

 

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