Il Verona, nel dicembre 2022, viveva una drammatica e pericolosa fase di transizione sia tecnica che economica. Era da poco finito il ciclo di Juric e Tudor, il bilancio era gravato da ricchi ingaggi pluriennali della rosa e la squadra inchiodata all’ultimo posto in classifica.
La prima svolta. Setti chiamò Sogliano, che è uomo molto più razionale e intellettualmente raffinato di quello che appare. Prima di quel Natale ci incontrammo una mattina in un bar in borgo Trento e mi rivelò: “Vorrei cambiare almeno 15 giocatori, servirebbero facce nuove per ridare nuovo entusiasmo. È finito un ciclo e non ne è stato aperto uno nuovo. Ma devo procedere con calma, sono appena arrivato e non posso mettere in pratica tutto quello che ho in testa. Inoltre non è fattibile riuscire a sgravare alcuni costi del bilancio in pochi mesi. Intanto bisogna cercare di condurre in porto la nave”. Da lì solo pochi e mirati accorgimenti conservativi, (Zaffaroni che affianca Bocchetti e l’ingaggio di Duda e Ngonge), ma sufficienti per acciuffare un’insperata salvezza allo spareggio.
Poi l’estate scorsa un mercato con il freno a mano: tanti nuovi innesti, sì, tuttavia sul groppone ancora la vecchia guardia. Insomma, la rivoluzione di Sogliano era rimasta (ancora) incompiuta, i conti erano in rosso e nel frattempo Setti apriva una trattativa con un fondo d’investimento per la cessione delle quote. Non casuale, a quel punto, la scelta pragmatica di ingaggiare un allenatore adatto ad attraversare questa incerta “terra di mezzo” come Baroni, uomo di buon senso e di equilibrio, non rampante e non egocentrico, non il più bravo in assoluto tra coloro che potevano arrivare, ma il migliore in rapporto alla nostra situazione deficitaria. La cambiale da pagare era il doversi arrabattare in mezzo a mille casini: spogliatoio non amalgamato tra nuovi e vecchi, facce spente, giocatori con la testa altrove, incertezza societaria, titubanze di un Baroni che certamente non è un leader maximo o un temerario. Morale? Classifica ancora da tregenda e un altro Natale al buio, con la spada di Damocle del sequestro giudiziario delle azioni del club e la trattativa col fondo d’investimento che saltava.
La seconda svolta. Ecco, qui si manifesta il paradosso. Del resto, nella storia, sono le grandi crisi ad aprire ai grandi cambiamenti. La deficienza finanziaria della società e i problemi giudiziari di Setti con Volpi fanno saltare finalmente il tappo. Setti non ha più tempo, non può più procrastinare e deve reperire soldi in fretta. Sogliano così trasforma un (gigantesco) problema in un’opportunità: “Ora cambio tutto, facce, volti e diamo aria nuova allo spogliatoio” mi dice in quei giorni. Il ds realizza finalmente la rivoluzione che aveva in testa da 13 mesi. Con piena soddisfazione di Baroni, che vede nel cambiamento la strada per la sua legittimazione: “Il mister ora è più sollevato, sente sua la squadra e la ritiene anche più forte tecnicamente” mi rivela Sogliano a febbraio. Il resto è storia nota: il Verona ingrana la quinta, girone di ritorno da decimo posto, 26 punti nelle ultime 21 partite e, a differenza dello scorso anno, salvezza conquistata per meriti tecnici e non demeriti altrui.
Ora la festa. Nei prossimi giorni la grande riflessione: cosa vuol essere il Verona? Un club che vive alla giornata, rasenta i muri e galleggia affannato e sopravvivente con risicati budget, oppure che decide di fare uno step e diventare di media fascia? È chiaro che la domanda ne presuppone un’altra: cosa farà Setti? Deciderà di continuare da solo, di farsi supportare da un socio, o di cedere tutte le quote?
Siamo arrivati a un bivio della nostra storia. Oggi sostenere una serie A è finanziariamente sempre più oneroso, tra nuovi fondi, ricconi del sud-est asiatico o munifiche proprietà americane che alzano l’asticella economica generale. Ed è un trend destinato a crescere sempre più velocemente – nonostante le resistenze degli storici padroni del calcio italiano – perché il capitalismo globale non conosce inibizioni (e nemmeno regole), il calcio è un po’ una zona franca degli affari e l’Italia (come l’Inghilterra trent’anni fa) oggi è potenzialmente la nuova frontiera di investimenti internazionali, con il business edilizio (leggi nuovi stadi e centri sportivi) come attrattore irresistibile anche (purtroppo) di nuove speculazioni.
Quindi Setti faticherà sempre di più a competere. Il giochetto spendo zero-mi salvo-incasso i diritti tv (o il paracadute) non può durare all’infinito. Un Sogliano non lo trovi facilmente e comunque lo stesso diesse è il primo a sapere che operazioni alla Ngonge, alla Serdar o alla Noslin – che sono state una combinazione di abilità, buone relazioni e fortuna – non si ripetono in automatico. Setti deve decidere cosa fare da grande: continuare a rischiare, mollare la mano, o farsi affiancare?