SETTI INVESTA O SI FACCIA DA PARTE

Dove siete piccoli giannizzeri del piccolo imperatore Setti? Voi che additavate Pazzini e Bessa come mele marce di uno spogliatoio per il resto lindo e puro? Narrazione semplicistica e furbetta, da veline ufficiali e acritiche. Bene, bravi, bis, per dirla con Franco e Ciccio, dacché è meglio ridere per non piangere.

C’è un senso tristissimo di nemesi in questa vergognosa retrocessione del Verona. Dopo il karma Pazzini (di sicuro consumato, forse bollito, ma mai sostituito, ancora pagato e tutt’ora capocannoniere), il cerchio si chiude con Bessa. Dice Ballardini in sala stampa: “Bessa è un talento puro, ma è arrivato da noi che era indietro, probabilmente non abituato a certi metodi di allenamento. Poi si è messo in pari”. Populista anche lui? Non ottimista anche lui? Anche lui facente parte del famigerato “ambiente ostile”?

Quante cazzate abbiamo sentito. Quante cazzate ci hanno raccontato. E se anche è diventata abitudine togliere l’accredito ai giornalisti critici (decisione partorita da chi giornalista non è) e querelare un blogger passionale e tifoso che ha presentato Sanremo, conosciuto i più grandi personaggi e girato il mondo, le cazzate rimangono cazzate.

La verità è una: Setti non è più credibile. Ha disatteso le promesse (consolidamento in A e centro sportivo), è stato smentito dai fatti nelle sue dichiarazioni su Volpi e – nonostante i ricavi milionari di plusvalenze, diritti tv e paracaduti – da tre anni non è in grado finanziariamente di garantire la serie A al Verona, club blasonato che come ha ricordato stasera anche il radiocronista di Radio Rai “ha vinto una scudetto e ha una grande tifoseria”.

Motivi sufficienti per chiedergli un netto passo indietro. C’è una responsabilità nel guidare e presiedere una società come l’Hellas. E’ necessario un rispetto, sostanziale e formale. Oggi c’è un presidente che senza più un vero investimento non può chiedere realisticamente 70 milioni per la cessione del club.

Oggi Setti è di fronte a un bivio: o investe, o forse è meglio che si faccia da parte. Il Verona deve ripartire.

NUOVO MIRACOLO ITALIANO

La mezz’ala dal lauto ingaggio, quella che zittiva, si divora un gol determinante e non zittisce più nessuno. Chissà ora cosa scriverà sui social, dove è uso illuminarci con le sue stravaganti elucubrazioni. D’altronde è pure coerentemente il capitano di questo meraviglioso Verona settian-pecchiano. Nulla è mai per caso. Ognuno ha i suoi simboli.

L’allenatore invece non se ne può star zitto, in questo calcio iper-mediatico è obbligato a parlare. Ma il disco è sempre quello. Suono stonato, pare un vecchio giradischi che va al contrario. Che vuoi dire? Io sì che ho perso le parole.

Le ha perse anche il presidente. Dove sono le lettere aperte? E i video-messaggi fiume? Le citazioni a caso del “Born to tribular”? Le digressioni su bilanci, centro sportivo, antistadio e settore giovanile? Ecco, parliamone davvero, ma seriamente. C’è il record dell’ora da superare e i record, si sa, sono lì in attesa di essere battuti.

Ritratti e istantanee di un nuovo miracolo italiano. Riuscire a sciupare un calendario stra-favorevole (il Benevento condannato e un Bologna già salvo) e tentare la vera impresa sportiva: rischiare seriamente di retrocedere in un campionato dove la pur volenterosa e apprezzabile Spal, nonostante sette risultati utili consecutivi (segno di solidità tattica nella mediocrità tecnica), è ancora a soli tre punti. Ce la faranno i nostri eroi?

Sassuolo e Genoa (pure lui già salvo) le ultime chiamate. Servono almeno 4 punti per arrivare ad affrontare la Spal con qualche chances.

PERDONO ANCHE SE VINCONO

Vivono in una bolla. Fuori dalla realtà, distanti dalla sofferenza, indifferenti alla passione. E tronfi sollevano il ditino verso la bocca (nel gesto di zittire) dopo un rigoretto tirato pure male, decine di prestazioni inutili e storiche debacle. E superbi e spudorati in sala stampa accusano: “Non è facile giocare dopo quello che abbiamo subito”.

Abitano in una campana di vetro. Gli occhi chiusi e l’ovatta intorno. Vincono una partita di mediocre fattura e segnata da un episodio e si ergono a professorini. Ridicolo, surreale, grottesco deja vu. Il loro allenatore – una volta tanto vincente, forse a sua insaputa – è come il suo presidente: tende alla gaffes, nonostante l’inconsistenza di gran parte delle domande a lui rivolte: “Forse questa vittoria è figlia anche delle dimissioni del nostro direttore sportivo, che hanno dato una scossa all’ambiente” dice. Frase criptica, dalle molte interpretazioni e dai mille sottendimenti. Dimissioni che “non approvo” continua l’allenatore. Dunque, per la proprietà transitiva, se non si condividono delle dimissioni che però a detta del tecnico hanno portato a una vittoria, la vittoria è un fatto casuale, non previsto, indipendente dalla volontà di chi (l’allenatore) dovrebbe crearne le premesse? Kafkiano. Ma anche coerente, sulla falsariga del leggendario e indimenticabile verbo del nostro: “Il calcio non ha una logica”.

Una cosa è certa. Società e squadra da mesi hanno segnato una distanza netta e consapevole dalla tifoseria e più in generale dalla gente del Verona. Un fatto grave e (a mia memoria) senza precedenti. E difficilmente sarà una salvezza (non mi stanco di ripetere, comodamente raggiungibile dato l’agevole calendario rispetto a Crotone e Spal, sarà un’impresa non salvarsi e a volte sembra che siano in grado di compierla, vedi Benevento) a poterla colmare. Come ho già avuto modo di scrivere, qui c’è un vulnus che va molto al di là dell’aspetto tecnico, agonistico, di una classifica o di un pallone in rete. Società e squadra da tempo si sono creati l’alibi perfetto: se ci salveremo sarà nonostante l’ambiente; se retrocederemo sarà colpa dell’ambiente. Un noi contro di voi che lascia senza fiato. Onanismo metaforico, autoreferenzialità paracula. Ieri la mezz’ala con il ditino alzato sulla bocca e l’allenatore l’hanno ribadito: giochiamo solo per noi stessi.

E a morire è il senso sociologico e assoluto del calcio, “l’unica religione che non conosce atei” come scrisse Eduardo Galeano: la condivisione, il campanilismo, il giocare per una bandiera, una città, un qualcosa e un qualcuno. Unire e non dividere. Rappresentare e non estromettere. Aspetti che valgono molto di più di un’effimera annata, o di una possibile salvezza che rischia di non creare nemmeno consolidamento (l’anno prossimo saranno fatti investimenti, o ci aspetta un altro campionato del genere?). Per questo hanno già perso anche se vincono.

QUESTA È LA STORIA…

Questa è una storia di ridicola e drammatica arroganza. Ridicola per la modestia dei suoi protagonisti. Drammatica perché c’è di mezzo il Verona.

Questa è la storia di un presidente con pochi denari e ancor meno credibilità, smentito nelle sue smentite su Volpi e incapace di realizzare le due promesse cardine del suo mandato: il centro sportivo e il consolidamento in serie A. Un presidente che dopo anni di gelo e noncuranza sentimentale ha provato improvvisamente e disperatamente a conquistarsi la piazza con una lettera scritta pure male, un’ora interminabile di video e una serie di interviste accomodanti (ma alle domande vere di Vighini è andato in difficoltà). Un presidente che ha detto restando serio. “Il Verona vale 70 milioni”.

Questa è la storia di un direttore sportivo che da ds in carriera ha esercitato poco. Un ds frenato da una contraddizione: decisionista, ma di scarsa personalità. Così si è circondato di collaboratori che ne hanno ancor meno, in primis l’allenatore. Un direttore sportivo che ha sistemato un po’ i conti e che nella sua prima stagione in B ha indovinato pure qualche colpo (Bessa, Fossati, Bruno Zuculini e Ferrari), ma che quest’anno ha sbagliato di tutto e di più, nel mercato e nella gestione tecnica ed emotiva (i casi Cassano, Pazzini e Caceres hanno lasciato macerie morali). E che ha avuto la debolezza di circondarsi di poco acuti signorsì,  anziché confrontarsi anche solo indirettamente con la critica. La poca lungimiranza e una costante sindrome di accerchiamento, corroborata da futili e insensati appelli all’ottimismo, hanno fatto il resto. Oggi il ds si dimette, una decisione surreale e irritante talmente è fuori tempo massimo. . 

Questa è la storia di un allenatore che faceva l’assistente. Un allenatore che in conferenza stampa non parla mai di calcio, ma di “spirito”, “approccio”, “episodi”, “crescita”, “fiducia” in una serie sconcertante di banalità e parole vuote. Un allenatore che in campo non ha saputo migliorare un solo giocatore (Fares addirittura si è involuto), la cui fase difensiva fa acqua e che via via ha smarrito anche le sue (poche) certezze arroccandosi nella più letale confusione. Un allenatore che si è spinto negli abissi più profondi dichiarando: “Il calcio non ha una logica”.

Questa è la storia di chi ha continuamente ricercato alibi. Di chi ha minimizzato. Di chi ha furbescamente colpevolizzato l’ambiente o alcuni giocatori poi epurati. E’ la storia di chi non ha posto domande. E’ la storia di chi ha scambiato erroneamente il diritto di critica con la libertà di applausi, a favore ovviamente della seconda. E’ la storia dei professionisti del vittimismo che scambiano normalissime critiche per attacchi personali. E’ la storia di chi prova a spegnere le voci non allineate. Ma poi l’unica cosa che si spegne è la loro pietosa tracotanza.

IL NOSTRO VERONA NON È IL VOSTRO VERONA

Ci avete quasi tolto l’anima. E anche dovessimo salvarci, sappiatelo, sarà senza gloria.

Fatevi un giro sugli spalti, cari addetti ai lavori. Ascoltate per una volta gli umori di una città delusa e anche un po’ tradita. Parlate, anche solo cinque minuti, con quelle persone che dovreste rappresentare. Le persone di tutti i giorni, piccoli imprenditori, commercianti, operai, lavoratori, bottegai che si fanno il mazzo tutta la settimana aspettando di abbracciare la loro passione – il Verona, LA squadra della città – e poi devono sorbirsi spettacoli indecorosi.

Oggi la questione non è più nemmeno mettersene dietro tre su venti (sai che impresa!). Ribadisco, il calendario ti sorride e se vinci a Benevento (che ha dieci-punti-dieci! Sarà mica impossibile?) ti ritrovi a un punto dalla Spal (ora salva) e con lo scontro diretto in casa. Ripeto: sarà un’impresa non salvarsi, altroché, con il destino che ti ha messo in mano queste insperate fiches.

No, oggi la questione è un’altra e prescinde dall’esito. Avete fatto a fette la passione sportiva, l’ansia agonistica, l’emozionalità di un risultato. E sapete perché? Perché il VOSTRO Verona, cari addetti ai lavori, non è il NOSTRO Verona.

Noi però rimaniamo con il nostro. Fieramente. E se sarà salvezza festeggeremo tra noi e per noi, perché è il Verona, squadra, pensiero e sentimento della nostra città. Non staremo tra voi e non condivideremo con voi, che dal vostro piedistallo non avete mai capito, che rinchiusi in una bolla autoreferenziale nemmeno volete capire. E se retrocederemo sarà comunque sempre il nostro Verona. Nulla cambierà.

Ma ci salveremo, forse in campo, di sicuro nel nostro senso di comunità. Voi ci avete quasi tolto l’anima. Ma quasi, appunto. Sapete, quella è impossibile cavarla tutta finché ci stringiamo tra noi. E poi ricresce, dimentica questi giorni e mesi tristi e torna forte, fortissima. Nonostante voi, che non sarete mai attori protagonisti di questo film.

 p.s. Buona Pasqua a tutti i lettori. Questa  è un pazza vita.  Dedicate tempo a chi volete bene.

SALVARSI È UN OBBLIGO MORALE, NON UN’IMPRESA

Non sarò umorale. Non sarò sorpreso. Il Verona è questo ed è sempre stato questo. O meglio: a gennaio qualcosa è cambiato e l’Hellas ha trovato più compattezza (il famoso stato d’animo), ma la squadra e la sua conduzione tecnica e sportiva rimangono lacunose. Risultato? Il Verona, in questo stravagante e tristemente mediocre campionato di bassifondi, se la può giocare con squadre in crisi (Torino e Chievo), o demotivate (Fiorentina), ma appena l’asticella si alza tornano prepotenti i suoi limiti tecnici, tattici e atletici. Eppure, nonostante tutto, grazie a quella compattezza e a un calendario amico può salvarsi.

Paradossalmente rimango fiducioso anche dopo l’ennesima figuraccia di una stagione di umiliazioni da collezione. Si badi bene: fiducioso, non ottimista. La fiducia è un concetto razionale, l’ottimismo una categoria dello spirito che lascio volentieri al nostro direttore sportivo. Il calendario del Verona è il meno impegnativo tra le pericolanti e certamente il più adatto alle nostre caratteristiche, ergo ai nostri deficit. Troveremo diverse squadre con meno motivazioni (Benevento, Bologna e Udinese e forse pure Genoa e Cagliari) e dunque il match point in mano l’abbiamo noi. La chiave sarà ovviamente non perdere contro chi la bava alla bocca ce l’avrà davvero, vedi Spal e probabilmente Sassuolo.

Sia chiaro: dato il deprimente panorama della lotta salvezza appena richiamato, è chiaro che restare in serie A non sarà un’impresa memorabile, ma solo un obbligo morale nei confronti di una piazza che per il Verona investe tempo, denaro, sentimenti e sogni. E che quest’anno ha subito l’onta di storiche umiliazioni. E che dopo uno 0-5 si deve sorbire la conferenza stampa di un allenatore che dice che lui non parla di cose tecniche (di che dovrebbe parlare un tecnico, di grazia?). Eppure, ripeto, ciò che conta è che ci possiamo salvare. L’ho scritto dopo la debacle di Roma con la Lazio, lo ribadisco oggi a qualche ora di distanza dall’inopinata sconfitta di ieri. E sapete perché? Perché, come dice Pecchia, “il calcio non ha una logica”. Il suo Verona di sicuro.

LO STATO D’ANIMO DI VALDANO (E FUSCO)

“Una squadra prima di tutto è uno stato d’animo” scriveva Jorge Valdano nel 1986 in Miedo Escenico, un saggio pubblicato sulla spagnola Revista de Occidente.

E’ una frase cara a Filippo Fusco, che la menzionava nell’intervista che mi concesse la scorsa estate, e al “gemello” non troppo diverso Fabio Pecchia, che l’ha ricordata di recente a Telenuovo quando gli chiesi una valutazione del mercato di gennaio. “Ora ho una squadra più vicina alle caratteristiche che volevo, una squadra è prima di tutto uno stato d’animo” mi disse Pecchia.

Questa sua dichiarazione è passata abbastanza in sordina, ma è rivelatrice: nel Verona qualcosa è cambiato. La vittoria con il Torino – come ho avuto modo di scrivere sul mio facebook quella domenica, e di affermare il lunedì successivo a ‘Ghe la femo’ e nei giorni scorsi al ‘Gialloblu Live’ – è stata la prima vera e convincente della stagione per la sua logicità, il suo equilibrio e la sua genesi. Chi mi segue ricorda invece che non mi avevano per nulla convinto sul piano della continuità tecnica le vittorie rotonde con Sassuolo, Milan e Fiorentina. Paradossalmente troppo bulimiche e straordinarie e dunque effimere.

Non è questione di essere profeti, o indovini, ma di vedere e “leggere” il calcio, o quanto meno provarci senza sconti o pregiudizi. Fusco a gennaio, un po’ per bravura (Vukovic, che ha sistemato la difesa e migliorato Caracciolo) e un po’ per fortuna (la promozione di Calvano, causa infortunio di Zaccagni), ha forse creato il famoso “stato d’animo” caro a Valdano. Con sei mesi di ritardo, ma con la tenacia di non darsi per vinto e con la consapevolezza interiore degli errori fatti (errori tecnici, il giudizio sulla sua opera amministrativa Cottarelli style l’ho sempre ritenuto positivo e distinto). Pecchia dal mercato invernale è uscito legittimato e rafforzato nello spogliatoio. La società (Fusco) ha operato in controtendenza fregandosene anche degli strali dell’ambiente e delle nostre critiche: anziché mandare via l’allenatore, è stato ceduto chi – pur mantenendo sempre intatta la sua professionalità – forse non ci credeva e non era allineato fino in fondo. La squadra ancora oggi ha evidenti limiti tecnici, l’attacco spuntato, ma è più solida, disposta meglio e molto operaia.

Dopo la brutta sconfitta con la Lazio scrivevo in questo spazio: “Potremmo addirittura salvarci”. Dopo la vittoria con la Fiorentina ricordavo che sarebbe servito arrivare almeno a 24 punti dopo la partita di Milano con l’Inter per avere concrete chances di salvezza. Qualche lettore mi scrisse che non lo potevo pretendere. Siamo a 22, ma dovendo recuperare Benevento e con di mezzo l’Atalanta in casa. Ci siamo. La strada è giusta.

UN GESTO UMANO NEL CALCIO MALATO

The show must go on? Ma a volte anche no, di grazia. The show must go on? Non sempre, per fortuna. Giusto rinviare la serie A dopo la morte di Astori. Una disgrazia che lascia senza fiato. Non si poteva far finta di nulla, non ci si poteva limitare allo strapuntino simbolico del minuto di silenzio (pardon di applausi, siamo in Italia ahimè). Cos’è un gol in confronto? Cos’è uno scazzo sulla tattica o le sostituzioni? Cos’è l’analisi di una vittoria o di una sconfitta? Meno di nulla. La decisione di Malagò, personaggio criticabile sotto mille altri aspetti, è stata sacrosanta, non scontata (provateci voi a fermare una macchina bulimica e milionaria) e soprattutto umana. Sì, ecco, un gesto umano in un mondo del calcio malato. 

Oggi torniamo a litigare (ma spero anche un po’ a riflettere) ed è giusto, sacrosanto. Ma ieri no, non lo era. Oggi sappiamo che la vita e il calcio continuano, dunque le polemiche, i dibattiti, i litigi, le opinioni. Per fortuna. Ma ieri no, nulla poteva continuare.

Ho sentito in molti lamentarsi, qualcuno addirittura ha delirato la tesi strampalata che siccome “muore gente ogni giorno”, allora, no, “non ha senso fermarsi”. Un’equazione idiota, superficiale, acida, che con l’intento di non categorizzare la morte la categorizza più di ogni altra cosa. Furbi, loro. 

Qualche altro ha parlato di “gesto ipocrita”. Processi alle intenzioni, cultura del sospetto infondato (dagli stessi magari che mettono la testa sotto la sabbia davanti ai sospetti fondati), persone che guardano sempre il male in ogni gesto. L’uomo Astori era conosciuto da tutti i colleghi, che evidentemente non erano in condizione di giocare. Ipocrisia? No, e anche fosse (ma non lo è)  meglio l’ipocrisia se l’alternativa è la cinica e disumana sincerità.

LA TRASPARENZA È ANCORA LONTANA

Setti dice che “viene prima il bilancio del risultato sportivo”, che “l’importante è non fare la fine di chi è fallito” e che “se retrocederemo cercheremo di fare una squadra per tornare su”, ma che se non dovessimo farcela non sarebbe un dramma perché “guardate altri club che fanno fatica a risalire”. Sembra un inno al sei politico, alla mediocrità: il massimo che possiamo ambire con lui è un affanno in A, se non un’altalena tra A e B, ma forse nemmeno quella. La miglior risposta l’ha data un grande ex come Domenico Volpati, uomo intelligente e libero, da sempre un po’ coscienza critica delle vicende gialloblu: “Ok i bilanci, ma ai tifosi non puoi togliere i sogni”.

Altroché il consolidamento nella massima categoria tanto sbandierato, la prima grande promessa disattesa da Setti. La seconda è il centro sportivo, di cui Setti tanto si riempie la bocca da cinque anni e mezzo, ma a parte un rendering e i soliti proclami mediatici ad oggi non c’è ancora nulla di concreto.

Potremmo poi ricordare i tanti dinieghi, poi anch’essi smentiti, sulla figura di Gabriele Volpi per misurare la credibilità del nostro amministratore unico. Potremmo rammentare i bilanci della Falco analizzati da Verona col Cuore che attestano che ci sono state due gestioni Setti, una danarosa (con circa 20 milioni ricevuti da Falco) e l’altra austera (il flusso finanziario si è interrotto), ed è facile intuire che Sogliano era solamente la pedina manageriale del disegno del primo Setti, quello danaroso. Dunque accusare Sogliano di aver speso troppo, non solo è inelegante (ma si sa ognuno ha lo stile che si merita), ma significa negare i motivi, la ragione sociale per cui Setti ha preso il Verona ed è anche l’ennesima mezza verità che distoglie dalla verità completa: quel Verona poteva  spendere, anzi doveva, per investire e creare plusvalenze. Meccanismo perfettamente riuscito nella gestione dell’ex ds e dunque del primo Setti. Se poi è cambiato qualcosa (ed è cambiato qualcosa, dicono i bilanci di Falco) non è certo colpa di Sogliano, ma di storie consumate immagino nei piani più alti.

Setti, tra le altre cose, nell’incalzante intervista di Vighini dice: “Più volte ho provato a far entrare Volpi nel Verona”. Ma poi mi chiedo: se i conti lasciati da Sogliano erano tanto disastrati perché chi è venuto dopo (Gardini e Bigon) ha speso milioni di euro per Viviani (cartellino più contratto) e Pazzini (contratto milionario quinquennale)? Spese milionarie che, a differenza di quelle di Sogliano (che hanno garantito 25 milioni di plusvalenze e tre anni in A più il paracadute, dunque indirettamente 100 milioni di ricavi), sono state una zavorra economica per il Verona. Fatti questi che smontano la narrazione settiana.

Potremmo poi chiederci: perché un talent scout contrattualizzato dal Verona, intendo Dritan Derwishi, era da un anno l’amministratore unico della Falco e al momento lo è anche della nuova società che è stata trasferita in Italia, la H23? E’ come se un collaboratore di Marotta, per dire, fosse l’amministratore della controllante della Juventus. Inusuale. Magari Setti, da qualche settimana improvvisamente verboso con i media, ci spiegherà anche questo.

Qualche timidissimo passo avanti verso la chiarezza l’amministratore unico lo sta facendo, ma ancora non basta. Siamo ancora lontani da una vera trasparenza.

 

PRONTO SETTI?

Se il presente e il futuro piangono, allora consoliamoci con il passato. Suggerisco a Setti di ripristinare un vecchio format della tv e farlo suo. ‘Pronto Raffaella?’ potrebbe diventare ‘Pronto Setti?’ e al posto dei fagioli nel barattolo potremmo mettere le inesattezze, gli omissis e le mezze verità che ogni volta l’amministratore unico del Verona ci racconta. Prova poi tu a indovinare quante sono. Provaci.

In effetti Setti, una volta finito l’inchiostro per le lettere, si è dato al video. I risultati sono ancora un po’ altalenanti – 54minuti54 sul web (altroché tempi di recupero, qui si è andati ai supplementari) sono leggeri come un convegno di numismatica – eppure sorprendenti. Cioè sorprende che ci sia qualcuno che è riuscito ad arrivare fino in fondo. Pare che quei pochi eroi si stiano riprendendo solo ora. Solidarietà.

Ma non sottilizziamo. E’ solo questione di prenderci gusto e poi si impara: i video di Setti potrebbero diventare una rubrica settimanale, tipo il famigerato “Matteo risponde” di renziana memoria, o i mitologici appelli agli italiani di Berlusconi con la calza sulla telecamera e i libri dietro (ma erano veri?).

‘Pronto Setti?’ sono sicuro diventerà virale, sbancherà gli auditel di tutto il mondo, pronto per la BBC, o – perché no? – per sostituire il David Letterman. L’usato sicuro non tradisce mai. E passi per il profluvio di demagogia, riuscita pure male. Funziona così: l’amministratore unico seleziona le due-tre domande che preferisce, non troppo impegnative, cita il nome di due-tre tifosi e ne invita uno in sede per farsi il selfie, così dar da intendere che lui, dopo anni di alzate di spalle, silenzi, colori sballati e gaffe memorabili, improvvisamente ci tiene al popolo del Verona e al senso di appartenenza. Come se quel popolo avesse l’anello al naso. 

Restano sempre da indovinare i fagioli nel barattolo, pardon, le inesattezze, gli omissis e le mezze verità dette. E’ più facile salvarsi.

P.s. Potremmo addirittura salvarci. Dalla 31° alla 37° il calendario è abbordabile, con molte squadre già senza obiettivi. Ma ci stiamo affidando a un miracolo (la salvezza del Crotone dell’anno scorso non è altro che una preghiera ai santi, non è calcio) e all’altrui indolenza. Pecchia a Telenuovo ha detto testualmente: “Il calcio non ha una logica”. Allora affidiamoci ai maghi o alle fattucchiere, che serve Coverciano? Dunque se ci dovessimo salvare non ci sarà logica. Perfetto allora: salviamoci, ma poi questi signori se ne vadano a casa.